sabato 31 ottobre 2015

Perché Halloween è la mia festa

Ho tanti pensieri contrastanti nello scrivere questo post. Esso giunge in ritardo rispetto all'appuntamento fisso del giovedì, e di questo mi scuso. Quel giorno non ero in grado di scrivere per diverse motivazioni, e pensavo che per questa settimana L'Anima del Mostro sarebbe rimasta in silenzio. Invece il Mostro vuole dire ancora qualcosa, in occasione della sua festa e della confusione che essa comporta ogni anno.
Halloween è una festa che mi piace e a cui tengo; una festa che non ho mai festeggiato nel modo in cui intendevo farlo, ma sempre ripiegando su qualche altra cosa; una festa che viene osteggiata come tutto quello a cui tengo, e che, di conseguenza, devo difendere, perché se un giorno cessasse di esistere Halloween significherebbe che nel mondo non c'è più posto per quelle cose, e quindi per me.

L'opinione media riguardo a questa festa è che sia un evento consumistico che ha valenza solo per i bambini, deriva dal loro apprezzamento per le cose banali e dalla tendenza tutta americana a farne festività, e fa vendere molte zucche.
L'opinione del cristiano medio, del bigotto, è che sia un astuto stratagemma del diavolo e delle potenze del male di attrarre seguaci per le sue nefande attività, corrompendo le anime dei bambini che "lo adorano inconsapevolmente". Poi come facciano i bambini ad adorarlo inconsapevolmente non lo so, ma sicuramente lui me lo saprà spiegare.

Ora, in quanto medie -e se non si è capito, "medio" lo sto usando in senso dispregiativo- queste categorie umane non sanno, non approfondiscono, molte cose.
Un qualunque libro o sito aggiornato vi può parlare dettagliatamente del Samhain, la festa celtica da cui deriva Halloween. In breve, Samhain era il capodanno celtico, rappresentava l'inizio dell'inverno, il geihmredh, una delle due parti in cui i Celti dividevano l'anno. In tale occasione il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti diveniva più sottile, e permetteva alle anime, per una notte, di tornare a camminare sulla terra, come anche ai vivi di accedere all'aldilà. Questa cultura era fortemente legata al concetto di ciclicità, del tempo, delle stagioni, e questo era uno dei punti più importanti di questo ciclo. Purtroppo, conosco questa cultura meno bene rispetto ad altre e non posso dire altro. Ma sono in grado di riconoscere il potere contenuto in questa idea, il misticismo, la spiritualità. Onestamente, penso spesso che tutte le storie che l'umanità ha elaborato nel corso dei millenni, sul mondo e sui suoi segreti più intimi, non debbano essere viste come escludenti fra di loro, ma che si rifacciano ad un'unica base, vera, che noi non conosceremo mai e che vale comunque la pena indagare. Ma sto divagando.
Cosa voglio dire, voglio dire che questo giorno ha quantomeno una grande valenza antropologica, ed è legato anche alle festività cristiane dei Santi e dei morti, poiché un po' tutte le festività occidentali derivano dall'incontro di più tradizioni diverse, praticate da uomini che erano tutti quanti, indipendentemente dalla religione, uomini.
Il passaggio da Samhain ad Halloween ("All Hallows' Eve", in inglese arcaico "Vigilia di Ognissanti")  è avvenuto attraverso i secoli e grazie alle migrazioni dei popoli nel mondo. Oltre che alla festa celtica, Halloween deve la sua forma odierna al racconto popolare, anch'esso proveniente dall'Europa settentrionale, di Jack'O Lantern, un briccone rifiutato sia dal Paradiso che dall'Inferno e costretto a viaggiare con una lanterna accesa con il fuoco infernale per farsi luce attraverso le tenebre. Questa lanterna in origine era stato ricavata da una rapa, e venne sostituita dalla zucca a causa di una carestia che rese queste più comuni.
Si è giunti così al 31 ottobre, quando ci si traveste da creature della notte (morti viventi, vampiri, streghe, diavoli), si intagliano le zucche per inserirvi una luce (in riferimento a Jack'O Lantern) e si insiste sul lato oscuro della realtà, sul sovrannaturale, sulla morte.

Ora, suonerà scontato, scritto da uno che ha intitolato il proprio blog "L'Anima del Mostro", ma lo devo scrivere: l'oscurità non esiste? La paura non è parte integrante dell'essere umano? La morte non ci lega tutti quanti, accomunandoci nel medesimo destino che ci tocca indipendentemente da come viviamo?
Perché si ha paura di parlare della paura? Gli antichi raccontarono storie di fantasmi fin dalla notte dei tempi, le raccontarono per comunicare, per esprimere la loro visione, quello che sentivano.
Fingere che ci siano soltanto la luce e il bene significa ignorare l'altra faccia della medaglia, ma non perché la ignoriamo essa smette di esistere. Il fatto che, durante una conversazione, appena uno inizi a parlare di morte gli astanti esclamino "No, per favore, non parliamo di queste cose" non cambia il fatto che tutti loro, prima o poi, moriranno. E quanta arte è stata fatta per la morte, sia stato per paura o per il bisogno di conoscere?
Io sono felice che alla fine di ottobre arrivi Halloween, perché in questo modo almeno un giorno all'anno è dedicato a questo lato, alla parte complementare di cui non si vuole parlare. Sono felice che almeno un giorno all'anno sia dedicato all'oscurità, alla Notte che per i Greci era la madre di molte delle divinità più antiche e alla quale Novalis scrisse i suoi inni, alle tenebre dell'irrazionale dove hanno origine le paure e gli incubi, sì, ma anche tutte i pensieri positivi e tutti i sentimenti, ai fantasmi e agli spiriti dei morti, al fatto che la morte non è una fine per (quasi) nessuno, che i vivi sono collegati ai morti, e che i morti, in alcuni, o perché si trovano in Paradiso, o perché sono comunque consapevoli del mondo che continua dopo di loro, possono continuare ad amare i vivi, magari lasciando loro qualche regalino la notte tra l'1 e il 2 novembre, come nella sicilianissima tradizione dei morticini, per la quale gli antenati portano regali ai bambini, come mi raccontavano quando ero piccolo e ritrovavo, la mattina del 2, delle sorprese ai piedi del letto.

Perché questo post? Perché ogni anno sento in giro o leggo su Internet affermazioni stupide come quella che ho citato prima. La stupidità mi fa molta più paura dei fantasmi.
Questa stupidità, questa bigotteria, questa incapacità di accettare l'altro lato della realtà, sono gli stessi che vorrebbero sopprimere ogni cosa che amo: quelli per i quali la letteratura e il cinema dell'orrore mettono in contatto con le forze del male e non dovrebbero esistere; quelli per i quali il fantasy richiama la magia e quindi il male, parla di cose che non esistono e per questo sono pericolose, e che quindi non dovrebbe esistere; quelli per i quali i fumetti e i videogiochi contengono violenza e cose che non esistono e quindi non dovrebbero esistere; quelli per i quali il Metal e lo stesso Rock sono strumenti del diavolo che attirano le anime umane all'Inferno, per i quali vestirsi di nero significa essere portatori del male, per i quali le mie parole sono il male, per i quali io, che vivo per tutte queste cose, sono il male.
Difenderò Halloween perché credo in ciò che rappresenta, perché la sua natura è la mia natura, perché senza di essa il mondo non avrebbe per me attrattiva, nulla che mi rendesse un individuo rispetto a un mare di organismi che, senza individualità, sarebbero tutti uguali.
Vorrei che quante più persone festeggiassero questo giorno speciale, questo lascito di un'epoca in cui gli esseri umani sentivano in modo più intenso di essere parte di quella natura che hanno tradito e vessato, tanto da sentirsi superiori ad essa. Vorrei che tutti ricordassero questa frase di Stephen King, che è quella che meglio esprime come vedo questo giorno:

«È il giorno in cui ci si ricorda che viviamo in un piccolo angolo di luce circondati dall'oscurità di ciò che non conosciamo. Un piccolo giro al di fuori della percezione abituata a vedere solo un certo percorso, una piccola occhiata verso quell'oscurità.»

giovedì 22 ottobre 2015

Preghiera della notte #1

PREMESSA: questo post è diverso dai precedenti, perché qui non voglio argomentare, informare o sostenere una tesi, solo scrivere un pensiero. Ci saranno altri post come questo, probabilmente li intitolerò Preghiera della notte #2, #3 e così via.


A volte ci penso e mi rendo conto che la vita è costituita sul dolore. Sul dolore e sulla morte.
Non ci penso così spesso. Molto spesso, direi. Diciamo, non sempre.
Schopenhauer sosteneva che la vita è un pendolo tra il dolore e la noia, in cui, di tanto in tanto, si inseriscono brevi attimi di felicità, che pure è illusoria, poiché deriva dall'aver placato un dolore (avere risolto un problema, avere soddisfatto un istinto), e alla quale subentra immediatamente un nuovo dolore nel momento in cui ci si rende conto di avere un altro bisogno, un'altra mancanza. Io condivido in parte il ragionamento di Schopenhauer, e quando l'ho studiato ho elaborato un mio concetto da integrare alla sua filosofia, e cioè, che per quanto la felicità sia quantitativamente inferiore al dolore, qualitativamente essa è così bella e così importante, da poter riscattare, da sola, tutto il dolore che ci è voluto per provarla.
Un po' come quando nasce un bambino, una nuova vita, e tutto il dolore provato per partorirlo scompare davanti alla gioia della maternità (o, almeno, così mi hanno detto essere la maternità, io non l'ho ancora provata).

Io credo di credere in quello che ho scritto. Eppure, a volte questa convinzione scompare.
Ci sono vite che della felicità non hanno idea.
Ci sono progetti bellissimi che annegano per un piccolo errore, futuri che sembravano scritti ed è bastato che un terzo elemento, un estraneo che non c'entrava assolutamente nulla con le persone che che progettavano quei futuri, capitasse all'improvviso nelle loro vite e le distruggesse.
Proviamo a fare delle cose e ci mettiamo del nostro meglio. A volte le portiamo a compimento, altre volte non ne siamo in grado, e poi altre volte qualcos'altro ci impedisce di farlo, e io continuo a domandarmi il perché. Come continuo a domandarmi il perché del dolore.
Ce lo domandiamo tutti, alcuni danno la loro risposta e nascono il Libro di Giobbe, gli scritti di Schopenhauer e le poesie di Leopardi. Sono sicuro che ci sia un pezzo di verità in ciascuna delle loro risposte, e altrettanto sicuro che anche se ci fossero altre migliaia di indizi sul dolore, dopo averli riuniti non ne sapremmo ancora nulla. Vale per tutte le domande esistenziali. Ma, ciononostante, io provo lo stesso a spiegarmelo sulla base di quello che sento.

A volte mi sembra uno strano genere di amante, il dolore: l'uomo desidera evitarlo, lo rifugge e lo scaccia, ma prova al contempo uno strano amore perverso nei suoi confronti, come dimostra tutta l'arte che è stata fatta in suo nome nel corso dei secoli, e vi è come un senso di diletto, di compiacimento per la propria serenità che si disgrega, nel contemplare sé stessi in preda della sofferenza come una barca nella tempesta; più sono alte le onde, e più si esalta, il piccolo cuore perverso, per la sensibilità che scopre nel proprio animo, per come questa sensibilità trovi parole, colori, suoni in grado di manifestare la sua angoscia e di compenetrarla, e continua, si strugge quasi per trovare espressioni più alte, perché il male è così profondo che bisogna sforzarsi per raggiungerlo. Probabilmente non è quello che capita a tutti, ma spesso mi sento così.
Altre volte però il dolore è troppo forte, non è più un'amante, ma un'arcigna figura che si staglia davanti alla luce, così alta da nasconderci sotto la sua ombra, così forte da avvinghiarci in una morsa gelida, squassante. In quei casi non c'è nessun languore, nessun compiacimento: in quei casi c'è solo da gridare perché passi, e gridare più forte perché non passa, sperando che mentre gridiamo si lacerino le nostre corde vocali ed esploda il nostre cuore, liberandoci da quella morsa senz'anima che dell'anima fa brandelli.

Per questo penso che qualunque conclusione scrivessi sarebbe condizionata da come mi sento nel momento in cui la scrivo: probabilmente tranquillizzerei tutti dicendo che tanto passa, che l'importante è essere positivi, credere in sé stessi e negli altri, andare a messa e mangiare sano, che la vita è bella e se le sorridi ti sorride di rimando...ma la verità è che, in un momento come questo, non mi sento affatto in grado di scrivere una cosa del genere. Se dovessi dare una conclusione adesso, sarebbe: forse il dolore dopo un po' passa, ma poi ritorna sempre e comunque e non puoi farci niente. Puoi solo sperare di non esserne sopraffatto, e per questo vale la pena resistere; ma credere che il dolore sia solo una parentesi, e come la parentesi possa essere ignorato nel complesso delle esperienze di una vita, questo lo ritengo stupido.
Una frase che mi piace molto e con cui concludere è quella che apre The Darkness II:

«Non puoi sconfiggere i tuoi demoni, ma hai il dovere di provarci.»

giovedì 15 ottobre 2015

Beowulf II - Kenning per dire eroe

Volevo leggere il Beowulf fin da bambino perché è una storia di mostri e delle battaglie fatte contro di loro, e di questo ho parlato nel post "Demoni dall'Altrove". Ma avendolo letto ad un età più matura, ho scoperto la dimensione umana del Beowulf, e posso apprezzarla al meglio.


Questo è il primo testo anglosassone che leggo, e anche il primo testo antico germanico, quindi non sono in grado di fare un discorso su questa letteratura; vorrei però soffermarmi su un elemento che trovo bellissimo, vale a dire le kenningar (singolare kenning). Si tratta di una figura retorica, sostanzialmente una perifrasi per indicare qualcosa, che ricorre spesso quando se ne parla, come per gli epiteti. Le kenningar possono indicare persone, animali, luoghi o oggetti, e trasmettono una visione poetica che piace per la sua spontaneità: non si tratta di metafore elaborate, il mare è chiamato via delle balene, la battaglia è la pioggia di frecce, il re è il donatore di anelli mentre Grendel è il viandante dell'ombra, le cose sono viste nell'ottica di una cultura di guerrieri e marinai, la cui visione così semplice (guai a chi dice banale), in tempi civilizzati come il nostro, dove quasi nessuno ha idea di quel genere di vita, trasmette l'eco di qualcosa che si è perso. Qualcosa che doveva essere molto bello, ma che purtroppo si è perso.
Elmo anglosassone ritrovato a Sutton Woo

Beowulf è uno degli eroi più affascinanti di tutte le storie che conosca, poiché in lui coesistono molti aspetti diversi: certamente ricorda molto Eracle, dato che sono entrambi gli uomini più forti del loro mondo e si scontrano con una lunga lista di creature mostruose, ricoprendosi di gloria e divenendo re, e dato che le circostanze della loro morte non sono così diverse fra loro: Beowulf muore per il veleno del drago, mentre Eracle per il veleno dell'Idra (anch'essa in qualche modo un drago) nel quale era stata immersa la veste che il centauro Nesso aveva donato con una menzogna a sua moglie Deianira (sarebbe il caso che ripercorressi opportunamente questo mito, ma impiegherei troppo tempo). Il corpo di entrambi gli eroi scompare nelle fiamme, sebbene Beowulf sia già morto e il suo sia il rogo funebre tipico della tradizione nordica, mentre Eracle faccia preparare un rogo appositamente per gettarsi su di esso e liberarsi dal dolore del veleno. Veleno e fuoco nella mitologia sono legati, i serpenti e i draghi sputano fuoco proprio perché ad esso è associata la sensazione di bruciore del veleno.
Cionondimeno, Beowulf non è solo Eracle, non è solo un berserker, uno di quei guerrieri nordici che si lasciavano dominare dal proprio lato bestiale per essere più forti e più spaventosi in battaglia; Beowulf è saggio e ciò viene ribadito più volte, tanto che Hroðgar si complimenta con lui per la sua capacità di formulare discorsi sapienti alla sua giovane età. Beowulf esprime una filosofia di vita, alla base della cultura cui appartiene, ossia che l'uomo è mortale, ma la gloria rimane per sempre. Questo lo spinge a partire per combattere contro Grendel, a combattere contro sua madre e infine a combattere contro il drago. Pure, Beowulf è umile, più umile di quanto ci si aspetterebbe da un uomo simile: per quanto sia stato lui e solo lui a vincere la lotta contro Grendel, al cospetto di Hroðgar ne attribuisce il merito a tutti i suoi compagni; fa lo stesso anche dopo la vittoria contro la madre del mostro. Probabilmente la gloria e il potere acquisiti sarebbero più che sufficienti a permettergli di proclamarsi re, e invece, tornato in patria, tutto ciò che ha ricevuto in dono lo dona a re Hygelac e a sua moglie Hygd. È solo per il caso, anche se è più opportuno parlare di destino, che Beowulf diviene re pochi anni dopo a causa della morte di Hygelac e di suo figlio; ed è comunque solo per merito suo che il paese viene retto saggiamente per tanti anni.

Elemento chiave in questo poema è la ricchezza: Hroðgar ne ha accumulata così tanta da poter fondare una reggia che simboleggi il suo stesso prestigio; i Geati partono per ottenere ricchezza e gloria per il proprio popolo e pe se stessi; la grotta della madre di Grendel contiene un tesoro splendido in cui è inclusa una spada enorme forgiata da dei giganti; il tumulo del drago contiene un tesoro ancora più grande, forse il più grande che esista, tramandato per secoli da una dinastia in declino finché l'ultimo membro rimasto si è ridotto a essere nient'altro che il guardiano di quel tesoro, più un accessorio ad esso che il suo proprietario, e dopo la sua morte, sul tesoro si è steso il drago, creatura di tale valore da poterne in qualche modo sembrare il proprietario. Eppure, il tesoro al drago non serve a nulla (per quanto un piccolo furto basti a farlo adirare), come non servirà a Beowulf, che morirà per ottenerlo, e non servirà nemmeno ai Geati, ma verrà sepolto insieme al loro re, "inutile com'era sempre stato".
Non dobbiamo comunque credere che il tesoro fosse fatto solo di oro e gemme, poiché presso questi popoli il valore di un oggetto derivava in primis dalla sua funzionalità, e molti dei doni di Hroðgar sono armi, elmi, corazze e la sua splendida sella intarsiata.
Ad ogni modo, quello che il poeta vuole dirci è che avere accumulato tutta quella ricchezza non è servito a nessuno, né ai mostri, né ai re, né ai loro popoli. L'unica ricchezza importante che valga è la gloria (e, dato che il nostro autore è cristiano, l'uomo glorioso dev'essere umile e timorato di Dio, valori che nel protagonista non mancano).
La reggia di Heorot, sfondo della maggior parte del poema e simbolo della ricchezza di Hroðgar (John Howe)

È rilevante che in questo poema non si parli di amore: sappiamo che i re Hroðgar e Hygelac hanno entrambi una moglie (Wealtheow e Hygd, rispettivamente), mentre non viene detto se Beowulf si sia mai sposato, e penso sia sottinteso che non lo abbia mai fatto. Cosa che stupisce, considerato quanto dovesse attrarre un uomo del genere nella società in cui viveva. Molto spazio è invece dedicato all'amicizia: quella che lega fra loro i quindici Geati che partono per la Danimarca, e soprattutto quello che lega Beowulf e Hroðgar, di cui vediamo l'evolversi, passando da un iniziale studio reciproco, alla riconoscenza e alla trepidazione provate dal re davanti al giovane che intende rischiare la vita per il suo popolo, alla gratitudine e all'ammirazione dopo che compie l'impresa, che diventano ancora più grandi dopo l'impresa successiva. Da parte di Beowulf, ammirazione e rispetto per il re, anziano, saggio (Hroðgar significa "veggente"), e soprattutto generoso nei suoi confronti (nel corso della lettura si prova veramente un senso di smarrimento davanti alla mole di oggetti preziosi ricevuti da Beowulf).
A questo si ricollega il primo dei due momenti di maggiore emozione provati durante la lettura che voglio ricordare qua, che ci riportano a motivi portanti della cultura nordica e che ritrovo anche in Tolkien: quello del commiato tra Beowulf e Hroðgar, alla fine del crescendo del loro rapporto, quando i due uomini si abbracciano e il re, troppo anziano, sente che è molto difficile che rivedrà ancora il giovane eroe che ha affermato di amare ormai come un figlio. Il momento che più mi ha commosso (anche perché della morte dell'eroe sapevo da parecchio tempo).

"Poi il riparo dei conti gli regalò, lì dentro,
il figlio di Healfdene, altre dodici gioie;
gli ordinò di dirigersi, con tutti quei regali,
sano e salvo dal popolo di cui faceva parte,
e di tornare presto. E infine lo baciò,
il re grande per nascita, il vassallo migliore,
e gli si buttò al collo. Cadevano le lacrime,
sotto ai capelli mischiati. Vedeva, il vecchio profetico,
due possibilità, ma una sola probabile:
che in futuro mai più si sarebbero visti
i due animosi, a convegno. Amava tanto quell'uomo
da non riuscire a frenare le fontane del petto.
Fermato nelle viscere dai lacci del pensiero,
gli bruciava nel sangue un misterioso rimpianto
per il suo caro amico."
XXVI, vv. 1866-1880

L'altro passo che voglio citare è un discorso tenuto da un araldo prima del funerale di Beowulf, in cui viene profetizzato il pericolo che si prospetta ora che l'uomo che difendeva il regno dalle minacce straniere è morto (e che porterà alla fine del popolo dei Geati). Questo ci rimanda a un altro elemento fondamentale della cultura germanica, il senso di ineluttabilità, il destino che incombe: il mondo nordico ci appare procedere inesorabilmente verso l'oscurità, verso la distruzione e la fine di ciò che è bello, come è lecito aspettarsi da una cultura che ha elaborato una mitologia in cui è descritta molto dettagliatamente la fine del mondo.

"«Perciò ci toccherà
stringere molte lance gelate dall'alba
in pugno, alzarle in mano. Non sarà certo l'arpa,
a svegliare i guerrieri con i suoi accordi. Ma il corvo
nero sorvolerà i condannati, impaziente,
e avrà molto da dire, da raccontare all'aquila,
sul successo dei suoi pranzi, quando, insieme col lupo,
andrà spolpando i cadaveri»."
XLI, vv. 3021-3027
Il funerale di Beowulf, anche questo di John Howe

giovedì 8 ottobre 2015

Beowulf I - Demoni dall'Altrove

Ho letto di recente un poema epico, una delle opere che più desideravo leggere. Si tratta di un genere che non viene praticato più già da un po' di secoli (o almeno, non con successo), ma che continuo a ritenere uno dei più nobili, uno dei maggiori successi dell'arte umana, fondamentale nella storia della letteratura. Già l'anno scorso avevo letto l'epopea di Gilgamesh, il poema più antico del mondo; questa volta, ho finalmente letto il  Beowulf.
La storia di Beowulf, il protagonista di questo poema anglosassone senza autore e senza un periodo in cui lo si possa collocare con certezza (presumibilmente fra l'VIII e il X secolo d.C.), mi affascina da quando ero bambino, e la ritrovavo costantemente nei libri sulla mitologia e sui draghi che leggevo sempre. È per due motivi, che potrei anche ricondurre a uno, che mi interessa ancora: è una dei pochi poemi dedicati interamente al tema della lotta dell'uomo contro i mostri (in altre opere è più un elemento di contorno o un passaggio), e vi si trova una delle più antiche rappresentazioni dei draghi per come li intendiamo ancora.
John Howe, uno dei miei illustratori preferiti, ha realizzato una serie di bellissime immagini per Beowulf

Eh sì, questo è proprio il codice originale
La trama è abbastanza semplice, la riassumo per chi non la conoscesse: il palazzo di Heorot (Cervo), dimora della corte del re danese Hroðgar, viene assaltato ogni notte dal gigantesco Orco Grendel, che spadroneggia su di essa per dodici anni, segnando la decadenza del regno, fino all'arrivo dei Geati (abitanti della Svezia meridionale) capitanati da Beowulf, giovane eroe già celebre per la sua forza -possiede, nel pugno, la forza di trenta uomini- che promette di porre fine al regno di terrore del mostro quella stessa notte. All'arrivo di Grendel, i due si avvinghiano in una lotta furiosa che termina con Beowulf che strappa un braccio all'Orco, decretandone la morte per dissanguamento. I Danesi festeggiano e colmano i Geati di doni, ma la notte successiva la madre di Grendel torna a Heorot per vendicare la morte del figlio, uccidendo il più caro araldo di Hroðgar. Ancora una volta, Beowulf combatte per i Danesi, e immersosi nella palude dove dimora il mostro lo uccide e torna indietro con nuove ricchezze. Ancora una volta Beowulf viene celebrato e colmato di doni, e tornato in patria li offre al suo legittimo re, Hygelac, del quale, anni dopo, diviene il successore governando con saggezza per cinquant'anni. Il nuovo equilibrio viene turbato quando uno schiavo in fuga ruba una coppa dal tesoro di un drago che vola sulla reggia di Beowulf e le dà fuoco: nonostante la vecchiaia, Beowulf si reca al tumulo dove vive il drago e, aiutato dal nipote Wiglaf, lo uccide, ma rimane ferito dal veleno del drago e muore poco dopo. Il poema si conclude con funesti presagi sul futuro dei Geati, ora che è morto l'unico che potesse difenderli dalle invasioni dei paesi confinanti, e col funerale dell'eroe.

In questo poema ho trovato così tanto che un solo post non basterebbe a parlarne. Ho deciso perciò di dedicare a quest'opera due post, in cui dividere le impressioni e gli spunti che ho trovato. Questa prima parte è dedicata all'aspetto che più mi interessava del poema, quello relativo ai mostri. E per parlarne correttamente va incluso anche il protagonista.
Beowulf è un uomo mortale, figlio di Ecgteow, un altro uomo mortale (morto, infatti). Non è un semidio. Eppure possiede la forza di trenta uomini, e per quanto iperbolica ed enfatica sembri la frase (il linguaggio epico è fatto anche di questo) non è soltanto vanteria: Beowulf può sollevare una spada gigantesca, impugnare un pesante scudo di ferro, ma soprattutto strappare il braccio a un mostro grande almeno il doppio di lui, in grado a sua volta di sollevare uomini con una mano: il poeta ci dice che, appena puntato Beowulf, Grendel intendeva ficcarlo in un guanto (o più probabilmente una borsa) per portarselo via, dunque per portare un oggetto in grado di contenere un essere umano, la stazza di Grendel doveva essere notevolmente maggiore; la forza di Beowulf, di conseguenza, ci fa ancora più paura. Ecco perché anche lui viene chiamato aglæca, "mostro", come lo sono le creature contro le quali combatte. Tant'è che nello scontro col drago viene detto che i due contendenti, i due "mostri", sono entrambi spaventati l'uno dall'altro.
La brillante prefazione di Ludovica Koch, che è anche la traduttrice del poema, nell'evidenziare questa caratteristica menziona un elemento molto interessante del pensiero germanico: "è possibile cacciare orsi, lupi e serpenti solo se si ha una natura in qualche misura lupesca o serpentina: qualità aggiunte e inquietanti." Gli altri uomini, i migliori guerrieri Danesi, non riescono a ferire Grendel, come nessun altro Geata può uccidere il drago, se non Beowulf...e Wiglaf, che è suo fratello. Gli animali citati, orsi, lupi, e serpenti, sono i più frequenti nei miti e nelle saghe nordiche, e ricorrono tutti e tre nel poema: il nome Beowulf significa "orso" (letteralmente, lupo del miele), la madre di Grendel viene definita "Lupa di mare" e il lago in cui dimora è in un'area "di tane di lupo", mentre non c'è bisogno che lo scriva io qui, che i draghi e i serpenti nelle antiche mitologie si equivalgono. Tra l'altro, mi si perdoni per la parentesi, ma questo elemento non può non farmi pensare al mio videogioco preferito, The Elder Scrolls V: Skyrim, dove il protagonista è l'unico mortale a potere realmente uccidere i draghi in quanto condivide egli stesso parte della loro natura.

Grendel secondo J. R. Skelton
Prima di passare al drago, concentriamoci sugli Orchi, i gasta (singolare gæst): sono creature di palude, demoni d'acqua (mentre il drago è un demone di fuoco), discendenti di Caino. Moltissimi studiosi hanno indagato questo punto, e in effetti è opportuno precisare che il Beowulf non è un'opera pagana, sebbene non sia soltanto cristiana. Il poeta è cristiano, ma il suo materiale è più antico, poiché si trovano in diversi casi riferimenti a luoghi o pratiche pagane (descritte, naturalmente, come infernali e peccaminose), mentre in un altro passo si parla di un "Distruttore" sovrannaturale che gli uomini pregano in un momento di disperazione perché li liberi dalla madre di Grendel, e che potrebbe essere proprio Odino, adorato da questi popoli prima dell'avvento del cristianesimo.
La cosa interessante è che qui, nel lontano nord, viene ripresa una vicenda appartenente alla tradizione mitologica ebraica, evidentemente nota anche ai cristiani di quell'epoca, e che oggi è invece poco conosciuta: la storia dei Nephilim, narrata nel libro apocrifo di Enoch. È uno dei tanti argomenti mitologici cui intendo dedicare i post futuri; in questa sede basti dire che i Nephilim, che significa giganti, erano i figli avuti dagli angeli Vigilanti che si erano uniti carnalmente alle donne mortali (le figlie di Caino), e che per questo furono sterminati con il Diluvio (anche nel Beowulf viene ricordato come Dio abbia agito contro questo popolo mostruoso). Ci sono molte versioni, ma è questa quella cui fa riferimento il poeta del Beowulf: Grendel, e per estensione tutti i giganti, gli orchi e le creature mostruose umanoidi discendono da questa unione.
La madre di Grendel secondo John Howe. Scommetto che qualcuno si aspettava Angelina Jolie

Sia gli Orchi che il Drago vengono dall'Altrove, sono Stranieri: dunque, se ricordiamo che la mitologia nordica ha una sua particolare struttura cosmologica (di cui ho parlato nel post precedente), sappiamo che oltre al mondo degli uomini, la terra di mezzo, si trovano altri mondi, il cui numero varia a seconda del periodo cui appartengono le fonti, che nell'Edda sono nove, ma cui il nostro poeta non può fare menzione se non come "Altrove". Questi esseri, molto probabilmente, provengono da Jötunheim, il mondo dei giganti e, per estensione, dei mostri prodigiosi.
Ma in effetti, ci sono altri dati. Gli Orchi, in quanto demoni, sono associati ad altre creature di simile natura (collegate all'oscurità, al male, alla morte e agli inferi), che hanno caratteristiche diverse, ma con le quali possono anche essere scambiati. Molte di queste creature sono spettri e abitanti del mondo dei morti.
E sapete dove si trova il drago? In un tumulo, dove sono state sepolte le ricchezze di una qualche antica dinastia ormai estinta. Il drago dorme sugli oggetti dei morti, sulla terra dei morti, quindi è come un guardiano dei morti. E questo mi ricorda che sempre in Skyrim un sacco di draghi si incontrano in corrispondenza dei luoghi dove loro furono seppelliti in epoca antica, e appaiano come scheletri cui il potere del dio-drago Alduin ridà la vita...e tutto questo è meraviglioso! Voglio dire, è meraviglioso che anche involontariamente ci siano tanti rimandi fra mitologia, letteratura e videogiochi, perché significa che esiste una visione, alla base di tutte le storie, che è una e alla quale tutti, anche senza saperlo, facciamo riferimento, così da arrivare poi a creare tantissime cose che sono diverse.

Beowulf e il drago, Andrew Mayer. Questa versione mi piace perché si vede che il drago ha le ali, come nel poema
Arriviamo finalmente al drago. È un serpente, un wyrm, che vola e gusta "i piaceri dell'aria" nell'ora della notte che precede l'alba, la stessa in cui era attivo Grendel. Il suo corpo è scintillante, coperto di squame così dure che la spada non può scalfirle, ed è solo tagliandogli la gola con un coltello (evidentemente lì la resistenza delle squame è minore) che Beowulf può avere ragione di lui. Dopo la morte, viene detto che il suo corpo misura cinquanta piedi, equivalenti a circa quindici metri; questo cadavere viene gettato in mare, il mare che è la patria dei draghi primordiali nelle mitologie mediorientali e dove dimora, in quella nordica, un altro gigantesco serpente che è Jormungandr. Naturalmente non intendo fare collegamenti anche con questo, solo dire a cosa mi fa pensare il fatto che il suo corpo venga gettato in mare.
La cosa migliore di questo drago, per me, è che voli, e la seconda è che sputi fuoco.
I draghi nelle opere di oggi, volano tutti, sputano fuoco tutti. Lasciando stare gli anime e i manga, e La storia infinita. Voglio dire, quando scrivo "drago" pensiamo tutti che il mio drago voli e sputi fuoco, ma nella mitologia antica i draghi non presentano nessuna di queste caratteristiche, ci sono al massimo eccezione che possono fare solo l'una o l'altra cosa. Possiamo dire, o almeno mi permetto di dirlo io con i dati che ho attualmente, che questo sia il primo drago, nella storia della letteratura, che presenti le caratteristiche che oggi tutti associano ai draghi nel folklore occidentale.
Nel mondo nordico c'è un drago più famoso di questo, è Fáfnir, il mostro ucciso da Sigfrido: lui sputa fuoco ma non vola. Voglio dunque dire che quello di Beowulf è l'unico drago volante del mondo nordico? No.
Nella visione cosmologica dei nove mondi sorretti dal frassino Yggdrasil, sappiamo di un enorme serpente nel mondo dei morti intento a rodere le radici dell'albero, Níðhöggr. I termini "serpente" e "drago" vengono sempre invertiti, ma nella profezia della Völuspá, quella che parla della fine del mondo (il Ragnarök), gli ultimi versi mostrano questa creatura serpentina spiccare il volo, portando fra le "piume" le anime dei morti.
Oh, lasciatemi dire che l'idea del volo questo colossale drago cosmico coperto di anime è una delle visioni più sublimi che la mia mente ricordi.
Il drago capace di volare che dorme in un tumulo funerario, a me, ricorda Níðhöggr, per quel principio dell'unica visione alla base delle storie. Quindi, da un certo punto di vista, gli Orchi e il Drago potrebbero essere creature del mondo dei morti in guerra con i vivi.
Ma ciononostante, li immagino lo stesso come creature di Jötunheim, perché muoiono, perché probabilmente chi immaginò per primo la storia pensava questo, e perché la mia immaginazione ha bisogno di sentirsi dire che ci fossero draghi vivi a Jötunheim. E, magari, che ce ne siano ancora.

La versione di John Howe non ha le ali...ma parliamo comunque di John Howe



giovedì 1 ottobre 2015

L'anima della mitopoiesi

C'è un argomento di cui non ho parlato nel primo post, e che tuttavia comprende, attraverso varie diramazioni, quasi tutto quello di cui ho parlato e a cui tengo: la mitologia.

Perché parlare di mitologia nel XXI secolo? Tutti i miti ormai si sono rivelati nient'altro che, appunto, miti: non c'è nessuna Persefone che scende nell'Ade in autunno e ne esce in primavera, nessun gigantesco rapace o lupo che inghiotte la luna durante le eclissi, né l'alba è rossa perché Ra colora il cielo con il sangue del serpente degl'inferi dopo averlo affrontato per l'ennesima volta.
Eppure, perché continuiamo a parlare di queste storie, le stesse in cui gli antichi credevano come noi ora crediamo nella scienza, le stesse che fungono da spunto per i nuovi fumetti e i film di fantascienza?
Ecco, io credo che sia perché queste storie hanno valore indipendentemente da quello che servivano a spiegare. Sono la narrazione del mondo delle generazioni più vecchie a quelle nuove, un tesoro che si tramandava attraverso i secoli e che man mano si arricchiva, acquisendo il valore aggiuntivo dell'antichità. C'è una bellezza intoccabile in queste storie che vogliono dare una forma al cosmo, che fanno di concetti superiori agli esseri umani i protagonisti di storie umane, dove gli elementi della natura, gli astri del cielo, l'Amore, la Morte, combattono guerre, si innamorano e costruiscono, plasmando il mondo nella forma in cui i mortali lo hanno trovato.

Parliamo di qualcuno dei miei miti preferiti.
L'Enuma Elish, il poema sumerico della creazione del mondo. Originariamente esistevano solo Apsu, l'acqua dolce, e Tiamat, l'acqua salata, il mare caotico. Il loro connubio generò i primi dei, ma poiché essi erano troppo rumorosi per Apsu egli decise di ucciderli. Gli dei però scoprirono le sue intenzioni prima che le mettesse in pratica, e così, insieme, lo uccisero. Tiamat, furibonda, generò da sola una folta schiera di mostri, uomini scorpione, serpenti, e si dice che lei stessa avesse l'aspetto di un immenso drago cosmico.
Nella guerra fra le due schiere, è spettacolare il modo in cui gli dei vinsero contro Tiamat: Marduk, il dio del sole, principale divinità di quel pantheon, scatenò un demone contro di lei. Il demone dell'aria Imhullu entrò nelle fauci del drago, spalancate per divorarlo, e straziò le viscere di Tiamat costringendola a tenere la bocca aperta, sicché Marduk tagliò il suo corpo in due metà: la superiore divenne il cielo, l'altra la terra. I Sumeri immaginarono più di seimila anni fa una sequenza di battaglia fra mostri che non sfigurerebbe minimamente in un film moderno.
I miti cosmogonici si somigliano molto: nella mitologia nordica le varie parti del mondo sono pezzi del corpo del gigante Ymir, nella mitologia greca c'è lo stesso tòpos del padre che si avventa contro i figli e dei figli che lo detronizzano per ben due generazioni.
Del mondo greco non saprei quale mito citare, se le dodici fatiche di Eracle, l'eroe più grande del mondo, o la guerra fra gli Dei e i Titani ancora prima che il mondo fosse, o la storia commovente di Eros e Psiche, o quella tragica di Edipo.

Non si tratta solo di storie, di eventi: una delle cose più belle, più importanti e che più testimoniano quanto intensa sia la poesia insita nella visione umana -nell'umanità buona, perlomeno - è il modo in cui gli antichi riuscissero ad andare oltre il mondo, al di là del cielo e al di sotto della terra, e poiché non avevano ancora gli strumenti per vederli, creassero, secondo delle intuizioni che si possono ritrovare anche in popoli molto lontani fra loro, un sistema di luoghi e di fenomeni cui i protagonisti dei miti appartenevano. Il mondo in cui creassero delle cosmologie.
Cosmologia non significa soltanto che ci siano, nel cosmo, altri luoghi oltre alla realtà fisica e tangibile, ma anche che quei luoghi abbiano un significato e un senso, e che tutti insieme costituiscano una sorta di grande sistema filosofico oggettivato.
Questa grande ricchezza che è la cosmologia l'ho scoperta da piccolo, grazie al romanzo per bambini (ma che rileggerei volentieri anche adesso) "Il mare dei troll" di Nancy Farmer: una storia un po' romanzo di formazione e un po' fantasy in cui grande spazio veniva dato alla mitologia nordica, e che presentava, nella prima pagina, una chiara rappresentazione dei nove mondi di quella mitologia.


Secondo questa visione, la terra si trova nel mezzo (Miðgarðr) di un sistema di opposizioni fra gli altri mondi, fra quello degli dèi, Ásgarðr, ed Hel, il regno dei morti, fra Múspellsheimr, il mondo infuocato a sud, e Niflheimr, il mondo del gelo e della nebbia a nord. Il mondo degli uomini è poi "nel mezzo" rispetto ai giganti e alle creature mostruose che vengono da Jötunheimr, che completa la cosmologia insieme a Vanaheimr, dimora dei Vanir, dèi legati all'agricoltura che furono sconfitti in guerra dagli dèi di Ásgarðr, Álfheimr, il luogo degli elfi chiari, e Svartálfaheimr, patria degli elfi oscuri (e forse corrispondente a Niðavellir, che viene detto essere il regno dei nani, se si accetta la teoria che gli elfi oscuri fossero i nani). I nove mondi li vidi, in quel disegno, ben distribuiti sugli alberi e le radici di Yggdrasill, il gigantesco frassino cosmico; forse all'inizio pensavo fosse solo l'ambientazione di un libro fra i tanti, e invece ho scoperto che un tempo vissero persone che credevano in questi nomi e nelle storie, avventurose, agghiaccianti, comiche e tragiche insieme, che riguardavano quei nomi e i loro abitanti.

Possibile che senza avere mai visto un elfo né chiaro né scuro il pensiero degli uomini di quella parte del mondo abbia concepito tutta questa costruzione, e tutti gli esseri che la popolano? Forse, dopotutto, la fantasia è davvero una delle risorse più grandi dell'uomo. O forse gli elfi esistono.

Nell'altro post ho citato Tolkien e Lovecraft come due dei miei autori preferiti. Hanno in comune l'aver rivoluzionato i loro generi narrativi d'appartenenza in un modo ancora molto sentito, e questo credo sia dovuto, oltre che ai loro meriti individuali, all'avere creato, entrambi, delle nuove mitologie.
Come, nel XX secolo?
Eppure Tolkien non ha inventato solo dei luoghi geografici e i loro popoli, ma anche la storia degli antenati di quei popoli e dei loro dei, quando la Terra di Mezzo era molto diversa. Mentre Lovecraft ha dato forma a una personale visione filosofica, detta "cosmicismo", ideando un sistema ai limiti dell'assurdo dove nel cosmo e oltre il cosmo esistono divinità mostruose che evidenziano l'insignificanza dell'uomo nell'universo.
Le esigenze erano differenti (Tolkien voleva conciliare il suo amore per i linguaggi con quello per le saghe epiche, creando un linguaggio che si fondasse su una nuova saga; Lovecraft voleva estrinsecare la sua alienazione e il suo tormento esistenziale), ma entrambi hanno creato costruzioni che non sono sole storie del fantastico, perché parlano dell'essere di cui il mondo è fatto e di come tale mondo sia nato. Mentre la mitologia antica deriva da processi di trasmissione orale durati secoli, questi nuovi universi sono stati elaborati dagli scrittori durante la loro vita, sono qualcosa di personale partorita attraverso un percorso individuale, ma sono anche originali, ricchissimi e, in qualche modo, veri come sono veri i miti anche dopo essere stati "smascherati". I loro autori hanno praticato, con successo, la mitopoiesi.
La cosa più bella, è che questi miti li raccontiamo oggi come raccontiamo quelli antichi. Non ci sono solo Tolkien e Lovecraft, tanti autori del fantasy, dell'horror e della fantascienza hanno creato le loro mitologie, e adesso anche fumetti, videogiochi, addirittura gruppi musicali, ideano e raccontano i loro miti. Proprio in questi giorni ho realizzato che i miei fumetti preferiti sono accomunati, oltre che soggetti molto simili, dal fatto che le storie sono collegate da una mitologia di fondo, per cui i protagonisti, oltre a vivere la propria storia, sono figure fondamentali di una trama che coinvolge l'intero universo.

Non è la stessa cosa, certamente, i miti antichi sono una testimonianza del passato e un lascito di qualcosa che non è più, i miti degli scrittori del fantastico sono manifestazioni artistiche molto più vicine a noi. Ma tanto gli uni quanto gli altri fanno parte di una grande ricchezza, quella dell'umanità e del suo spirito.