giovedì 30 novembre 2017

Preghiera della notte #5 - La paura

Le preghiere della notte si legano alle origini dell'Anima del Mostro. È una storia che ho già raccontato, ma è passato del tempo.
Quando stavo pensando al nome da dare al sito, cercavo qualcosa che suggerisse diverse sensazioni in una maniera che trovassi adatta a me e ai miei argomenti, e tra le tante venne fuori questo nome, "Preghiera della notte". Suggeriva argomenti cupi, maestosi e intimi, e anche l'intimità, l'immedesimazione in quei discorsi, la pregnanza e l'importanza che avrebbero avuto. Inoltre suggeriva l'idea di una ripetizione, un appuntamento immancabile -che poi in realtà non lo è stato, ma diciamo che ci ho provato-: ogni sera del giorno che avrei scelto per le pubblicazioni, sarebbe arrivato un nuovo post, un appuntamento fisso, come una preghiera.
Il nome però non bastava, trasmetteva solo parte delle cose che volevo comunicare, e l'ho scartato, senza però abbandonarlo, perché mi piaceva e pensavo di usarlo comunque: dopo qualche tempo ho avuto l'idea di usarlo per i post di introspezione, probabilmente lo stesso giorno che ne ho scritto uno, la prima Preghiera della notte. L'ho usato altre due volte per parlare di questioni attuali -cosa che generalmente non mi attira e che poi non ho più fatto-, e poi una quarta, per un post lirico di cui sono ancora soddisfatto, nel settembre dell'anno scorso, poco prima che il blog prendesse la svolta "saggistica". Non ho più sentito il bisogno di scrivere post come quelli, che anzi talvolta pensavo come post per tappare buchi e avere qualcosa di pronto, da scrivere velocemente per mantenere la regolarità (funzione che col tono successivo, un po' più serio, avrebbe guastato), e non escludevo la possibilità di archiviarle come cosa del passato.
La settimana scorsa, invece, ho avuto un'idea nuova, l'idea di mettere insieme degli elementi in maniera così libera da spingermi anche oltre quanto fatto finora con i post seri. Non dirò altro, il resto lo vedrete leggendo.
Ecco com'è che ci troviamo qui insieme, a pregare nuovamente la notte, per contemplare una delle sue congiunte, la paura.


La prima motivazione per cui ho voluto scrivere questa preghiera è quella di raccontarvi un mio incubo. Ci ripenso ogni tanto, da un po' di tempo anche più spesso, e mentre scrivevo il post sulla bocca dell'Inferno ho realizzato che era arrivato il momento di parlarne.
Quest'incubo l'ho sognato quando avevo tredici anni.

Ero andato al cinema in cui vado di solito, per vedere un film dell'orrore, Boogeyman. Stavo all'ingresso davanti alla biglietteria, in mezzo a tante altre persone. Non so se poi mi sia spostato altrove o se quanto sto per raccontare sia successo mentre stavo in mezzo a quelle persone e semplicemente sia capitato solo a me, ma mentre tutto sembrava normale, di colpo, la terra sotto di me si è spalancata e mi ha fatto precipitare. Nella caduta, lunga, molto lunga, non vedevo altro che nero intorno e sopra di me, un nero fumoso, anzi sfumato, come se fossi in una litografia di Dorè, pareva di essere in un luogo di mare durante una tempesta in un'illustrazione romantica. Quello che vedevo di sotto, però, non era il mare.
Un teschio titanico, tale da riempire tutto il mio campo visivo, che tremolava come se fosse acqua agitata dalla corrente, si stagliava chiaro sul nero di ogni altra cosa, e aveva la bocca aperta per inghiottire tutto ciò che fosse caduto. Avrete presente che nei sogni capita spesso di conoscere i dettagli di ciò che sta accadendo, anche senza che nel sogno l'informazione ci sia pervenuta in alcun modo; in questo sogno, io sapevo che quel teschio era l'Inferno, che gli stavo finendo dentro, che lì avrei sofferto la dannazione per tutta l'eternità, senza mai fine, e che la causa di ciò era il fatto che avevo dimostrato interesse per le materie oscure, o per dirlo più banalmente, ma precisamente, perché mi piacevano gli horror. E il panico per quella sorte eterna, l'ingiustizia, l'impossibilità di fare nulla, la paura, il male che non sarebbe mai finito, furono un pensiero così soverchiante da farmi svegliare di soprassalto.

Il sogno era strano perché abbastanza sbagliato, anche se col senno di adesso farei meglio a dire "prematuro".
Film dell'orrore, all'epoca, non usavo vederne né ne avevo mai visti. Boogeyman lo conoscevo perché avevo visto il trailer del suo sequel quando ero andato al cinema a vedere "L'incredibile Hulk", e difatti mi aveva spaventato anche se mi ero coperto gli occhi tutto il tempo. Solo dopo diversi anni mi sono approcciato al genere, e Boogeyman l'ho visto nell'Halloween del 2012, per interesse verso la figura da cui il titolo, più che perché avessi in mente l'incubo.
L'unico contatto che potevo avere con il mondo dell'orrore, quando ho fatto quel sogno, erano le trame dei film che spulciavo di tanto in tanto su Wikipedia, e le rarissime ricerche su Google Immagini che finivano con l'impressionarmi e indurmi a ripulire la cronologia, neanche si trattasse di video porno.
Perché, dunque, avevo fatto quell'incubo? Un eccessivo avvicinamento al mondo dei mostri e dei fantasmi può portare alla dannazione? Varrà così anche con me?
Fate una preghierina per me, se pensate di sì, ma per quanto il pensiero di quel grande teschio con le fauci spalancate non mi attiri per nessuna ragione, non sarebbe abbastanza da indurmi a mollare il percorso che ho intrapreso in questi anni, perché è arrivato realmente a portare un briciolo di Paradiso alla mia vita mortale.
D'altra parte, i miei sentimenti per quel mondo potrebbero essere esagerati.

Da bambino avevo spesso gli incubi, né più né meno della maggior parte dei bambini. Molti si assomigliavano, o contenevano figure che si ripetevano in altri sogni, come i kaiju nei film Toho o i mostri Universal. Poi mi facevano paura le scene di diversi cartoni animati, di qualche film in live action, illustrazioni dei libri e varie altre cose. Potrei anche elencarvele tutte; non lo faccio per economia di spazio e di tempo, per bene dell'interesse vostro e della riservatezza mia, ma potrei, e potrei perché ricordo tutto abbastanza bene. In primis perché le cose che ci fanno paura ci restano molto più impresse di altre. In secundis perché le cose che hanno fatto paura a me -e quelle che ancora ci riescono, di tanto in tanto- sono cose alle quali sono estremamente legato e per le quali provo una forte gamma di sentimenti misti tra l'affetto, la gratitudine, l'appartenenza e un pochino di risentimento.
Un modo per raccogliere esempi senza fare elenchi troppo lunghi è quello di sistemare alcuni di questi incubi in categorie. Quella più ricorrente era che in casa, sia che fossi solo o, più spesso, che ci fossero numerose altre persone, entrasse un mostro e lo facesse dalla porta principale: significava che nessuno poteva trattenerlo, che lui aveva tutto il diritto di farlo, e anzi la versione che mi è rimasta più impressa è quella in cui a casa mia c'è un ricevimento e all'improvviso tutto si ferma, spariscono i colori e vedo le immagini in una specie di via di mezzo tra il bianco e nero e una scala di gialli, le persone in casa si nascondo e io faccio la stessa cosa, e l'alta, grossa presenza completamente nera entra, si aggira pesante nel corridoio e naturalmente non punta se non a me, riuscendo anche a trovarmi.
Pensare che nella mia infanzia stessi sognando di vivere la vicenda dei Danesi di Heorot, e che dalla porta stesse entrando Grendel, è un pensiero troppo emozionante per scartarlo. In effetti, il buon vecchio Grendel ha un'infinità di caratteristiche comuni all'Uomo Nero -perché era proprio lui quello che sognavo-, dato che si muove di notte, è alto e forte e porta con sé un sacco in cui ficcare le persone. Questo confronto spero di approfondirlo in un post apposito.

La cosa più interessante dell'Uomo Nero è che in qualche modo era lui, o sue versioni, a comparire più spesso nei miei incubi, quando in realtà a casa mia nessuno lo usava mai come spauracchio, e le ninnananne del tipo "Ninnananna ninnaoh/ questo bimbo a chi lo do/ glielo do all'Uomo Nero/se lo tiene un anno intero" erano sporadiche e non le ricordo se non più tardi dell'età in cui avevo già fatto molti di questi sogni.
Ecco perché lo considero una sorta di quintessenza della paura, una figura che la rappresenta perfettamente, e benché la forma in cui lo si intende più comunemente sia concepita esclusivamente come spauracchio per i bambini e si sia affermata in maniera più decisa nell'era moderna, e il suo nome tragga le proprie origini dal periodo della colonizzazione, rifacendosi a una sorta di paura per il diverso il cui oggetto concreto erano le persone di etnia non caucasica dell'America e dell'Africa, dunque una matrice di tipo razzista non ne sia del tutto estranea, il nucleo essenziale di ciò che l'Uomo Nero è appartiene a una dimensione collettiva dell'immaginario e dell'inconscio, che si manifesta fin dall'antichità con i vari orchi, giganti e demoni di numerose tradizioni, e che incarna qualcosa di molto più presente e minaccioso di un rapitore di bambini -che di per sé non è una barzelletta-, un nemico e un minaccioso predatore dell'umanità, nero in quanto fatto della stessa sostanza di cui è fatto il buio dove non abbiamo mai fatto altro che vedere mostri minacciosi.
Mostri che spesso hanno caratteristiche comuni, sono scuri o al contrario estremamente pallidi, hanno artigli e talvolta dita estremamente lunghe, occhi piccoli e luminosi oppure grandi e sporgenti e denti aguzzi. Ci sono diversi studi che indagano la possibilità che queste particolari paure, che provengono da una parte estremamente antica del nostro cervello, derivino da qualcosa che i nostri più remoti antenati hanno vissuto: che essi fossero braccati da predatori naturali con caratteristiche del genere, caratteristiche che fanno pensare ad esseri notturni o abituati al buio, magari abitatori delle caverne, oppure subacquei. O forse si trattava solo di orsi, dato che ancora nel XVII secolo i teschi dell'Ursus spelaeus, il tipico orso delle caverne, erano ritenuti appartenere a misteriosi mostri.
È una possibilità molto affascinante, benché molto discutibile, e sicuramente si presta alla tessitura di tante storie. Anche su questa mi piacerebbe ritornare.

Quale che fosse la creatura, entrava molto spesso dalla porta.
La porta di casa mia, vista al buio, in fondo a un corridoio ad angolo retto rispetto a quello che si affaccia sulle stanze tra le quali c'è la mia camera da letto, mi ha messo per lungo tempo una certa inquietudine, perché grande e alta, e perché lo spioncino al centro, che quando tutto è buio appare come un puntino bianco a causa della scala che è illuminata, sembrava un occhio sempre aperto a scrutare. Da una porta così grande immaginavo entrare cose altrettanto grandi, specie agli occhi di un bambino.
Altre volte, invece, la cosa da temere era piccola, simile a un nano. Uno dei cartoni animati che ho visto più intensivamente in tenera età è stato "L'apprendista stregone" di Walt Disney, e lo stregone Yen Sid, sguardo severo, grandi occhi, con il suo colorito che nella mia mente era divenuto un marrone non umano, mi metteva un'inconscia paura che si rifletteva in frequenti sogni e nella paura, da sveglio, che il suo volto arcano apparisse dietro le finestre del bagno, di notte, e soprattutto in una più grande che riguardava il mio soppalco (aye, sto descrivendo tutti gli ambienti di casa mia): questo ospita, tra le altre cose, un ripostiglio posto più in basso del soffitto, un ambiente piccolo dove non ci si può muovere senza chinarsi. La porta che dà su questo ambiente, conseguentemente, è piccola: e probabilmente è sempre per via della porta, che da bambino avevo paura che da quella stanza corresse improvvisamente fuori un nano, goblin o creatura affine, con la faccia di Yen Sid, e avevo sempre fretta di scendere le scale che portavano giù dal soppalco e chiudere bene il cancello che le separa dal resto della stanza.
La presenza di una porta, dunque, è da sola in grado di suggerirci intere situazioni. La paura di lasciare le porte aperte è molto diffusa e si può spiegare sia in maniera immediata, come derivante da un desiderio di controllo sull'ambiente in cui ci troviamo e dal disagio all'idea che uno straniero vi entri, sia in maniera più complessa, per la quale servirebbe il supporto della scienza che al momento non ho a mia disposizione.
Molto probabilmente è per questo sentimento verso le porte che sono potentemente attratto da questo quadro e mi fa pensare ai timori che avevo da piccolo.

Il simbolo che ho postato in apertura è Aegishjàlmr, che significa "elmo del terrore". Si tratta di una sorta di sigillo magico, che viene tracciato per due motivi, spaventare i nemici, per estensione anche le forze avverse di tipo spirituale, e per indurre sé stessi all'autocontrollo, a non abusare del proprio potere. Dubbio è il significato del simbolo, che mostra otto linne partire da un unico centro, attraversate da tre trattini e terminanti in una forma a tridente. Vi è chi pensa che sia data dall'unione di singole rune, e i segni al termine potrebbero corrispondere ad Algiz, che ha una funzione protettiva quando rivolta verso l'alto, mentre capovolta significa malizia. Trovate altro sull'Aegishjàlmr qui: http://mythologian.net/aegishjalmr-aegishjalmur-viking-helm-awe-symbol-meaning/
L'ho scoperto in questo periodo in seguito alla lettura della Saga dei Volsunghi, in quanto è menzionato da Fáfnir (peraltro anche nell'Edda poetica, semplicemente, quando ho letto questa, tra le tante cose che non sapevo e dovevo ricercare, non ho badato ad approfondirla), Fáfnir che, come saprete, è il drago ucciso da Sigurðr, e prima di ciò è stato un uomo dotato di facoltà sovrannaturali. Sembra sia per questo, piuttosto che per un aspetto connaturato nei draghi, che nella versione scandinava della storia Sigur­ðr acquisisce facoltà particolari dopo aver assaggiato il suo sangue.
Fáfnir dice:

«L'elmo del terrore portavo fra i figli dei viventi
mentre guardavo i miei gioielli.
Mi credevo, io solo, più forte di ogni altro:
non avevo ancora incontrato molti giovani!»

E a sua volta Sigurðr gli replica:

«L'elmo del terrore non dà riparo a nessuno
dovunque furiosi si venga a battaglia.
Perché questo troverà, chi sia fra molti,
che nessuno è, da solo, il più forte.»

E più avanti:

«Drago balenante hai emesso gran sibili
e mostrato coraggio.
Odio ancor più violento sorge fra il genere umano
dall'avere quell'elmo.»

Probabilmente Fáfnir aveva tracciato l'Aegishjàlmr sulla propria fronte, grazie alla sua conoscenza della magia, e da questo gli derivava una capacità preternaturale di provocare il panico in chiunque lo scorgesse. Questo si accorderebbe bene alle caratteristiche dell'eroe che lo uccide.
Due delle caratteristiche più importanti di Sigurðr sono il suo sguardo penetrante, in grado di intimidire chiunque lo incroci (come quello dei draghi, d'altra parte), e la mancanza di paura. Quando si reca a Hindarfjäll, dove giace assopita la valchiria Brunilde, Sigurðr riesce a svegliarla perché lei, prima di essere vinta dal sonno magico con cui Odino l'aveva castigata, aveva sancito che solo un uomo che non conoscesse la paura l'avrebbe risvegliata: l'eroe è senza paura per costituzione, è un aspetto di lui che deriva dalla sua natura.
È molto interessante, comunque, che il simbolo che ispira terrore abbia otto raggi, come le zampe dei ragni.
Se avete presente le custodie dei videogiochi, avrete notato che in basso a sinistra, o sul retro, si trovano alcune indicazioni, sigle del codice PEGI (Pan European Game Information), il sistema che classifica i contenuti dei giochi per salvaguardare i più piccoli. Oltre al numero che indica l'età minima consigliata ve n'è spesso un altro, che indica contenuti come violenza, volgarità, sesso e varie altre, tra cui il rischio che il gioco faccia paura. Quest'ultima categoria è indicata con l'immagine stilizzata di un ragno, e con la parola "terrore".

Una delle cose di cui ho avuto paura per più tempo è stata la canzone, con annessa videoclip, "Lullaby" dei The Cure, dall'album "Disintegration" del 1989.
La sentii allo stereo da ragazzino, quando ero quasi privo di interessi musicali, e non mi dispiaceva prestare un orecchio quando mio padre ascoltava gli album dei The Cure; la canzone era piena di sibili, aveva un ritmo ossessivo e minaccioso, per quanto al contempo bello e sensuale, e mentre procedeva, mio padre mi raccontava cosa accadeva. Poi me lo mostrò con il video.
Lullaby apre uno scorcio su un io narrante che sta nel suo letto al calare della notte, e che non riesce a dormire perché sa, che gli sia stato raccontato o per qualche altro motivo, che dalla sua finestra entrerà il mostro chiamato "Spiderman" (niente supereroi qui), con lunghe e sottili zampette e cattiveria umana, e lo mangerà. Lo descrive mentre entra e descrive la sua paura, e poco dopo riporta le parole del mostro che gli si rivolge con toni suadenti, dicendo "non agitarti, o ti amerò ancora di più", quasi fosse l'Alfkönig della ballata di Goethe. Tra parentesi, quando ho letto per la prima volta l'Alfkönig, alcuni mesi fa, un dito gelido mi ha sfiorato la schiena, perché il modo in cui il misterioso personaggio si rivolge al bambino condivide qualcosa della radice da cui deriva l'Uomo Nero.
Il video mostra il cantante, Robert Smith, nel suo letto, che si guarda intorno in una stanza che si fa sempre più fitta di ragnatele, tra le quali sbucano marionette -con le fattezze degli altri membri della band- che continuano a ripetere gli stessi movimenti meccanicamente, e in quella posizione è facile pensare che siano state vittime precedenti dell'Uomo Ragno. E quando la canzone finisce il verso "The Spiderman is having me for dinner tonight", il video inquadra sul soffitto un Robert Smith -sempre in pigiama- col volto truccato (un po' più del solito) e un mucchio di ragnatele tutte intorno, che guarda verso il basso e sibila verso il personaggio a letto.

"On candy stripe legs the Spiderman comes
Softly through the shadow of the evening sun
Stealing past the windows of the blissfully dead
Looking for the victim shivering in bed
Searching out fear in the gathering gloom and
Suddenly
A movement in the corner of the room
And there is nothing I can do
When I realize with fright
That the Spiderman is having me for dinner tonight!

Quietly he laughs and shaking his head
Creeps closer now
Closer to the foot of the bed
And softer than shadow and quicker than flies
His arms are all around me and his tongue in my eyes
"Be still be calm be quiet now my precious boy
Don't struggle like that or I will only love you more
For it's much too late to get away or turn on the light
The Spiderman is having you for dinner tonight"

And I feel like I'm being eaten
By a thousand million shivering furry holes
And I know that in the morning I will wake up
In the shivering cold
And the Spiderman is always hungry"

La mia traduzione:
"Su gambe di bastoncini canditi entra l'Uomo Ragno
Dolcemente, attraverso le ombre del sole serale
Introducendosi come un ladro dalle finestre di chi è morto serenamente
Cercando la sua vittima che rabbrividisce nel letto
Che tenta di dissipare la paura nell'oscurità che si addensa e
Improvvisamente
Un movimento nell'angolo della stanza
E non c'è niente che io possa fare
Quando realizzo, con atterrimento,
Che l'Uomo Ragno mi avrà per cena questa notte!

Ride silenziosamente e agitando la testa
Striscia più vicino adesso
Più vicino ai piedi del letto
E più lieve dell'ombra e più veloce delle mosche
Le sue braccia sono tutte attorno a me e la sua lingua nei miei occhi
"Sta' fermo, sta' calmo ora, mio prezioso ragazzo
Non agitarti in quel modo o non farò altro che amarti di più
Perché è davvero troppo tardi per scappare o accendere la luce
L'Uomo Ragno ti mangerà per cena stanotte"

E mi sento come se venissi mangiato
Da migliaia di milioni di tremolanti buchi pelosi
E so che al mattino mi sveglierò
Tremante di freddo
E che l'Uomo Ragno è sempre affamato"

Ora, neanche allora potevo spaventarmi di una persona con un po' di trucco, specie sapendo come funzionava tutta la messinscena. Ma capivo bene anche un'altra cosa, che quella scena rappresentava qualcos'altro che mi sarebbe altrimenti apparso in modo diverso, un mostro con un aspetto molto meno umano. Per trasporlo la scena doveva avvalersi di un codice che procedesse su entrambi i binari, portando sull'immagine alcuni elementi di ciò che essa rappresentava perché li si comprendesse, dunque le ragnatele e i sibili, ma soprattutto l'idea di un qualcuno sul soffitto di una stanza che guardi verso il letto di chi dorme in quella stanza con cattiveria, e che lo voglia mangiare.
E il pensiero non è dei più rassicuranti.
Abbastanza poco rassicurante da far sì che io abbia passato un po' di anni, di tanto in tanto, scrutando il soffitto della mia stanza prima di coricarmi.
L'idea di questa canzone, che deriva dalle paure di Robert Smith, tra cui l'aracnofobia, dai ricordi delle raccapriccianti ninne nanne che gli cantava il padre per farlo addormentare («ne tirava fuori sempre una. Avevano tutte un finale orribile. Erano cose del tipo "dormi adesso, bel bambino o non ti sveglierai mai più... "»), e da possibili spunti sulla tossicodipendenza, relazioni pericolose o ossessioni varie, è ottima perché fonde due dei più intensi, immediati e immortali significanti della paura, l'Uomo Nero e il Ragno.

Sapete come funziona, la paura?
Di base, la paura è un impulso con cui il nostro cervello, che ha scorto un possibile pericolo, ci predispone il più velocemente possibile ad agire in funzione di quel pericolo, o attaccandone la fonte per eliminarlo, o allontanandoci da essa. La parte del cervello che si occupa di queste funzioni si chiama "amigdala", poiché di forma simile a una mandorla, che in greco è appunto amygdala, ed è un gruppo di strutture interconnesse, che fanno parte del sistema limbico e sono responsabili di molte altre emozioni. Amigdala, poi, è una pietra, una concrezione minerale di elementi diversi che assume una forma tale da procurarsi quel nome.
Ora, questo nostro viaggio finirà parlando di Bloodborne, che è un gioco classificato dal sistema PEGI proprio con il simbolo del terrore. Nel mondo di Bloodborne, dove in un'ambientazione vittoriana vessata da una crisi che ha trasformato le persone in lupi mannari hanno luogo fenomeni di grande portata e di matrice lovecraftiana, sono visibili, a partire da un certo punto del gioco o dal momento in cui si hanno sufficienti punti intuizione (cioè si ha acquisito la facoltà di vedere oltre, una facoltà propria dei folli), delle grandi creature piene di arti attaccati agli edifici, con teste pelose e piene di strane sfere che solo in seguito comprenderemo essere occhi, e i tentacoli immancabili quando si parla di orrore cosmico. Inizialmente non sappiamo il loro nome, ma troviamo in compenso che siano notevolmente disturbanti, anche perché il gioco, saggiamente, non le mette come nemici, inseriti lì per essere sconfitti, ma come semplice presenza che ha un significato, che può talvolta costituire un ostacolo, e che procuratisi i giusti strumenti, tra cui una pietra a forma di mandorla molto simile al minerale amigdala, trasportano il protagonista nella dimensione dell'Incubo.
In uno di questi luoghi, se ne trova un esemplare con alcune differenze, che si affronta come boss, e il suo nome è pronunciato quando, nella sequenza in cui veniamo teletrasportati, udiamo una voce spietata dire "Oh, Amygdala, abbi pietà del povero bastardo". Queste creature si chiamano Amygdale, quella incontrata come boss è uno dei Grandi Esseri, concettualmente simili ai Grandi Antichi di Lovecraft, e la loro testa ha forma simile alla pietra, mentre il loro corpo, con sei arti superiori e due inferiori, ricorda quello di un ragno.
Di chi è la voce che si sente? Appartiene a Patches, un ricorrente personaggio della serie Dark Souls che compare anche qui, nelle sembianze di uno degli Apostoli dell'Incubo, esseri aracniformi tra cui lui, e alcuni altri, si distinguono per avere un volto umano. 
Anche Patches è un uomo ragno. Anche le Amygdale stanno appese in alto e guardano, si limitano a osservare. È l'essere osservati a fare paura, a mettere in allarme quel sistema mentale che ci segnala un pericolo, anche se in quel momento non riesce a capire quale sia.
In più, le Amygdale hanno una funzione che in Bloodborne ha anche un altro tipo di mostro, che rapisce il personaggio e lo conduce nel villaggio invisibile di Yahar'gul: i Rapitori, alti, magri, mani enormi, nascosti da un cappuccio, sacco sulle spalle, inquietanti. Uomini Neri. Quando ne trovo uno nel gioco provo una gran tensione.

Non intendevo spiegare qui cosa sia la paura, ma solo raccontare storie su di lei. Come procede adesso la storia? Con me che tutte quelle cose che ho elencato, e tante altre che non ho messo per non eccedere, cose che mi spaventavano a morte, adesso le adoro. Le cerco se le ho perse. Hanno un grande significato per me, per avermi accompagnato e definito. E alla fine, abbracciando la Notte, i suoi figli, Mostri, e i suoi colori, sono diventato quello da cui l'incubo mi aveva messo in guardia. Sinceramente, penso di essere diventato molto ma molto peggio di quello di cui parlava, e ancora neanche mi basta, perché so di poter scendere in tenebre sempre più profonde, non per illuminarle, ma perché le loro storie sono quelle in cui mi ritrovo di più, e non so se questo stato sia frutto di qualcosa che è successo dopo o si leghi a qualcosa che avevo fin dall'inizio, ma se la sto percorrendo è anche per una sorta di sfida, per lo più inconscia, al mio incubo, per rivendicare la mia libertà di azione e dimostrare, a chiunque nel mondo del mio sogno volesse sancire che chi intraprende la via delle tenebre sia dannato all'inferno, che quella via ha la nobiltà, la bellezza e anche il bene di tante altre vie. Se quell'inferno fosse il posto da cui vengono i mostri, andarli a trovare sarebbe il minimo, dopo quanto hanno fatto per me, venendomi a trovare loro. E forse, il percorrere quella via, ricordando quell'incubo e pensando a quanto poco ne sappia davvero di tenebre, vie, inferni e giudizi, è una delle cose che riescono ancora a farmi paura.

giovedì 23 novembre 2017

Apologia di Lair e discorso su un ecosistema per i draghi


Dieci anni fa è uscito per PlayStation 3 un videogioco molto particolare.
Attesissimo per le possibilità che dava, concepito per dimostrare le capacità della console uscita da poco, rivelò seri problemi di giocabilità a causa del sistema idealmente interessante, ma praticamente scomodo, di cui si avvaleva, il SIXAXIS, basato sull'inclinazione del joypad per il controllo del gioco: i tasti e gli analogici avevano anch'essi una funzione, ma il movimento e la scelta delle direzioni avvenivano tutte attraverso questo sistema. Il contenuto scaricabile gratuito, rilasciato per dare la possibilità di svolgere le azioni con i controlli analogici e senza il SIXAXIS, uscì troppo tardi: il gioco aveva ormai deluso la maggior parte dei giocatori. Le recensioni lo liquidarono con voti di sufficienza, lodando sì quello che c'era da lodare, come l'originalità, la grafica, la colonna sonora (una delle più acclamate nella storia dei videogiochi), interessanti elementi di design, ma concludendo che il gioco era in parte un fallimento, se non del tutto da dimenticare.
Ecco perché quest'anno nessuno ricorderà il suo anniversario, ed ecco perché l'Anima, come una valchiria o un angelo pietoso, scende quest'oggi sul campo di battaglia dove i suoi resti giacciono insepolti e obliati, per condurlo nel luogo di beatitudine e gloria che gli spetta. E ora vi spiego perché.
Prima di cominciare, vorrei raccontarvi una lieve stranezza circa la gestazione di questo post: dopo aver controllato qualche tempo fa, mi ero convinto che la data di uscita del gioco fosse tra i primi di settembre, e quando il periodo è arrivato ho ricontrollato, scoprendo con sgomento e con rabbia che avevo sbagliato, e l'anniversario era il 31. Presa visione del fatto che quella era la data dell'uscita americana, e che l'anniversario europeo era più avanti, la cosa migliore mi è sembrata scrivere il post in occasione di quest'ultimo -anche perché a settembre il blog si era un po' impantanato. Mentre controllavo la data col post già scritto -nel mentre mi sono convinto che la data europea fosse a dicembre- ho scoperto, solo poco fa, che l'anniversario di Lair cade proprio oggi che è il 23 novembre. Sicuramente questo dimostra quanto grandemente faccia schifo nel ricordare i numeri, ma non credo nelle coincidenze e mi sembra invece che la mia amnesia estiva sia servita a far cadere il post in un giorno adeguato. E forse questo è un segno che il post riuscirà nel suo intento.

Il gioco, realizzato dal team Factor 5 e prodotto dalla stessa Sony, si chiama Lair, "tana". È un titolo molto semplice e molto vago, una scelta minimalistica che mi è sempre piaciuta, poiché per il suo contenuto richiederebbe titoli altisonanti, e invece no, si limita a dire che parla di una cosa di sempre, una cosa di tutti, una cosa su cui vale sempre la pena raccontare storie: la lotta per possedere una tana, una casa in cui vivere.
Lair è un gioco sui draghi. Questo basta per dare un'idea di cosa ci sia da aspettarsi, e questo bastava in molti casi ad attirare il pubblico; certamente bastò a me. Io scoprii la sua esistenza dopo che era già uscito da tempo, grazie a un video su YouTube che si intitolava "Draghi dei Caraibi" e mostrava il trailer di Lair (postato qui sotto) con il celeberrimo tema musicale del film di Gore Verbinski; lo vidi e ci rimasi, dicendo "Mo' da dove saltano fuori questi draghi così ben realizzati?". Solo dopo molto sono risalito al gioco e al suo nome, che ancora oggi non posso ricercare senza imbattermi, prima, in migliaia di contenuti sul molto più celebre "Dragon's Lair", legato alla mia infanzia (esiste anche una serie televisiva intitolata "The Lair", che parla di vampiri gay, quindi forse sarebbe stato meglio se questo gioco avesse avuto un titolo meno vago).
La PlayStation 3 non l'ho avuta prima dell'estate 2010, e così per parecchio tempo ho desiderato Lair, vedendo quello che potevo vederne in video e immaginando di poter vivere la sua entusiasmante esperienza.
Che ancora non vi ho detto quale sia. Il gioco inizia con queste parole:

"Nessuno sa per quanto tempo gli Antichi avessero vissuto prima dello Scisma. La storia parla di un popolo in armonia, un popolo unito da un'unica fede.

Ma quando i vulcani si risvegliarono, fiumi di lava arsero la terra e nere nubi oscurarono il cielo, invaso da acri polveri. Furie incontenibili della natura, i vulcani segnarono l'umanità con una ferita ancora più profonda: la paura. Mentre la scienza era incapace di spiegare ciò che avveniva, presero piede diverse scuole di pensiero e alcuni cominciarono a vedere nella furia dei vulcani una punizione divina.

Una fazione, i Mokai, si insediò a nord, tra il fuoco dei vulcani e il gelo dei ghiacciai; la gente di Asylia, invece, scelse di vivere a sud, protetta tra le montagne. Qui, al sicuro dalla furia dei vulcani, il popolo di Asylia divenne l'ultimo baluardo di cultura e ricerca in un mondo ormai avvolto dalle tenebre.


Fonte di grande invidia, Asylia affidò la propria protezione al coraggio delle sue Guardie celesti, poiché in un mondo consumato da continue faide, vi era tuttavia un punto sul quale tutti erano concordi: dominare il cielo significava dominare tutto."

In Lair si impersona un soldato membro di un ordine chiamato "Guardie Celesti" (Sky Guards), i cui appartenenti sono detti anche "Sterminatori" (Burners), la cui funzione nelle battaglie è quella di cavalcare draghi. Al di fuori di pochi istanti all'inizio di qualche livello, il tempo per salire in sella al drago, e di alcune azioni aeree in cui il cavaliere salta giù dalla sella, quello che si controlla di Lair è di fatto il drago, con cui si può volare liberamente nell'area del livello -non già in una mappa in free roaming, ma allora non c'era tutta questa ossessione per il free roaming dei videogiocatori moderni- soffiare lunghi getti di fuoco o condensarlo in sfere esplosive, urtare altri draghi in cielo, ingaggiare scontri aerei dove artigliare, mordere e bruciare un altro drago, afferrare soldati da terra per scagliarli via attraverso ripidissime scogliere, e scendere a terra per seminare il caos tra le fila, con zampate che proiettano in cielo decine di uomini, soffi di fiamma e la possibilità di azzannare e ingoiare i nemici per riprendere un po' di energia. Quest'ultima cosa è possibile solo in due o tre livelli, cosa che mi dà dispiacere, poiché questo approccio diretto del mostro con gli uomini e della dimensione di terrore che si instaura tra la vittima e una bestia grossa come un camion, è una cosa che mi provoca quasi lo stesso piacere del rapido volo sul mare.
Badate bene che non è mia prassi includere i draghi nel concetto di "bestie", come linea generale. Non sono bestie Smaug, Draco di Dragonheart, i draghi di Skyrim, di Dungeons & Dragons o di Warcraft, né quelli di qualunque altra ambientazione in cui i draghi abbiano qualità divine e possiedano ragione ed eloquio. Nel caso di Lair, come in Harry Potter o in Dragon Age, c'è poco su cui girare intorno: i draghi sono semplicemente degli animali, e il fascino che hanno deriva esclusivamente dal loro aspetto, dalla loro forza e dalle loro capacità, che non sono comunque da poco.

Sfondo di queste battaglie aeree è un mondo con una storia abbastanza semplice: i suoi abitanti, dopo aver vissuto insieme armoniosamente per tanto tempo, sono stati divisi a causa dell'inasprirsi delle condizioni naturali della loro terra, provocate da un'intensa attività vulcanica. L'umanità si è distinta in due popolazioni, quella degli Asyliani (Asylians), che si è rifugiata nella parte meridionale del continente, fondando una civiltà avanzata, e quella dei Mokai, che vivono nel nord, il luogo più duro e inospitale, sopravvivendo grazie a una tecnologia basata sull'energia a vapore. Entrambi i popoli, che un tempo adoravano numerosi dèi, professano una simile religione monoteista rivolgendosi a Dio, ma la società degli asyliani è un sistema teocratico che ruota intorno al Divinatore, la massima carica religiosa, e a un consiglio di tre Anziani; inutile dire che, nel corso della trama, il Divinatore faccia in modo di aumentare il suo peso politico a danno di detto consiglio. Lo stesso, inoltre, ritiene che le macchine a vapore utilizzate dai Mokai siano un atto di ribellione a Dio, adducendo motivazioni religiose alla guerra.
Si può dire che di base si tratti di una storia molto simile alla nostra "Aida degli alberi", ad "Avatar", ma che possiamo benissimo mettere a confronto con l'opposizione tra Romani e Galli, o più tardi Romani e Germanici, con da una parte un popolo avanzato e in situazione di benessere maggiore, e dall'altra un popolo che si avvale del suo rapporto con le forze naturali, con una cultura diversa che i capi della prima ritengono inferiore, etichettando questo popolo come selvaggio.

La narrazione, dopo alcuni livelli che mostrano alcune delle tipiche operazioni militari di questa guerra, ha inizio quando le due fazioni sono sul punto di concludere una tregua: in una tenda in mezzo alle due armate, separate dal Ponte degli Antichi, che conduce ad Asylia, il generale capo delle forze Mokai, Atta-Kai, insieme al figlio Koba-Kai, incontra il capitano delle Guardie Celesti, Talan, scortato dagli Sterminatori Rohn, protagonista del gioco, e Loden. Quest'ultimo è un agente agli ordini del Divinatore, che ha segretamente ordito un piano per mantenere il potere su Asylia e che desidera il proseguimento delle ostilità. Così Loden uccide Atta-Kai e Talan, lasciando fuggire Koba-Kai che informa il suo esercito del tradimento asyliano, e fuggendo a sua volta prima che Rohn possa intervenire. Una volta vinta la battaglia con l'esercito Mokai, Rohn, che ha liberato il drago di Atta-Kai mentre Loden cercava di ammaestrarlo, viene inviato da quest'ultimo, che, morto Talan, è divenuto il nuovo capitano delle Guardie Celesti, a condurre un'operazione segreta contro i Mokai. Questo permette un successivo attacco definitivo alla loro città, una metropoli tecnologica in mezzo ai ghiacci che stupisce Rohn, da sempre convinto che i Mokai vivessero nelle caverne. L'attacco è un bombardamento, con le mante che rilasciano cascate di esplosivi sulla città mentre i draghi la incendiano volando in mezzo agli edifici, un autentico massacro: e durante questo massacro, Loden ordina a Rohn di distruggere un imponente edificio che afferma essere un'armeria, ma si rivela essere un tempio, al cui interno si erano rifugiati centinaia di innocenti in fuga, ridotti in cenere da un inconsapevole Rohn che, una volta appresa la gravità delle sue azioni, si ribella e decide di non combattere mai più dalla parte degli Asyliani.

Accusato di ribellione da Loden, Rohn viene ferito insieme al suo drago, che lo porta via con sé nonostante il dolore, ma muore stremato dalla fatica in pieno deserto -inutile dire che questa scena sia ai miei occhi estremamente triste. Il suo cavaliere rimane così da solo, ma viene salvato dal drago di Atta-Kai, che gli è grato per la libertà ricevuta e che lo porta con sé fino a un accampamento Mokai. Dopo aver protetto le persone dell'accampamento da un attacco degli Sterminatori asyliani, Rohn decide di aiutare i Mokai nella guerra, per debellare la tirannia del Divinatore, che nel frattempo ha fatto uccidere i Guardiani e si è imposto come unico capo di Asylia, e vendicarsi di Loden. I livelli successivi seguono così la sua rinascita come cavaliere a dorso di un nuovo drago, in lotta contro quelli che un tempo erano stati suoi compagni; grazie alla collaborazione tra lui e Koba-Kai, per quanto dura a nascere, e alla sua conoscenza di Asylia, la forza Mokai, che sembrava prossima alla caduta, riesce a risollevarsi e a cambiare le sorti della guerra. La resa dei conti tra Rohn e Loden, in sella a un grosso drago mostruoso, avviene sul Mäelstrom, un gigantesco vortice in mezzo all'oceano dove sono stati imprigionati gli Sterminatori ostili al Divinatore, un luogo tragico e sublime che vede, al termine di uno dei livelli più emozionanti, la fine della lotta tra i due uomini, svolta in sella ai loro draghi nel cuore del Mäelstrom, dal quale emergerà solo Rohn.
L'ultima battaglia ha invece come scenografia il vulcano, la prima causa di tutte le prove subite dai due popoli in guerra, e come antagonista il Divinatore, causa minore, umana, ma di maggiore malvagità. Sarà solo dopo la sua morte che i due popoli si riuniranno, guidati dai loro capi verso un'era più giusta.

Non è tanto ciò che accade, a rendere interessante il mondo di Lair, quanto l'aspetto che ha il mondo stesso, poiché non si tratta del solito Medioevo europeo, bensì di una sorta di epoca preistorica, dall'aspetto a tratti apocalittico vista la minaccia dei vulcani e l'atmosfera da "fine del mondo", dove i draghi sono solo alcune (esistono diversi tipi di drago) delle tante specie animali che abitano la terra.
Per competere in guerra con gli Asyliani, i Mokai schierano infatti i Taurus (chiamati "minotauri" nel doppiaggio italiano), grossi bovini leggermente più piccoli dei draghi, e i Rinoceronti lanosi, che sono ancora più grandi; dal canto loro, gli Asyliani fanno viaggiare le loro risorse attraverso giganteschi animali, o via aria, grazie a immense creature volanti chiamate Mante, simili appunto a mante con lunghi musi pieni di denti e senza occhi, o via terra, su dei bestioni vagamente simili al Paraceratherium, il più grande mammifero mai esistito, peraltro svariate volte più grandi, senza la sua distintiva proboscide e con la pelle a squame, come un dinosauro.


Si tratta dunque di un mondo dove la natura è ancora potente, e dove i grandi animali sono ancora diffusi. I grandi predatori, poi, sono completamente indomabili: in un livello, forse il mio preferito, si riceve l'attacco di quello che viene chiamato "Coral Snake" (Serpente Corallino), un serpente marino la cui sola testa ha, rispetto al drago, le stesse dimensioni che ha quest'ultimo rispetto a un uomo. È in grado di azzannare quelle enormi mante e trascinarle in acqua per divorarle, e quando viene danneggiato le sue squame rilasciano in aria una specie di sostanza oleosa che danneggia i draghi. In un altro livello bisogna invece affrontare lo Spiderwasp (ragno vespa), che nel doppiaggio italiano è diventato "aracnodittero", un insetto grosso sì e no quanto la testa del serpente marino che attacca violentemente con le sue grosse tenaglie e rilascia sciami di sua progenie.

In un mondo così ben realizzato, anche i draghi sono perfettamente integrati con gli altri animali nel suggerire un ecosistema preistorico verosimile.
Di draghi esistono diverse specie, di forma e dimensioni variabili. Mentre nei mondi fantasy i draghi sono giganteschi e sono spesso la forma di vita più grande del loro mondo, o una delle più grandi, in Lair sono visti a confronto con diverse altre specie, e molte di queste sono più grandi di loro. Questo è un aspetto che mi è sempre piaciuto: tra le mie prime letture ci sono molti libri sui dinosauri e parecchi sugli animali in generale, e da questi ho imparato a fare attenzione al funzionamento degli ecosistemi, nei quali, spesso anche se non sempre, i predatori sono più piccoli degli erbivori che cacciano, in modo tale che una preda possa nutrirli a lungo e in modo che le prede spesso siano protette dalle proprie dimensioni. Pensate alla savana, con leoni e leopardi a caccia di gazzelle e di gnu -ma talvolta anche di gazzelle e animali più piccoli, certo- e pensate anche a grandi elefanti che avanzano indisturbati. Pensate a uno scenario giurassico, con gli Allosauri alle prese con sauropodi dal collo lungo molto più grandi di loro, o se preferite a un paesaggio del Cretaceo, con dromaeosauridi (cioè "raptor") che cacciano in branco per abbattere degli Adrosauridi, erbivori dal becco d'anatra in grado di sfamare una decina di loro. Lair suggerisce, per quanto non sia quello il punto, un paesaggio del genere, con draghi che cacciano minotauri o si aggregano per abbattere i rinoceronti, e che cadono facilmente preda di un serpente corallino, come pterosauri divorati da un grosso mosasauro.
Dei draghi esistono probabilmente altre specie al di fuori di quelle viste nel gioco, ma queste ultime vengono tutte impiegate in guerra dagli Asyliani e dai Mokai.
Dalla parte dei primi vediamo, per la prima parte del gioco, i draghi delle pianure (Plains Dragons) e i draghi del fuoco (Flame Dragons), impiegati anche dai Mokai. I più frequenti sono i draghi delle pianure, come quello che cavalca Rohn, e sono certamente i più rappresentativi del gioco.

I draghi delle pianure rivelano l'ispirazione tratta dagli animali preistorici al fine di rendere realistici gli animali del gioco, con le loro mascelle simili a quelle di un Tyrannosaurus, seguite da lunghe corna che rendono impossibile scambiare il loro cranio per quello di qualsiasi altra creatura; il loro corpo ricorda anch'esso quello di alcuni dinosauri, come l'Iguanodon, posto orizzontalmente rispetto al terreno e retto dalle zampe posteriori, mentre quelle anteriori, che i draghi utilizzano bene come armi d'offesa, sono abbastanza lunghe da poggiare a terra all'occorrenza. Le loro ali, poi, sono composte da un patagio (cioè una membrana) tesa tra gli arti che hanno sulle spalle e la coda, piuttosto che solo tra arto e fianco come nella maggior parte dei draghi moderni. La coda corta e il potente sistema muscolare favoriscono tutti il volo, per quanto il loro aspetto sia di animali decisamente troppo pesanti; ma la sospensione dell'incredulità serve apposta.
I  draghi del fuoco sono poco esplorati, anche perché sono solo comparse nella prima metà del gioco e diventano occasionali nemici nella seconda; sono di colore fulvo più acceso del color terra dei draghi delle pianure, hanno dimensioni simili e possiedono caratteristiche corna da ariete. Queste sono anche le uniche specie di drago a soffiare fuoco "rosso".

I Mokai combattono con fondamentalmente tre tipi di drago: i draghi del fuoco, i draghi del gelo (Frost Dragons) e i draghi oscuri (Dark Dragons), i cui nomi evocano gli ambienti dove questo popolo dimora.
I draghi del gelo sono i più piccoli draghi esistenti (un po' come i draghi bianchi in Dungeons & Dragons), pensati per costituire il tipo di nemico debole ma numeroso, che insieme al tipo grosso e forte (cioè i draghi oscuri) crea un senso di varietà nel combattimento. I draghi del gelo sono grigio-azzurri, con la parte inferiore del corpo più chiara, hanno un muso corto e tozzo terminante in una sorta di gobba sulla mascella superiore. Volano in gruppo, ed è sufficiente una singola palla di fuoco 'caricata', cioè non sputata in serie con altre palle di fuoco, per abbatterne uno, e se il drago si avventa su di loro in modalità furia non si ingaggia nessuno scontro, ma cadono feriti a morte. Non sputano fuoco, ma un soffio che forse sarebbe gelo, ma concretamente ha gli stessi effetti del fuoco e si distingue solo perché è blu. Lo stesso soffio hanno tutti gli altri draghi che vedremo da ora in poi.
I draghi oscuri sono i più caratteristici di Lair dopo quelli delle pianure, in quanto compaiono già nei primi trailer e nelle illustrazioni ufficiali del gioco, che li mostrano volare contro quello del protagonista, incarnando dunque l'idea di principali draghi dei Mokai. Color crema, grigi sul dorso, sono leggermente più grandi dei draghi delle pianure, e soprattutto più grossi e pesanti, caratterizzati dal collo largo e ricoperto da una serie di piastre naturali sovrapposte, che proseguono fino al muso terminando in una punta che li rende immediatamente riconoscibili. Il muso è di media lunghezza e gli occhi sono piccoli.
Unico in entrambi gli eserciti, almeno per quello che vediamo, è il drago di Atta-Kai, che sceglie Rohn come suo cavaliere dopo la morte del primo. Si tratta di un drago sanguinario (Blood Dragon), appartenente a una razza feroce e molto riverita, che prende il suo nome dalle macchie rosso sangue che ha sulla testa, e dagli screzi dello stesso colore sulle ali. Il drago sanguinario è uno dei draghi più grandi, ma è leggero, senza la robustezza dei draghi oscuri, e pensato per essere veloce senza rinunciare a un po' di forza in più. Il suo corpo, la cui livrea fatta di varie gradazioni di grigio ricorda quelle di molte ricostruzioni dei dinosauri, è scattante e ricorda quello di un levriero, mentre le ali hanno una membrana abbastanza stretta, e ai lati del primo tratto di coda si trovano disposti spuntoni laterali, come quelli sui fianchi di Ankylosauridi come Polacanthus. La testa ha una forma molto caratteristica: mascella superiore stretta e mandibola larga, ha due grosse zanne alla fine di entrambe, e sulla parte centrale del muso una cresta a forma di falce, piegata verso l'indietro, che sembra avere un aspetto aerodinamico e che probabilmente cambia colore nel periodo degli accoppiamenti (no, questa è pura speculazione fine a sé stessa, mi sto prendendo in giro da solo e sono abituato a congetture del genere proprio per via di tutti quei documentari sui dinosauri).

Negli ultimi livelli di gioco troviamo, dalla parte degli Asyliani, altre due specie, i draghi del vento (Wind Dragons) e i draghi della tempesta (Storm Dragons).
I draghi del vento sono il corrispettivo asyliano dei draghi di ghiaccio, piccoli e poco resistenti, ma sono la specie più veloce tra quelle presenti nel gioco. La loro caratteristica più evidente è il collo lungo e ricoperto da una corazza naturale, seguito dalla coda corta, dalle spine ai lati del cranio e dalle zampe anteriori piccole, simili a quelle di un dinosauro teropode.
I draghi della tempesta sono lo zoccolo duro dell'armata asyliana, animali così feroci e selvaggi che al vederli per la prima volta i Mokai si domandano come i nemici siano riusciti a domarli, cosa che significa che è la prima volta che vengono impiegati in guerra. Sono ancora più grossi dei draghi oscuri, ma mentre questi sono interamente costituiti da fasci di muscoli, i draghi della tempesta hanno un largo e flaccido ventre, e probabilmente è per compensare quel peso che la loro apertura alare è ancora più ampia di quella degli altri draghi. I loro arti anteriori sono grossi e più lunghi dei posteriori, mentre la loro testa accresce l'impressione di disprezzo e volgarità suscitata dalle altre caratteristiche, con muso corto, mandibola più grande e ampia della mascella, piccoli occhi, nessuna cresta o corno.
Nel livello "Mäelstrom", Loden appare cavalcando un esemplare ancora più grosso degli altri, di un verde acceso.

I contenuti scaricabili di Lair, usciti qualche tempo dopo il gioco, hanno aggiunto la possibilità di un controllo analogico sul volo dei draghi, in modo da facilitarne il controllo, e due draghi giocabili, che si sono aggiunti nelle scuderie dove è possibile, all'inizio di ogni livello, scegliere il drago da cavalcare; scuderie che dalle dimensioni lasciano intendere di essere state pensate per inserire diversi draghi, che prima dell'uscita di questi contenuti davano accesso solo al Plains Dragon e al Blood Dragon, e che hanno acquisito un senso grazie ai nuovi draghi. Uno è il Wind Dragon, di cui abbiamo già parlato, e l'altro, assente nel gioco, è il Poison Dragon.
Il drago venefico è il drago più grande del gioco, nonché quello fornito di attacchi più potenti, a scapito della velocità, in merito alla quale è il più lento; un'alternativa complementare al drago del vento. Il drago venefico è verde con le membrane alari porpora, ha ali gigantesche i cui bordi sono costellati di punte che gli danno una connotazione aggressiva e un po' esotica, accresciuta dal colore e dalla testa, più simile a quella di una lucertola o un'iguana che a quella draconica del Plains Dragon, anche per via dei barbigli ai lati del cranio. Ai lati della coda vi sono altre membrane frastagliate.
Il drago venefico è l'invenzione mostruosa che mi piace di più all'interno del gioco: posto un soggetto di base, un modello, descrivibile come "drago quadrupede con le ali, reso realistico attraverso la presenza di caratteristiche di animali realmente esistenti o esistiti e la differenziazione in varie specie", il venefico è la variazione del modello che riesce più originale e con più personalità, oltre ad avere il fascino da "non ti raggiungo, ma se ti raggiungo...".


Alla base di tutta questa mia attenzione per il bestiario di gioco non c'è solo l'apprezzamento per il design e per la quantità di draghi e animali vari, che è tanto, ma un enorme interesse per l'idea a monte, creare un'ambientazione caratteristica e credibile -che a conti fatti trovo anche molto ma molto originale- che riesca, tra le tante cose, a inserire i draghi in un sistema che permetta situazioni drammatiche, nelle quali essi non siano la forza più grande presente in gioco.
Raccontare una storia incentrata sui draghi, dove quel potere è protagonista, significa correre il rischio che, per quel potere, non si riesca a creare tensione perché esso è in grado di distruggere qualunque cosa. L'esistenza di varie specie di drago riesce in parte a limitare il problema, ma soltanto in parte, perché lo scarto di potenza tra queste specie è tutto sommato esiguo.
È invece grazie all'esistenza del serpente corallino e del ragno vespa, predatori molto più grandi e formidabili dei draghi, che si avverte come anche questi corrano il rischio di essere predati, e dunque non siano nella totalità dei casi la specie dominante in natura. È certamente vero che i draghi cavalcati da Rohn riescono ad avere la meglio sui due animali, uccidendo l'aracnodittero e provocando la morte del serpente attirandolo sugli scogli, ma ciò è possibile per la presenza di un cavaliere, in grado di guidare le qualità fisiche delle sue cavalcature grazie alla propria intelligenza (anche perché è Rohn a finire l'aracnodittero, aprendogli un lungo taglio sul dorso dopo che il drago l'ha privato della corazza difensiva).
Il Mäelstrom e il Vulcano, infine, ricordano come in questo mondo siano i fenomeni naturali i veri tiranni che stabiliscono il destino, i predatori al di sopra di tutti gli altri, e come la sua sia una natura forte, distruttiva e maestosa, un mondo dove il sublime erutta fuoco dal ventre della terra e dal cielo.

Un altro problema, e questo me lo sono sempre posto, riguarda i draghi da un punto di vista biologico: in un'ambientazione realistica, come farebbero a nutrirsi contando solo su animali molto più piccoli di loro, e cosa li avrebbe portati ad evolversi in creature così grandi senza la presenza di rivali naturali che le loro dimensioni sarebbero servite a superare? Anche se queste questioni -che ho posto nella superficialità della mia cognizione dell'evoluzione e della zoologia- dovessero essere facilmente smontate da un parere scientifico, resta il fatto che draghi come quelli che ho riportato, in un mondo dove l'animale terrestre più grande fosse l'elefante, darebbero quanto meno un senso di alienità.
Ecco perché trovo così importante che insieme a loro siano mostrate diverse specie di animali di dimensioni vicine alle loro: grazie a queste Lair ci permette di farci un'idea di come vivano i draghi in natura, cacciando i Taurus -temibili in uno scontro corpo a corpo, ma facili da abbattere con il fuoco e ancora di più col vantaggio del volo-, guardandosi dai Rinoceronti, che però possono abbattere in gruppo e che in ogni caso un singolo drago, come mostra il gameplay, può uccidere tirando via la testa. I draghi possono facilmente avere ragione delle mante e dei giganteschi quadrupedi del deserto, che possono sfamare diversi esemplari anche per molto tempo, disfarsi dei piccoli sciami di insetti grazie al fuoco, ma devono guardarsi dagli aracnoditteri, dai serpenti corallini -che a loro volta si nutrono delle mante e delle ignote altre specie marine, che in un mondo come quello devono essere gigantesche- e magari anche da altre bestie giganti che vivono lontano dal mondo civilizzato di Asyliani e Mokai.
Sarebbe stato suggestivo ricorrere a specie realmente esistite, come dinosauri, mammut, mammiferi dell'era Cenozoica e grossi rettili marini, ma non sarebbe stato affascinante come la riuscita finale: animali frutto di fantasia, come i draghi, che affondano le loro origini in parte nella stessa tradizione leggendaria dei draghi (i Taurus ricordano i minotauri anche indipendentemente dal doppiaggio italiano, il serpente corallino è vicino ai serpenti marini lungamente descritti fin dall'antichità), in parte negli animali preistorici che fungono da base per la loro verisimiglianza, che riescono a fare da complemento ai grandi rettili volanti nel loro aspetto da creature che in parte sentiamo esserci sempre appartenute, e in parte ci sembrano provenire da un altro mondo.

A rendere interessante questo mondo si aggiungono poi i suoi paesaggi e le sue atmosfere. Il livello "Tempesta di fuoco" mostra per la prima volta le terre dove vivono i Mokai, e ci porta a percorrere in volo lunghe catene montuose ricoperte dalla neve, come in certe inquadrature del Signore degli Anelli, e trai i giganteschi grembi ai piedi delle montagne trovano posto edifici avanzati e avveniristici. Il successivo "Rinascita", con Rohn che vaga nel deserto alla ricerca di acqua, sposta l'azione in mezzo a canyon desolati, e dopo ancora "Rompere il ghiaccio", il livello in cui Rohn attacca la prigione asyliana per liberare Koba-Kai, è un assalto a un grande forte cinto da mura in mezzo a un'infinita distesa di ghiaccio. I colori riverberano e mutano ancora quando sono illuminati dal fuoco dei draghi, mentre gli edifici crollano in cenere e il ghiaccio si colora di rosso.
Ma ciò che rende davvero indimenticabile l'esperienza in questo mondo è la colonna sonora, come già detto una delle più belle della storia dei videogiochi, maestosa al punto da permettere di collocare Lair tra le grandi storie epiche del nostro mondo (se non fosse che non la ricorda nessuno, quindi è indimenticabile solo per pochi). Il compositore John Debney, premio Oscar nel 2005 per "La passione di Cristo", autore anche dei temi di Sin City, Iron Man 2, Le follie dell'imperatore (!!!), si è trovato per la prima volta a comporre per un videogioco, eseguita da un'orchestra di 90 persone agli Abbey Roads Studios di Londra. La sua opera è stata lodata anche con voti massimi, e paragonata a quella di John Williams per Star Wars -in particolare alla celeberrima "Duel of the Fates", che molti brani di Lair ricordano un po'-, cui in effetti Debney mirava: a suo dire, l'intento era di creare una colonna sonora che congiungesse Star Wars e Conan il Barbaro. E il risultato è certamente al livello dei capisaldi del cinema fantasy/epico: i toni concitati delle battaglie di "Bridge of the Ancients", l'oscura epicità di "Serpent Strait", che accompagna la battaglia col mostro marino, la dirompente bellezza di "Firestorm" e la maestosità di "Breaking the Ice" danno la viva impressione di una guerra per il destino dei popoli in lotta. Si alternano momenti più pacifici o introspettivi, come il tema di Rohn, o quello lento e melodico dei Mokai, fino al peso della tragedia avvertito in "Elegy", che accompagna il momento in cui Rohn scopre di aver distrutto un tempio pieno di civili.
Una menzione a parte merita il brano che accompagna un livello abbastanza unico, "Passo del Demone", durante il quale Rohn si introduce nottetempo alla base Mokai, volando lento per evitare i fari che lo segnalerebbero e via via spegnendoli, lasciando dietro di sé il buio. Il brano si intitola "Darkness Theme" ed è altrettanto unico, è oscuro e tragico, grande e misterioso, pensato da Debney per rappresentare il momento della caduta di una grande civiltà e accompagnato dalla voce di Lisbeth Scott, cantante che avrete sentito anche voi nei primi due film delle "Cronache di Narnia", ne "L'ultimo samurai", "Dinosauri", ""La vendetta dei Sith" o "Avatar". Il livello in sé mi ha fatto dannare, dato che i difetti di gameplay rendono difficile le delicate operazioni che richiede, ma la dimensione che crea ha un sapore davvero ancestrale.

È il caso di dirlo, non è quello l'unico punto che mi ha fatto dannare. Lair è forse il gioco più frustrante che abbia giocato: il suo sistema di puntamento dei bersagli è molto scomodo, ti porta a volare sempre più vicino all'obiettivo finché non lo superi e non riesci più a colpirlo, in generale cambiare rapidamente direzione non è immediato, e per quanto abbia senso pensare che gestire le redini di un dinosauro con le ali non debba essere la cosa più facile del mondo, si tratta di oggettivi difetti di progettazione. Giocare con il sistema SIXAXIS richiede un'attenzione maniacale ai propri movimenti, poiché un movimento poco più forte di quanto desiderato porta il drago dalla parte opposta a quella intesa; oltretutto, anche con la patch del controllo analogico, le azioni di scontro aereo contro altri draghi, e quelle in cui usarli per staccare oggetti dalla loro base (richiesta per distruggere armi antiaeree e per asportare la testa ai rinoceronti), si effettuano scuotendo il pad con forza, cosa che eseguita molte volte fa un po' stancare.
Il gioco è stato sviluppato anche in vista della funzione di controllo remoto, con cui utilizzare la PlayStation Portable come controller della 3, cosa che la neonata console stava sperimentando; forse usando la console portatile, più maneggevole del Dualshock 3, la risposta del gioco sarebbe stata migliore, è un'esperienza che non ho fatto e su cui, in ogni caso, non si può basare il sistema.
Riprendere il gioco in questi giorni in occasione del post mi ha fatto dannare ancora, perché quei problemi sono sempre là. Non ne nego nessuno.
Ma resta il fatto che Lair è l'unico gioco a permettermi quel tipo di controllo su un drago, e nessuna funzione offerta da qualsiasi videogioco può valere quanto quella, per me. Un videogioco basato sulla stessa cosa e realizzato in maniera perfetta, lo giocherei molto più di quanto faccia con le mie saghe preferite. Ecco perché gioco ancora a Lair dieci anni dopo, continuando -a distanza di tempo- a rifare i miei livelli preferiti e alternare un po' i draghi giocabili: in Lair posso volare su un drago, muovermi tra la terra e il cielo volando in qualunque punto e atterrando ovunque ci sia lo spazio, scorrere sul mare vedendo la schiuma sollevarsi dove il drago sfiora con la punta dell'ala la superficie dell'acqua.

Inoltre, dal complesso dei fattori elencati fin qui, e dalle impressioni che ho provato rigiocando, resto dell'idea che Lair sia una delle declinazioni del fantasy epico più originali e riuscite del nostro tempo.
Alla base di tutto vi sono motivazioni visive e auditive: i colori usati, la patina di antichità e di polvere vista fin dai primi trailer, gli allestimenti di colossali armate che si affrontano in paesaggi aperti con alte montagne in lontananza, sono tutti ingredienti che ricordano da vicino le suggestioni del "Signore degli Anelli" cinematografico; e Lair ne è certamente debitore, ma può vantare, rispetto alle infinite epopee di elfi e orchi degli anni Duemila, una sostanziale originalità rispetto al modello, in quanto inscena un conflitto altrettanto epocale ma radicalmente diverso, quello di uno scontro tra civiltà umane contrapposte da ragioni politiche, combattuto in maniera diversa. Anche Lair finisce sulle pendici di un vulcano, ma per una ragione meno profonda e più semplice, affrontare apertamente l'antagonista tirannico che vi si trova e porre fine alla guerra in una dimensione interamente ed esclusivamente fisica. In entrambi i casi quella situazione significa però un cambiamento epocale, la fine della lunga serie di guerre che hanno preceduto quel momento.
È di questo che parla un èpos, così che appare, è questa grandezza che ispira, una grandezza che a vedersi trasmette sensazioni che resterebbero solo aria, se una colonna sonora all'altezza non le rendesse solide, potenti come il cozzare dei corpi di due dragoni uno contro l'altro.
Dal punto di vista narrativo, Lair racconta una storia con buoni ritmi, non particolarmente originale o innovativa che si parli di premesse e antefatti o di conclusioni. Quella storia, pure, è più che sufficiente a fare da intelaiatura alle immagini e alle suggestioni, da cornice ai singoli episodi, episodi che riguardano un susseguirsi di battaglie e operazioni militari dove ciò che conta è come viene svolto il tutto. Si può dire che Lair sia uno di quei casi in cui il come conta più del cosa, che serve a permetterlo, ci riesce e non mira ad andare oltre. Si potrebbe osservare che un qualunque film di guerra procede in modo simile, senza per questo suggerire tutte quelle idee di èpos, ma la dimensione antica di questo gioco riesce a fare la differenza: sentiamo che la vicenda è avvenuta in un passato molto lontano, il passato di un mondo che non è certamente il nostro, ma che ci parla con tale intensità da renderci partecipi e sentirci un po' riguardati dalla sua storia. Le battaglie campali sono la nostra storia, i draghi sono la nostra storia.


Esistono altri giochi dove è possibile controllare un drago.
C'è Spyro, un caposaldo della storia videoludica, ma non ha e non cerca questa impostazione realistica. C'è Drakengard, dove il drago è un comprimario che si può chiamare solo a volte, c'è Divinity II: Ego Draconis, dove il guerriero protagonista può trasformarsi e anche volare per il mondo di gioco, ma è solo una parte e non ha tutti i dettagli del volo di Lair. I DLC di Skyrim hanno aggiunto al gioco la possibilità di cavalcare i draghi, ma non di guidarli liberamente. C'è il recente Ark: Survival Evolved, un gioco di sopravvivenza dove si addomesticano i dinosauri e dove le espansioni hanno aggiunto delle viverne che possono essere analogamente addomesticate e cavalcate; in video mi sembra anche una cosa interessante, ma anche qui è solo una piccola parte in qualcosa di più vasto, e il loro volo ha meno aspetti di cui tenere conto di quello di Lair. Tutti questi giochi includono i draghi, e la maggior parte di loro ha anche una storia migliore di quella di Lair, ma in nessuno il controllo e la manovrabilità di un drago in cielo sono l'elemento centrale.
Vi era un progetto di Platinum Games molto atteso, un'esclusiva Microsoft di nome Scalebound, dove un eroe umano accompagnato da diversi draghi avrebbe avuto la possibilità di molte interazioni e di cavalcarli; c'era molto da rivelare ancora, ma il gioco è stato cancellato.
Vi era un progetto nato quest'anno, un'idea dei Protoria Studios intitolata Skyfear, che doveva corrispondere a quello che cerco, un gioco dove manovrare draghi a quattro arti -anche qui chiamati viverne nel gioco stesso- impegnarli sia sul terreno che in cielo, con micidiali scontri. Il gioco non ha ricevuto abbastanza fondi su Kickstarter, e sembra che non vedrà la luce ad eccezione della piccola demo sul sito ufficiale.
Pare quasi che una maledizione aleggi sui videogiochi dei draghi: quando si prova a farne uno accade qualcosa, a meno che i draghi non siano una parte in un insieme più vasto. Anche Lair è stato colpito dalla maledizione, ma è l'unico che in qualche modo sia riuscito a sopravvivere.



Una delle mie più grandi curiosità senza risposta deriva dal primo trailer: come potete vedere, mostra un drago del fuoco, piuttosto che il più rappresentativo drago delle pianure, ergersi su un promontorio e ruggire la sua sfida senza avere esseri umani nelle vicinanze; dopodiché, si apre quello che pare proprio un portale magico nel cielo, e ne fuoriesce un drago oscuro, anche lui senza cavaliere, che ingaggia un feroce combattimento col drago del fuoco finché entrambi non si trovano  a precipitare. Se ne possono trarre alcune conclusioni: le più semplici, i draghi del fuoco e oscuri sono stati concepiti tra i primi, ed è possibile che a essere protagonisti dovessero essere i primi, piuttosto che quelli delle pianure; l'idea dei cavalieri, se anche presente fin dall'inizio, non era considerata come di centrale importanza, forse il concept originale prevedeva addirittura una storia incentrata sui draghi nel loro ambiente naturale; soprattutto, era presente una componente sovrannaturale-magica che è poi stata abbandonata. Sono molto curioso di sapere quale potesse essere questa idea e come potesse essere un Lair "più fantasy", ma una delle ragioni per cui lo apprezzo così tanto è proprio il modo in cui ha creato una bella ambientazione senza quegli elementi, basandola piuttosto sulle civiltà, le creature e i paesaggi.

Ho detto all'inizio che il post ha uno scopo. Ne ha più di uno.
Quello da cui sono partito era ricordare questo gioco, che ha un valore nella storia delle console, vale molto di più in un'ideale storia dei giochi sui mostri -sarebbe bello ricostruirla-, contiene molte cose che mi piacciono e che volevo condividere, e rappresenta qualcosa di importante nella mia crescita. Lo trovai, dopo averlo a lungo desiderato, in un negozio indipendente nell'estate del 2011, feci anche una gran scenata davanti alla donna del negozio lodando la loro fornitura e la mia fortuna presso di loro, dato che nello stesso posto avevo trovato Final Fantasy X dopo una ricerca simile; quell'estate in cui lo giocai era la stessa in cui attendevo l'uscita di Skyrim e di Dark Souls, prima di quello che per lo zodiaco cinese sarebbe stato l'anno del Drago. La cosa che mi è rimasta più impressa negli anni è quella ricchezza di creature immaginarie grosse quanto e più dei draghi, che permettono un equilibrato rapporto di potenza di questi rispetto al loro mondo, e la costituzione di quegli ecosistemi. Questa era la cosa che più mi premeva esprimere.
Ma mentre elaboravo il post ho notato anche un'altra cosa, e ad essa mi riferivo quando ho parlato di scopo: il modo in cui Lair funziona come opera epica fantasy di piglio cinematografico, in grado non sfigurare davanti al modello supremo jacksoniano, senza peraltro rientrare nello stesso ambito e senza dovere tanto alle storie della Terra di Mezzo per la sua ambientazione. Queste creazioni artistiche permettono l'immersione in mondi che catturano la nostra fantasia, ma in più ci assaltano con quel senso di antica bellezza e monumentalità tali da ispirarci non solo piacere e meraviglia, ma anche autorità e ammirazione.
Lo scopo è non dimenticare Lair. Parlarne, andare oltre i suoi difetti, non permettere che questi ci impediscano di ricordare i suoi pregi, le cose buone che ha, e soprattutto riprendere queste cose buone, per comprenderle e per trarne lezioni grazie alle quali arricchire le prossime storie, renderle migliori e far vivere Lair anche attraverso di loro. Storie che ci trasmettano quella grandezza e quella bellezza, che ci stupiscano con paesaggi splendidi e creature maestose e spaventose, e soprattutto storie in cui possano vivere i draghi. Quel nome, "Lair", mi evoca sempre nella mente l'immagine del drago principale, quello mostrato nei trailer, e prendermi cura di Lair è come prendermi cura di quel drago, il cui benessere dipende anche da me.

giovedì 16 novembre 2017

Hellraiser, mitologia del dolore

"Faust: «In voi, signori, di solito l'essenza
la si legge nel nome fin troppo chiaramente,
quando vi chiamano dio delle mosche,
corruttore e padre di menzogne.
Insomma, tu chi sei?»
Mefistofele: «Parte di quella forza
che vuole sempre il male e produce sempre il bene.»
Faust: «Cosa vuol dire questo indovinello?»
Mefistofele: «Sono lo spirito che nega sempre!
E con ragione, perché tutto ciò che nasce
è degno di perire.
Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla.
Insomma, tutto ciò che voi chiamate
peccato, distruzione, in breve, il male,
è il mio specifico elemento.»"
Faust, Goethe.

"Un uomo, per essere veramente felice in questo mondo,
non solo deve darsi a tutti i vizi
ma mai permettersi alcuna virtù,
e non solo è necessario fare sempre il male,
ma anche non fare mai il bene.
"
D.A.F. de Sade, Le 120 giornate di Sodoma.

Mi eccita -per questo post dovrò usare un lessico specifico- mi eccita, dicevo, il modo in cui il nome di un artista, che ha creato le sue opere improntandole verso alcune caratteristiche specifiche, riesce ed evocare un particolare sistema di visioni, colori, immagini e sensazioni.
L'esempio più immediato è quello di Lovecraft: lovecraftiano è un aggettivo molto usato nell'ambito dell'orrore, del fantascientifico e di numerosi altri generi e contaminazioni di generi, perché richiama immediatamente, a parte un mucchio di tentacoli, mostri infiniti e assurdi, follia e perdita della sanità mentale, manicomi, porti e stelle malvagie.
L'aggettivo inglese "gigeresque", dall'opera del grande artista H.R. Giger, di cui ho avuto occasione di parlare diverse volte, sembra riconosciuto da qualche dizionario, e chi conosca Giger penserà subito a fredde e spaesanti visioni di biomeccanoidi e altri ibridi di tecnologia, biologia e pornografia.
Il nome di Stephen King, d'altra parte, fa pensare sì a grandi storie, ma trasmette un insieme di visioni più variegato, dato che il maestro del brivido ha sperimentato molti generi diversi, e benché abbia creato suoi universi, molti dei quali collegati dalla Torre Nera, non si possono comprendere in pochi cenni schematici come per gli esempi precedenti.
Tutto questo per dire come, malgrado anch'egli abbia provato diversi generi, il nome di Clive Barker abbia un grande potere evocativo, su chi lo conosce, e richiami alcuni aspetti ricorrenti in diverse manifestazioni della sua multiforme arte: carne, sessualità, sacrilegio e fiumi, alluvioni di sangue. E questo per me è puro erotismo.


Sono pochi gli scrittori che possano essere indicati come autori dell'orrore; pochissimi, in effetti, se escludiamo quelli già nominati. Per questo ho sempre provato fascino per la figura di Barker, perché lui non si è saltuariamente spinto in quei lidi, ma vi si è stabilito e ha costruito una grande provincia che porta il suo nome. E poi l'ho sempre adorato per quella precisa sfilza di stilemi che gli fanno da firma, la grande quantità di sangue e soprattutto le frequenti incursioni all'Inferno -e qui riprendiamo dove eravamo rimasti col post precedente.
Di tutti i frutti del suo genio creativo, quello indiscutibilmente più celebre è la saga di Hellraiser, la cui fama oscura la lunga serie di racconti dei Books of Blood, romanzi come Cabal e Abarat, o i videogiochi "Clive Barker's Undying" e "Clive Barker's Jericho".
Hellraiser è una di quelle serie di film horror che vanno avanti a lungo con tanti nuovi capitoli che, via via, si fanno di qualità sempre più infima, e ciononostante proseguono fino a raggiungere anche la decina di episodi, come Nightmare, Venerdì 13 o Halloween. Non è certamente il tipo di film che prediligo, ma nel suo stato iniziale, e per alcuni seguitisc, quella di Hellraiser è la mia serie cinematografica horror preferita; rispetto a molti altri franchise dell'orrore, Hellraiser ha dalla sua una grande partecipazione del suo creatore alle varie storie ambientate nel suo universo, sicché è possibile scorgere un quadro di fondo che corrisponde all'idea di Barker. Dei nove film, più un decimo in uscita, solo i primi due hanno dalla loro la mente del padre, ma suo è anche il racconto lungo da cui è nato tutto, la supervisione di alcune delle serie a fumetti uscite negli anni, la scrittura della più recente, una splendida serie edita da Bao Publishing, ad oggi una delle migliori serie a fumetti che abbia letto, e infine il romanzo "The Scarlet Gospels", in italiano "Vangeli di Sangue", uscito recentemente e scritto per tornare a dare conclusione a questo universo.
Per cogliere l'essenza più pura -nella sua assoluta torbidezza- della storia di Hellraiser, in questo post mi occuperò degli atti iniziali della saga, cioè del racconto da cui è nata e dei primi due film. Su Hellraiser scriverò poi altri due post, in futuro, in modo da comporre una rassegna che parli degli altri otto film, in modo da non omettere gli spunti buoni presenti in alcuni di essi (senza peraltro dedicare loro più spazio del necessario) e raccontare, dopo siffatta parentesi, come Barker abbia proseguito la sua epopea attraverso la serie a fumetti e i Vangeli di Sangue, portandola ad un altro livello.
Premetto qui che per parlare del libro mi baserò sul testo originale, poiché per molti anni è stato impossibile reperire il volume italiano "Schiavi dell'Inferno" a meno di pagarlo caro sui siti di commercio elettronico. Solo un mese fa, a mo' di beffa, è uscita una nuova edizione italiana, con una copertina molto intrigante, e rispetto a quello che trovereste al suo interno, nomi e citazioni che farò qui risulteranno diversi.

Clive Barker, come anticipavo, è scrittore, regista, sceneggiatore di fumetti, film e videogiochi, e oltre a ciò anche artista e scultore. La sua carriera è iniziata con i corti "Salome" (1973) e "The Forbidden" (1978), mentre l'esordio letterario è stata la serie dei sei Libri di Sangue, scritti tra il 1984 e il 1985; nello stesso periodo Barker ha scritto due lungometraggi, "Underworld" del 1985, e "Rawhead Rex", dell'anno successivo, basato su uno dei racconti dei Libri di Sangue. Nessuno di questi film, B-movie diretti da altri registi, ebbe il risultato che lui aveva sperato; così, sempre nel 1986, decise di scrivere una nuova storia e di realizzarne lui stesso la trasposizione cinematografica.
La storia è un racconto dal titolo "The Hellbound Heart", che letteralmente significa "Il cuore legato all'Inferno", e che verrà tradotto in Italia come "Schiavi dell'Inferno". Viene pubblicato su Night Visions, una serie americana di antologie di racconti dell'orrore, edita da Dark Harvest tra il 1984 e il 1991, e per la precisione nel terzo numero, curato da un certo George R.R. Martin, che ha a sua volta scritto alcuni racconti per i numeri seguenti. Il film, che durante un periodo della sua produzione doveva intitolarsi "Sadomasochist From Beyond The Grave" (Sadomasochisti dall'oltretomba), esce l'anno successivo col titolo Hellraiser, che significa "colui che fa salire l'inferno", oppure colui (o colei) che lo nutre, che lo alimenta; è il settembre 1987, e quest'anno sono ricorsi i suoi trent'anni.
Sia il racconto che il film hanno inizio con un cubo, l'emblematico cubo che è il principale elemento ricorrente della serie, insieme al personaggio di Pinhead che vedremo più avanti. Il cubo, un puzzle da risolvere spostandone le componenti, viene chiamato "Lament's Configuration", Configurazione del Lamento, e viene anche indicato attraverso il nome dell'artigiano che l'ha costruito, un giocattolaio del XVIII secolo di nome Lemarchand, specializzato in scatole musicali: e questa, rispetto ad altre, è una caratteristica meno appariscente della scatola, ma sia nel racconto che nel film essa produce una misteriosa melodia ogni volta che viene aperta. La scatola è decorata con forme geometriche incomprensibili, un'eco della "geometria non euclidea" che Lovecraft inseriva spesso nei suoi racconti, e benché nei film sia composta da pezzi a incastro, il racconto la fa sembrare molto più complessa, poiché non si tratta solo di scomporre i pezzi, ma di aprirla e rivelare i diversi livelli al suo interno. Come aprirla è la cosa più interessante: l'uomo che la possiede all'inizio della storia, Frank Cotton, impiega giorni, mesi, forse, per aprire la scatola: la cosa richiede concentrazione, in un certo senso dipende dall'affinità che chi la sta usando ha con ciò che essa rappresenta, ovvero una assoluta, insaziabile e indescrivibile ricerca del piacere.
"Risolvere il puzzle è viaggiare, aveva detto, o qualcosa del genere. La scatola, sembrava, non era solo la mappa della strada, ma la strada stessa."


Frank Cotton (interpretato nel film da Sean Chapman) il personaggio chiave della storia, è creato per rappresentare in ogni modo l'edonismo umano nei suoi caratteri più marcati. Un uomo che non ha vissuto per altro che per il piacere, viaggiando e acquisendo ricchezze -non viene detto come, ma sappiamo che sporcarsi le mani non costituiva problema per lui- esclusivamente per ricercare piaceri più estremi e soddisfacenti, oltre l'umana possibilità, sperimentando tutto senza però, mai, provare autentica soddisfazione.
"...non aveva incontrato nulla nella sua vita -nessuna persona, nessuno stato della mente o del corpo- che volesse a sufficienza da sopportare anche un lieve sconforto per averlo."
Questa ricerca l'ha condotto fino alla depressione e all'orlo del suicidio, che ha scartato perché "se nulla valeva la pena di vivere, era altrettanto vero che non c'era nulla per cui valesse la pena di morire". Fino al momento in cui non ha sentito parlare per la prima volta della scatola, un oggetto avvolto dalla leggenda che, sembra, è in grado di schiudere per lui piaceri assolutamente superiori.
Come Lovecraft, Barker dà alla sua invenzione una storia che si allaccia a quella di luoghi e persone reali: dei tanti oggetti esistenti, in grado di svolgere la stessa funzione, uno è un testo in codice nascosto in un'opera teologica, custodita al Vaticano, mentre un altro si trovava in un origami posseduto da nientemeno che il Marchese de Sade, che lo avrebbe scambiato, durante la sua prigionia, per farsi dare dalla sua guardia della carta su cui scrivere "Le 120 giornate di Sodoma", che certamente è un modello per Barker nei punti più scabrosi della sua arte.
La scatola, più precisamente, serve ad aprire una porta per un'altra dimensione, uno squarcio in quello che si estende fra la nostra e quell'altra, attraverso la quale ciò che è dall'altra parte può passare dalla nostra. Quel cubo in particolare serve a convocare i membri dell'Ordine di Gash (che significa "taglio profondo", ed è anche un termine volgare per indicare la vagina), un ordine religioso a tutti gli effetti: questi membri vengono chiamati spesso ierofanti, che significa "coloro che mostrano le cose sacre -da ἱερός, sacro, e il verbo ϕαίνω, mostrare- e che in Attica erano i sacerdoti più importanti, dediti ai misteri eleusini, che riguardavano il ciclo stagionale e la resurrezione; vi è però un altro nome, scritto con la lettera maiuscola, per qualificarli, il nome con cui sono comunemente indicati e che è stato utilizzato nei film, tanto che quella parola viene oggi più facilmente collegata a questi esseri che al suo significato originario: Cenobiti.
Nella tarda antichità, dopo la diffusione del Cristianesimo, i cenobiti erano monaci che si ritiravano in monasteri, chiamati cenobi, dove praticavano vita comunitaria. Il nome deriva da κοινός, comune, e βίος, vita. La maggior parte degli ordini monastici della storia medievale deriva da questa base originaria. Dobbiamo dunque considerare le creature di Hellraiser dei monaci, la cui esistenza è esclusivamente regolata dal loro voto a una causa, la causa che regola quella dimensione in cui si trovano, che può essere chiamata anche inferno, ma non lo è necessariamente.

I film di Hellraiser hanno visto un succedersi di diversi Cenobiti, con alcuni più ricorrenti di altri e un unico, il Pinhead che ho citato prima, sempre presente. Nei primi due film i Cenobiti sono quelli del racconto, presenti anche nei fumetti e certamente i più emblematici e rappresentativi, che Barker ha così descritto nel suo libro, e trasposto con alcune differenze. Sono quattro, e appaiono davanti a Frank, al termine del suo lungo rituale, così meticolosamente svolto nella speranza di pervenire al vero piacere, o almeno di vedersi apparire delle belle donne.
"Perché allora era così angosciato nel porre lo sguardo su di loro? Erano le cicatrici che ricoprivano ogni centimetro dei loro corpi, la carne accuratamente perforata e affettata e infibulata, e poi ingrigita con la cenere? Era l'odore di vaniglia che portavano con sé, la cui dolcezza non riusciva a mascherare il fetore? O era perché, via via che la luce aumentava, e riusciva a metterli meglio a fuoco, vedeva che non c'era alcuna gioia, o almeno umanità, nelle loro facce mutilate: solo disperazione, e un appetito che gli faceva torcere le budella per essere svuotate."
Il primo a parlare, che come i due che parleranno dopo di lui ha un aspetto assolutamente asessuato, ha i vestiti che "erano cuciti su e attraverso la sua pelle, nascondevano le sue parti intime [...]. Quando parlò, gli uncini che trafiggevano le sue palpebre ed erano uniti, grazie a un intricato sistema di catene passanti attraverso la carne e le ossa, a uncini simili attraverso il labbro inferiore, si tesero per il movimento, esponendo la carne scintillante al di sotto". Probabilmente anche gli altri avevano i vestiti cuciti sulla pelle, anche a giudicare dal fatto che nei film vestono in modo similare.
Il secondo parla con una voce diversa, simile a quella di una ragazza eccitata.
"Ogni centimetro della sua testa era stato tatuato con un reticolo intricato, e ad ogni intersezione delle assi orizzontali e verticali aveva uno spillo ingioiellato infitto attraverso l'osso. La sua lingua era decorata nello stesso modo".
Il terzo a parlare è descritto così: "I suoi tratti erano stati tanto scarificati [cioè incisi, n.d.C.] -le ferite tormentate finché non si erano gonfiate- che i suoi occhi erano invisibili e le sue parole corrotte dalla deturpazione della sua bocca".
Il quarto, che Frank non vede se non dopo aver già sperimentato parte del trattamento dei suoi ospiti, è l'unico ad avere un sesso riconoscibile: dopo essersi tolta il cappuccio e le vesti che la nascondevano, la Cenobita di sotto si rivela una donna "grigia ma luccicante, le labbra insanguinate, le gambe aperte a mostrare l'elaborata scarificazione del suo pube. Sedeva su una pila di teste umane in putrefazione, e sorrideva in segno di benvenuto".
Spero vi siate già fatti un'immagine mentale dei Cenobiti
nel racconto. Volevo mostrarveli con una fan art: da sinistra,
il Cenobita femmina, il "capo" (in alto), il terzo (in basso)
e il secondo, quello con gli aghi.

Il primo Cenobita è quello che nel corso del racconto ha più spazio e sembra guidare il gruppo, mentre gli altri hanno una posizione secondaria. Non è lui il leader, ma l'Ingegnere, una figura di cui Frank è parzialmente al corrente ("Sapevo foste in cinque" dice loro durante il primo incontro), che come i Cenobiti spiegano, si mostra solo se il protrarsi della trattativa si mostra meritevole del suo ingresso. Gli altri tre Cenobiti hanno dunque uno spazio minore.
Ecco perché risulta parzialmente sorprendente il cambiamento che questi hanno nelle pellicole di Hellraiser, dove i ruoli sono decisamente differenti: quel Cenobita con gli spilli piantati nel cranio, cui sono date solo alcune righe, acquisisce un ruolo preminente sin dal primo film, dove è infatti lui a guidare gli altri, a decidere per loro e a essere menzionato nei crediti come "Lead Cenobite". Ancora lui sarà l'unico a venire esplorato nel secondo film, che gli fornirà un background, e dal terzo in poi diverrà il simbolo e principale antagonista di Hellraiser, venendo ricordato come icona del cinema horror, accanto a Freddy Krueger, Jason Voorhes, Michael Myers e Chucky, col nome di Pinhead, che significa "puntaspilli". Nome che, da questo momento in poi, non userò mai più per riferirmi a questo personaggio: un nomignolo irrispettoso datogli dai fan e dalla protagonista del terzo (schifosissimo) film, che non rende il giusto merito al capo, al migliore della sua razza, colui che indicherò sempre col nome con cui l'ha concepito Barker e con cui è stato chiamato nei suoi fumetti e in Vangeli di Sangue: il Prete.
Il design che i Cenobiti hanno nei film deriva dal punk, dal vestiario sacrale cattolico e dai costumi sadomasochisti visionati da Barker. Jane Wildgoose, la designer incaricata di realizzarli, aveva una nota che le chiedeva: "1 aree di carne scoperta in cui è avvenuta o sta avvenendo una qualche forma di tortura. 2 qualcosa di associato alla macelleria". Altre note dicevano che i personaggi sarebbero dovuti essere "magnificenti super-macellai" e che uno o due di loro avrebbero dovuto avere dei ganci.
Tutti e quattro si presentano con costumi di pelle estremamente aderente, con varie parti che rivelano la pelle bianca sottostante. Il Prete ha un abito lungo con colletto, che gli conferisce appunto l'aspetto di un prete, con ventre scoperto e sul petto delle aperture del costume, che rivelano lembi di pelle tirati in modo da formare strisce sanguinolente. Alla vita gli pendono vari strumenti di tortura.
Dopo di lui, il Cenobita principale è la donna, anche perché l'unica, insieme a lui, in grado di parlare. Anche lei ha un abito nero con delle aperture sul ventre, ma la sua caratteristica principale è lo squarcio sulla sua gola, tenuto aperto da un sistema metallico che le passa attraverso il mento. Barker pensava a lei col nomignolo di lavoro "deep throat", cioè "gola profonda", ma per ragioni che non occorre sia io a spiegarvi ha preferito evitare. La donna è anche il primo Cenobita a vedersi nel film.
Quello che nel racconto era il terzo Cenobita, è che è il primo a comparire nella scena a metà film che rivela tutto il gruppo, è ricordato nei crediti come "Chattering Cenobite", perché batte ripetutamente i denti. Ecco perché è comunemente chiamato Chatterer.
Dopo il Prete, è il Cenobita che preferisco, poiché ha l'aspetto meno umano e più mostruoso, di quelli che si imprimono in testa: come descrive il libro, è completamente sfigurato dalle cicatrici, ed esse rendono irriconoscibile qualunque tratto ad eccezione della bocca, nella quale due ganci tengono costantemente aperte le labbra, rivelando le gengive e i denti che continuano a battere, producendo un caratteristico tiki tiki tiki tiki. Un mostro con caratteristiche così determinate è un mostro ben riuscito.
Quanto al capo dei Cenobiti, il primo a parlare nel libro, nel film è trasposto in un modo su cui ci sarebbe davvero da discutere. Il sistema di catene non c'è, e la sua caratteristica principale è l'essere grasso, con la pancia (profondamente squarciata) in vista e diversi strati sotto il mento; il suo naso è schiacciato, nella bocca ha denti aguzzi, e benché abbia gli occhi cuciti, unico riferimento a com'era descritto nel libro, questo si vede solo in una breve scena nel finale del primo film, quando toglie per un momento gli occhiali neri che coprono questo aspetto, talmente strani, ma così alla moda su di lui, da averlo reso uno dei personaggi più amati. Già nei crediti era chiamato Butterball, palla di lardo, e tale è sempre stato il suo nome.
Ciascuno di loro porta su di sé diverse condizioni che ci risultano impressionanti, mutilazioni, storpiature, e in un certo senso sembrano portare con sé anche qualcosa di più, che non viene detto: gli aghi che trafiggono la testa del Prete sembrano le infinite preoccupazioni che assillano la mente dell'uomo in qualunque momento, e la sua figura porta con sé un'ombra di timor sacro, l'inquietudine che può trasmetterci un religioso altero e severo quando non siamo dalla sua parte, specie se la sua religione parla di inferno e di punizione; la donna ha un'ombra di lussuria più marcata degli altri Cenobiti, e la gola squarciata è una morte molto presente nell'immaginario collettivo; Chatterer porta addosso la paura di cui parlava Giger a proposito dei mostri che non hanno gli occhi, che non sappiamo dove guardino e di cui non possiamo scorgere l'anima, e la paura di essere divorati, con la sua bocca rossa sempre in evidenza e sempre che si agita; Butterball, ideale allegoria dell'ingordigia, è il carattere dell'obesità, un'obesità che genera disgusto quando esibita vistosamente, in un contesto volgare come quello che emana da ogni dettaglio del suo aspetto.
Dipinto a olio di Clive Barker.
Ora, c'è un'importante differenza tra quello che avviene nel racconto e quello che avviene nel film: mentre nel secondo ci viene mostrato Frank, circondato dalle candele, che apre il puzzle e viene subito afferrato da catene uncinate che iniziano la sua tortura, nel libro l'edonista ha un dialogo con i Cenobiti, che gli rivolgono parola e in un certo senso lo mettono in guardia: lo avvisano del fatto che il piacere che loro promettono, la forma più alta del piacere del cosmo, potrebbe non coincidere con la sua idea di piacere. Gli chiedono più volte se sia deciso. Soprattutto, gli chiedono se sia annoiato del mondo, e per quanto osceni possano essere, in quella domanda c'è per me come un fantasma di comprensione, una proiezione non vera dell'idea che esseri di altri mondi possano intervenire nel mio e comprendere il modo in cui io ne sia scontento. Anche se in questo caso la domanda proviene da creature con la percezione della realtà completamente distorta.
Questo occorre comprendere dei Cenobiti e di Hellraiser, che tutto quanto si fonda sull'idea del sadomasochismo.
Citando la Treccani:
«sadomaṡochismo s. m. [comp. di sad(ismo) e masochismo]. – Anomalia psicosessuale, consistente nella coesistenza o alternanza, nello stesso soggetto, di sadismo e di masochismo.»
«sadismo s. m. [dal fr. sadisme, termine che lo psichiatra ted. R. von Krafft-Ebing coniò nel 1869 per designare questa anomalia psicosessuale, derivandolo dal nome del marchese D.-A.-F. de Sade (1740-1814), scrittore francese, autore di opere caratterizzate da un erotismo particolarmente crudele]. – 1. Condizione psichica che riguarda la sfera della psicosessualità e che si manifesta con la necessità di associare l’eccitazione e l’appagamento sessuali con stati di dolore, umiliazione e sim., del partner. [...]»
«maṡochismo s. m. [dal ted. Masochismus, termine con cui, nel 1886, lo psichiatra R. von Krafft-Ebing contrassegnò una perversione psicosessuale documentata dalla vita e dagli scritti del nobile ted. L. von Sacher-Masoch (1836-1895)]. – Condizione psichica che riguarda prevalentemente la sfera della psicosessualità e che si manifesta col bisogno di associare gli stati di piacere e di soddisfazione con condizioni di sofferenza fisica, di assoggettamento o di umiliazione. [...]»
"Pinhead" di Sandara, da deviantart.
Per i Cenobiti, il piacere consiste nel dolore, maggiore è il dolore e maggiore è il piacere. Per questo colui che ha ideato le torture del loro mondo, ovvero l'Ingegnere, ha disposto ogni cosa, ogni elemento di quel mondo, in modo da causare tutto il tormento possibile e immaginabile. I Cenobiti vivono questa concezione come una sorta di religione e di totalità, e il loro corpo è sottoposto a un dolore costante che per loro si risolve in una costante libidine. È del resto problematico stabilire se i Cenobiti vivano, poiché i danni che almeno alcuni di loro hanno sul corpo dovrebbero essere mortali, dunque dovrebbero essere non umani, oppure umani in altro stato. Di questo parleremo più avanti.
In ultima analisi, i Cenobiti non sono malvagi e neanche esattamente crudeli: come dice il racconto, la percezione del bene, del male, della pietà e della crudeltà sono tutte estranee alla loro comprensione. Non risparmiano le loro torture alle loro vittime perché non sono in grado di comprendere che esse ne desiderino il termine. Si trovano in una sorta di quieta passività esistenziale, di torpore della turpitudine che si ritrova in Baba, l'antagonista del recente, ottimo horror turco "Baskin", di grande ispirazione barkeriana.

Dopo questo episodio iniziale, la casa di Frank rimane vuota per parecchio tempo, finché non vi si stabiliscono due persone, il fratello di Frank, Rory (Larry nel film) e sua moglie Julia.
Il fratello di Frank (interpretato da Andrew Robinson) non ha nulla del vizio e del conseguente carattere avventuroso di lui, è un uomo normale, alla mano, premuroso con la moglie; in Hellraiser Larry è il padre di Kirsty (Ashley Laurence), la ragazza che virtualmente è l'eroina del film e che compare anche nel sequel e nella serie a fumetti, mentre nel libro Kirsty è una semplice amica di Rory, segretamente innamorata di lui ma che trattiene i suoi sentimenti, perché una dei pochi personaggi che non appartengono a quell'universo di lussuria e depravazione assolute.
L'effettiva protagonista della storia, però, è Julia (Claire Higgins), un'erede delle amanti insoddisfatte della letteratura ottocentesca che agisce da motore degli eventi. Julia è insoddisfatta del suo matrimonio, e da prima che avesse luogo: qualche giorno prima delle nozze, Frank è passato a visitarli, durante un'assenza di Rory, e poco dopo aver fatto la conoscenza di Julia ha avuto con lei un rapporto "che aveva, ad eccezione del fatto che lei era consenziente, tutte le caratteristiche dello stupro". Dopo il matrimonio lei non l'ha più visto, ma l'impressione di quell'uomo che prende con la forza, intenso nelle sue azioni, è stata così forte da farle presto dimenticare di suo marito. Trasferirsi nella casa in cui ha vissuto quell'uomo significa rivivere costantemente il ricordo di quella passione -eccessiva, poiché è questo che sono le passioni in Hellbound- e realizzare quanto disprezzi la sua vita attuale.
La situazione cambia quando rincontra Frank.
Larry e Julia.
Quando i Cenobiti lo portano nel loro mondo, ha per lui inizio l'inferno nel senso più concreto del termine, un incessante susseguirsi di sevizie e di raffinate brutalità, in una sorta di cella personale (dopotutto, si trova in un cenobio) dalla quale può vedere l'ultimo luogo in cui è stato sulla Terra, la camera dove ha svolto il rituale. Lì il tempo è distorto, ogni cosa è estesa, tirata come pelle sotto i ganci dei torturatori, e i giorni che vi trascorre sono come anni. Lui è ridotto a un quasi niente; ma un quasi niente per cui, in teoria, c'è una speranza: tra i gemiti e i sussurri di quel luogo, Frank apprende che se di uno dei "dannati" è rimasto qualcosa sulla Terra, è possibile farlo tornare. Occorre che i suoi resti siano toccati dal sangue, sangue di chiunque, e il sangue lo nutrirà abbastanza da manifestarsi, o fare anche di più se in quantità adeguate. Proprio qualche tempo dopo i due sposi si stabiliscono in quella casa, e dopo qualche giorno, durante il trasloco, l'occasione si compie, in due modalità molto interessanti sia nel libro che nel film. Tanto per cominciare, nel film sono rimaste tracce di sangue di Frank sul pavimento della stanza, mentre nel libro, e viene anche descritto, Frank si masturba poco dopo l'arrivo dei Cenobiti, quando il loro "gioco" ha avuto inizio, e sono le tracce di sperma la traccia che lo farà ritornare. Quanto al sangue, nel libro Rory si taglia per errore a un dito, mentre nel film Barker realizza una scena molto interessante, alternando inquadrature di Larry che sta cercando di far passare un divano da una stanza all'altra, insieme agli addetti al trasloco, con inquadrature di Julia che ricorda il coito avuto con Frank: per diversi intensi istanti, il moto avanti e indietro, avanti e indietro del divano mima quello di Frank avanti e indietro, avanti e indietro dentro Julia. Poi vediamo un lungo chiodo che sporge dal cardine della morta, e la mano di Larry premere accanto, col chiodo che l'attraversare. L'acceso e costante erotismo di Barker si rivela in dettagli come questo, e la sua comunicazione attraverso il cinema riesce come quella mediante la letteratura.

Il sangue fa ritornare Frank. Julia è nella stanza quando ciò avviene, e lo vede, mentre nel film gli unici testimoni sono i topi e gli spettatori. È una scena che Barker avrebbe voluto realizzare con mezzi migliori e che a lui stesso non piace, ma io l'ho trovata potente: dalle tracce sul pavimento inizia a prendere forma un corpo, un corpo che all'inizio non si riconosce, sono solo ossa e cartilagini, con pus che gocciola da ogni parte, ma mano a mano aumentano, crescono, si ricoprono di carne e tessuti vari. La scena è in gran parte in stop motion, e probabilmente mi piace anche per quello, ma soprattutto è viscerale, disgustosa e malata, perché deriva dalla volontà precisa di mostrare un corpo che si forma dal nulla, piuttosto che farlo intuire con dei segnali.
A questo punto, Frank (che in questa versione è interpretato da Oliver Smith) è sì tornato, ma non per sempre, non del tutto. Innanzitutto ha bisogno di ricostituire il suo corpo, che è una nullità, una parvenza, qualcosa di simile a ciò che Lovecraft descriveva così:
"Quella cosa, non posso neppure tentare di descriverla. Era un miscuglio di tutto ciò che è immondo, innaturale, ripugnante, abnorme e detestabile. Era lo spettro demoniaco della putrefazione, della decrepitezza e della dissoluzione; la marcia, stillante effigie delle rivelazioni più empie, l’orrenda esibizione di ciò che la terra misericordiosa dovrebbe tenere per sempre celato. Dio sa che non apparteneva a questo mondo o meglio non vi apparteneva più – eppure, con immenso orrore, riconobbi nei lineamenti corrosi dai quali affioravano le ossa, la parodia aberrante e perversa della forma umana, e in quell’insieme putrido e disfatto, scorsi qualcosa di indicibile che mi agghiacciò ancor di più." (H.P. Lovecraft, "L'Estraneo")
Per farlo ha bisogno di materiale, di linfa vitale da assorbire da altri umani. In più, deve evitare di essere scoperto dai Cenobiti (che nel doppiaggio italiano del primo Hellraiser sono chiamati Supplizianti, perdendo totalmente la dimensione religiosa della loro condizione). Se nel film il rischio è scongiurato, perché una volta tornato sulla Terra Frank rimane lì stabilmente, nel racconto può trattenersi solo per un po', dicendo a Julia solo poche parole (Julia. Sono Frank. Sangue.) e sperando che lei riesca a capirlo, dopodiché torna nella sua cella e vi rimane ancora per un po'.
Il redivivo Frank è dunque un non morto, un dannato dell'altro mondo che è tornato indietro. Come un vampiro, si nutre di sangue, e senza quello non può protrarre la sua innaturale permanenza nel mondo dei vivi. La sua condizione è comunque diversa da quella del vampiro, perché il suo corpo è ridotto a uno scheletro gocciolante che imbratta di sangue qualunque cosa tocchi, e perché nel racconto continua a viaggiare tra i due mondi, passando attraverso la parete se nutrito.
Barker qui ha creato un nuovo tipo di non morto, simile ai suoi illustri predecessori del folklore e della letteratura, ma differente, moderno, anche perché non esattamente morto.

Com'è "l'inferno" di Hellraiser?
Quando Frank risolve il cubo, la prima cosa che sente, nella frase che apre il libro, è il suono di una campana, una campana che sa provenire da qualcosa di molto lontano, che in quel momento è divenuto più vicino. Poi le pareti della stanza si muovono, e dall'esterno si vedono scorci di un luogo oscuro, dove infuria un vento tempestoso. Intorno ai Cenobiti, d'altra parte, aleggia una luce che rischiara l'ambiente, una luce accecante e fredda. Come quella del film. Quest'ultimo aggiunge dettagli che Clive ha escogitato per rafforzare l'impressione di violenza fisica e tortura, le catene uncinate che pendono da ogni dove, altro simbolo di Hellraiser, e le colonne di legno che ruotano, ricoperte anch'esse di uncini e punte, cui stanno attaccati i pezzi delle vittime precedenti.
Il mondo dei Cenobiti non è il luogo dove vanno le anime di tutti i morti, ma il cenobio dove hanno luogo le pratiche sadomasochistiche svolte solamente su coloro che hanno aperto il cubo.
Ecco perché è errato ritenerlo davvero l'Inferno.
Al contempo, in quanto luogo cui non si sfugge, luogo di eterno dolore, custodito da creature raccapriccianti e altro dal mondo degli uomini, corrisponde certamente all'idea astratta di inferno. Da qui i nomi del racconto e del film.

Ora, un essere raccapricciante che chiede del sangue non parrà certo la persona più indicata da assecondare. Ma il fatto che l'essere sia Frank Cotton, e in un momento in cui Julia ha davanti agli occhi la realizzazione dell'insoddisfazione della sua vita, e la percezione dell'impossibilità di sfuggirle, una sorta di inferno anche questo, provoca una reazione altrimenti difficile, ossia l'accettazione. In un certo senso, Frank e Julia si trovano in condizioni simili, prigionieri del proprio inferno da cui soltanto l'uno può salvare l'altra. Del resto i due condividono il desiderio di passione e la disposizione a fare qualunque cosa per raggiungerla, per quanto la mole del desiderio di Frank sia tutt'altra; inoltre, solo Julia prova una forma di sentimento verso l'altro, che naturalmente intende utilizzarla come un semplice, per quanto vitale, strumento.
Clive Barker da giovane.
Julia diviene così cacciatrice. Vampiro, serial killer, strega, che adesca gli uomini per privarli del loro sangue, un succubo contemporaneo. Il percorso è graduale, influenzato in gran parte dagli eventi: la prima volta che lo fa, Julia non sa bene cosa stia per fare, si limita a bere da sola finché un uomo -timido borghese in tipica crisi di mezza età- si avvicina per farle compagnia e si ritrova, incredulo per la propria fortuna, nella sua casa, nella grande stanza dove non c'è letto e dove Frank, che sia fisicamente presente e nascosto (nel film), o in attesa al di là del muro, spiando e rumoreggiando (nel racconto), si nutrirà dei suoi fluidi vitali, ma non prima che sia stata Julia a ucciderlo: la vittima -"lamb", scrive Barker, che significa agnello, dunque vittima sacrificale, ma anche innocente o ingenuo, sprovveduto- tenta infatti di fuggire una volta resasi conto che qualcosa non va, e tocca alla donna colpirla a morte. Nel film Julia usa un martello, mentre nel racconto tiene sempre nascosto un coltello nel cappotto, strategicamente lasciato a portata di mano.
Il secondo omicidio la rende più determinata, e il libro rivela come nella sua mente inizi a costituirsi un senso di trionfo, man mano che inizia a vedere sé stessa come una vera e propria signora della morte; analogamente, Frank diviene più forte e in grado di avvertire le sensazioni grazie al suo ripristinato sistema nervoso (motivo per il quale chiede a Julia, solo nel racconto, di essere bendato). Il terzo omicidio, che pure non basta ancora -e Frank continua a ripetere "ancora uno", protraendo il tormento di volta in volta- è quello in cui Kirsty viene coinvolta nella storia.
Kirsty ha notato la stranezza di Julia, e soprattutto è stato Rory/Larry a confidarle la sua preoccupazione e a chiederle di provare a instaurare un dialogo. Ed effettivamente a Kirsty, nel vedere Julia portare a casa uno sconosciuto, sembra di aver trovato la vera motivazione di tutto; ma dopo essere entrata in casa per capire meglio, ha la terribile visione della terza vittima, ancora in vita, per quanto già abbondantemente decomposta, che tende una mano verso di lei chiedendo disperatamente aiuto e viene subitaneamente riacciuffata da Frank, che a quel punto si rivolge direttamente a lei. Se nel libro Frank nutre un interesse dettato dalla curiosità, in quanto la sua esperienza gli ha dimostrato quanto le donne poco attraenti siano spesso più inclini alle perversioni da lui ideate, perversioni che donne più seducenti e più consapevoli non permetterebbero, il film porta la sua perversione su un altro livello, e Frank vuole conoscere una nuova soglia di deviazione attraverso l'incesto con la sua stessa nipote (in quest'ottica è giustificabile che Ashley Laurence sia decisamente più bella di quanto doveva essere la Kirsty del racconto).
Kirsty, per essere in considerevole pericolo, se la cava molto meglio di tutti coloro che hanno già incontrato la bestia: afferra la Configurazione del Lamento, la getta dalla finestra, e scappa senza che Frank possa fermarla.
A questo punto però ciò che ha visto lascia il suo segno, e Kirsty, dopo aver vagabondato ed essersi imbattuta in delle suore che hanno squadrato il suo volto assente e il sangue che aveva addosso (dovuto al contatto con Frank) con una certa condanna (e qui Barker si è voluto divertire un po'), sviene e si ritrova in ospedale, insieme alla scatola.

Ora, in quell'ospedale la regia di Barker cambia tono, e sperimenta alcune delle idee migliori che abbia avuto. Lo stile con cui alterna immagini fortemente simboliche, come il fiore che si apre e che diventa rosso, è quello che adoperava nei suoi primi corti amatoriali, "Salome" e "The Forbidden", tanto per cominciare. Dopo che Kirsty si è svegliata e ha parlato con il dottore, armeggia con la scatola, divertita dal suo funzionamento -senza malizia, e senza sapere a cosa serva- lo risolve secondo una combinazione differente da quella che richiama i Cenobiti, suggerendo dunque che le possibilità siano più di una. Questo introduce la scena che preferisco.
La scatola apre una porta nel muro dell'ospedale; Kirsty la apre e si ritrova davanti un lungo corridoio illuminato da una lieve luce verdastra. La visione ha un aspetto fortemente onirico. Proseguendo, Kirsty sente i vagiti di un neonato provenire dal fondo di quel corridoio. Avanza ancora.
E si trova davanti un mostro appeso a testa in giù, che la insegue rimanendo capovolto.
Il mostro, che ricorda un lumacone con degli arti, o più felicemente un feto umano grottesco, insegue Kirsty con artigli che ghermiscono e zanne da cui cola bava, strillando in modo disturbante, finché la ragazza non riesce a uscire dal corridoio e a chiuderlo usando la scatola. Dopodiché, non se ne sa più nulla. Il mostro appare brevemente alla fine del film, e nemmeno allora verrà spiegato cosa diavolo sia.
Attraverso questa sequenza Barker ha fatto la cosa che chiunque crei un mondo dovrebbe avere la cura di fare: fare intendere che quel mondo ha molte più possibilità di quante se ne vedano, che esso ha vita propria al di là delle esigenze di trama, e che di quella vita propria c'è una parte che non è dato sapere. Questo è il messaggio che vorrei lasciarvi e farvi diffondere.
Dopodiché, quello che ha fatto Barker è un po' differente.
Questa creatura abortita rappresenta colui che nel racconta viene chiamato l'Ingegnere, e che oltre a comparire ben più lungamente, è decisamente l'opposto di quello che vediamo nel film; non una sottoforma di storpiatura organica, ma un essere superiore, a capo dell'Ordine dei quattro Cenobiti e di tutti gli altri, colui che ha stabilito le torture ed ogni altro aspetto della dimensione infernale dove essi dimorano; il suo aspetto, poi, è evanescente, un essere luminoso la cui testa è come un sole minore, in grado di alterare le sue dimensioni e di essere minuscolo o immenso.
Come per molti degli aspetti "metafisici" della storia, Barker ha preferito non inserire questo personaggio nel film, ma ha lasciato una quinta presenza rispetto ai Cenobiti, creando questo mostro -che si chiama comunque Ingegnere- e inserendolo in questa piccola scena, che lascia quesiti e rende molto più suggestiva l'ambientazione, un po' come la scena dell'astronave di un altro ingegnere faceva in Alien.