giovedì 29 dicembre 2016

Seduto accanto al fuoco - Tolkien, il signore della mitopoiesi III

Sto leggendo Lo Hobbit. Dovrei parlare di rilettura, ma si tratta di una lettura diversa da quella che ho già fatto, primo perché lo sto leggendo in inglese, e secondo, perché sto leggendo la prima versione, quella pubblicata nel 1937 come primo romanzo di Tolkien, diversa da quella che si trova comunemente nelle librerie, con delle modifiche e delle aggiunte per congiungersi al legendarium della Terra di Mezzo, rispetto al quale Lo Hobbit era stato inizialmente concepito come indipendente.
Oltre che una storia di nani e di orchi, una caccia al tesoro, un racconto per i più piccoli, un maturo esempio di narrativa fantastica e un tassello del mosaico tolkieniano, Lo Hobbit è una storia di formazione, anzi, di riformazione: la storia di una persona che ha imparato a vivere in un modo, e che di punto in bianco si trova a vivere in un modo diverso, rendendosi conto di preferirlo. Ed è su questo che batteremo adesso.
Copertina integrale dell'edizione del 1937 de Lo Hobbit
della George Allen & Undwin, di cui la Harper Collins ha fatto
stampare un facsimile proprio quest'anno.

Il signor Baggins viene dovutamente descritto come un Hobbit che rientra perfettamente nei canoni della società cui appartiene; una società che si presenta simile a quella di un moderno stato borghese, modellata su quella inglese del primo Novecento, tanto che, per questo e altri motivi, Lo Hobbit è stato associato spesso all'Alice di Lewis Carroll; si potrebbe, semplicisticamente, dire che, se Carroll mette in ridicolo quella società e quel modo di vivere con un mondo di personaggi e situazioni paradossali e caricaturali, Tolkien -il cui intento satirico è comunque secondario- lo pone a confronto del mondo antico degli eroi e delle leggende. Bilbo ha bisogno di ordine, precisione, eleganza, formalità, tutti requisiti su cui reggere l'idea di "rispettabilità", vale a dire, integrazione con la propria società. I nani che Gandalf gli porta in casa, al contrario, vivono all'aperto, sono rumorosi, sporchi, armati, e il loro fine è quello di raggiungere una terra lontana, uccidere un drago e possedere quella terra e il suo tesoro. Un mondo statico, quello degli Hobbit, per il quale si nasce entro dei parametri e si rimane entro quei parametri, contro un mondo in cui, se all'inizio non si ha molto, la vita e la sua condotta possono portare a prendere molto di più.

Vanno rilevate delle circostanze che fanno una differenza: innazitutto, i Nani che si uniscono a Bilbo, non sono i primi straccioni trovati nel quartiere: Thorin stesso -che meriterebbe un discorso a parte in quanto re decaduto- spiega che tutti loro, grazie al lavoro e all'adattabilità, sono riusciti a trovare un profitto e ritagliarsi una vita rispettabile -anche loro- anche in terra straniera, lontano dalla Montagna Solitaria che è stata loro sottratta dal drago. Inoltre, gli Hobbit sono quasi esplicitamente definiti come migliori rispetto agli esseri umani, dato che hanno un rapporto molto intenso con la natura -basti pensare che vivono in buche nel terreno e camminano a piedi scalzi- hanno una saggezza che, è l'autore stesso a dirlo, "gli Uomini non hanno mai avuto o hanno dimenticato", e non fanno rumore. Una comunità di Hobbit dediti a lavorare la terra, fumare placidamente, preparare e consumare il cibo in grandi quantità e accogliere rispettosamente qualunque ospite -anche sospetti vecchi erranti con la barba, se occorre- è sacra e pura come poche comunità di Uomini.

"One Morning Long Ago", l'espressione che indica il tempo de Lo Hobbit,
il giorno in cui Gandalf si reca a casa di Bilbo per condividere con lui la sua avventura.
Illustrazione di Ted Nasmith, il più illustre insieme a John Howe e Alan Lee.

D'altra parte, l'utilizzo di uno stile ricco di ironia e che tende a filtrare il viaggio e l'avventura attraverso termini e attitudini vicine a quella della succitata, archetipica società benpensante, può smussare e appianare questo contrasto tra i due mondi.
Nel Signore degli Anelli, che rispetto a Lo Hobbit descrive molto più dettagliatamente gli usi degli Hobbit, le dimensioni che si contrappongono sono quella intima e familiare della Contea e quella smisurata e assoluta del mondo degli Uomini. La Contea è una comunità di persone che vivono secondo una ben determinata divisione ed amministrazione, molto legate alle loro tradizioni e a quell'idea di rispettabilità di cui sopra. Al tempo in cui inizia la narrazione del romanzo, ricordiamo, i Baggins -Bilbo e Frodo- sono visti quasi come dei "diversi", perché Bilbo, cosa assurda per un Baggins, ha vissuto qualcosa di "inaspettato", e, assurdo per qualsiasi Hobbit, è partito per un'avventura; Frodo, data la mentalità "paesana" degli Hobbit, è visto come un po' strano a sua volta, in quanto parente di Bilbo, nonché per il ben noto interesse che ha maturato verso i racconti dello zio sul mondo esterno, le storie antiche e materie affini. Non si dimentichi, comunque, che ciò non pregiudica il rispetto che gli Hobbit della Contea hanno per loro, semplicemente sono considerati pittoreschi, e questa caratteristica è per loro inusuale.
"The anger of the Mountain", illustrazione di Ted
Nasmith che raffigura l'episodio del passo di Caradhras.

Se solo si pensa -questo il potere visivo del film lo facilita- alla differenza fra gli indumenti dei Mezzuomini, con giacche, camicie e panciotti, e gli Uomini delle Terre Libere nelle loro tuniche e mantelli, l'idea che ci si fa è che gli Hobbit sono più vicini al mondo dei lettori rispetto agli stessi Uomini. Certo, la nostra è una società dall'impronta innanzitutto urbanistica, mentre gli Hobbit incarnano il paradigma della vita rurale, ma le loro abitudini (salvo qualche colazione di troppo) le ritroviamo più o meno simili nelle usanze odierne, come le ritrovava Tolkien sessant'anni fa; del pari, più lontana da noi è la società dei Rohirrim, con la "sala dell'idromele", il comitatus del re e dei suoi feudatari più devoti e tutte quelle usanze anglosassoni che il Professore ha rinarrato per parlare di loro; lo è anche Minas Tirith, che vive del culto dei re del passato e dell'annalistica. La finestra che apre l'autore dà sui re, i principi e i nobili di questi paesi, non ci viene detto granché sul popolo e sulle "persone comuni", ma possiamo bene intendere che il popolo di Rohan, quello di Gondor, quello di Esgaroth e tutti gli altri, vivevano press'a poco nello stesso modo in cui vivevano i popoli dell'Europa medievale.

Perché questo Medioevo? Detta così questa domanda dovrebbe contenere tutto quello che ho scritto finora in questo sito, e non le potrei neanche rispondere. Riformuliamo: perché Tolkien (e prima e dopo di lui, tantissimi narratori, poeti ed artisti) sceglie il Medioevo come base storica -cioè in termini di strutture politiche, rapporti sociali, usanze, tecnologia e costumi- su cui edificare una storia di popoli che esprimono la libertà?
Perché è Tolkien per primo ad essere insofferente ai vincoli del mondo moderno. Non in maniera passatistica o per l'idea di passato in sé, ma per dati che, condivisibili o meno, non si possono non vedere: la macchina, l'industria, i processi automatizzati che violano il rapporto dell'uomo e della natura, l'atto creativo dell'artigiano sostituito da quello sprovvisto di anima della catena di montaggio. I vincoli degli assetti burocratici e istituzionali moderni, il controllo di grandi entità -individuali o meno- sulla vita dei singoli fin nella sua dimensione più privata. La logica dell'acquisto e della concretezza che getta la sua ombra su tutto quello che è astratto. Sono questi, i grandi sconvolgimenti della modernità, il male che si sta insinuando nella Terra di Mezzo, l'antagonista del romanzo di Tolkien, Sauron "che offre doni". La risposta è l'affresco di un mondo senza tutto ciò, un mondo che appartiene, vorrei ricordare il sito dove ho visto questa definizione, a persone che amano la poesia, la musica, la natura, nonché il buon cibo, e aggiungerei l'amicizia e la comunione delle esperienze e dei sentimenti; e un mondo in cui, quando esso viene minacciato, queste persone possono partire per salvarlo e cambiarne le sorti senza avere vincoli a limitare le loro azioni, vincoli di stati, di leggi e di cose scritte da sconosciuti. Il nome "Popoli Liberi" indica solo il loro non asservimento a Sauron e all'Anello, ma in quest'ottica sembra ancora più azzeccato.

La cavalcata dei Rohirrim in uno dei momenti più emblematici della battaglia dei Campi del Pelennor.

Diviene chiaro a questo punto che vi sia un cambiamento di prospettiva fra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, tanto più che il primo è un romanzo d'avventura incentrato su un solo (anti)eroe, mentre il secondo è un grande èpos moderno, non esattamente corale, ma incentrato sulle sorti di interi popoli molto lontani fra loro.
La società degli Hobbit non solo non è minimamente intesa come negativa, ma, semmai, portatrice di valori fra i più positivi, risolutivi per tutte le storie che vedono Mezzuomini tra i protagonisti: è la loro umiltà, semplicità, unita alla loro tenacia e determinazione, a permettere ai Nani di Thorin Scudodiquercia e ai Popoli Liberi di trionfare contro i loro nemici. Nella Terra di Mezzo i mali sono l'avidità, la prepotenza (Smaug), la volontà di dominio (Saruman), e tutte quelle altre brame egoistiche -perché il male, nella maggior parte dei casi, deriva da là- che, insieme a quelle già dette, sono prerogative di Sauron, nonché di Morgoth prima di lui.
"Dol Amroth", di John Howe.
La società degli Hobbit, però, non è conciliabile con quella degli Uomini. L'avventura e la battaglia affascinano alcuni Hobbit, un po' strani e diversi dagli altri, ma per la maggior parte degli abitanti della Contea non avrebbero nessuna attrattiva. Ed è giusto così: se la guerra e la violenza degli uomini contagiassero la Contea, essa cesserebbe di essere quello che è. Alla fine del Signore degli Anelli, del resto, la Contea cambia e non tornerà mai più quella di un tempo.
Se l'idea iniziale, dunque, era dimostrare come il mondo da saga norrena di Gandalf e Aragorn sia un mondo irresistibile che scalda il sangue finché qualunque piccolo Mezzuomo provinciale non trattiene il desiderio di partire, è stata mitigata da un accorgimento che mi hanno insegnato questi ultimi mesi, e cioè che nella grande diversità che esiste fra gli uomini ve ne sono molti che bramano due tipi diversi di fuoco, alcuni il grande braciere del furore e dell'avventura, altri il caldo focolare che raduna intorno a sé i membri di un gruppo e rinforza il loro vincolo. La vita è fatta di un tempo per riposare e un tempo per agire, di azioni pacifiche e azioni intensive, e molti alternano l'un fuoco all'altro; l'animo che desidera l'ardore non può essere forzato alla pace e alla quiete, e così, l'animo mite non dovrebbe mai, per nessun motivo, essere costretto alla forza.
Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli sono così, raccontano tempi di pace e tempi di guerra e fanno respirare l'aria dell'uno e l'aria dell'altro. Per quelli che, insofferenti come Tolkien ai ritmi di un mondo che non sentono più come il loro, laddove, nelle pagine dei suoi romanzi, con altri nomi e altre lingue, scorgono quello stesso mondo risplendere di gloria e di bellezza, i due romanzi sono una campana che chiama i guerrieri alle armi per riprenderselo.

Giunge così alla fine l'ultimo post dell'anno, iniziato pensando a una canzone di Bilbo, che ricorda il passato e si proietta sul futuro "seduto accanto al fuoco". Anche se la mia presente contingenza non mi permette di stare seduto accanto al fuoco, a meno di uscire di casa e cercare un posto dove ci sia un camino, l'atmosfera invernale, o l'idea che ne ho, mi ispira un momento del genere. Così, pensando a quanto fatto quest'anno, a quanto ancora da fare, e soprattutto alla storia di Bilbo e di Frodo, chiudiamo il discorso con i versi della poesia e la sua splendida versione musicale a opera degli italianissimi Lingalad. Namárië!

"Seduto accanto al fuoco, rifletto 
Su tutto quel che ho visto 
Sulle farfalle ed i fiori dei campi 
In estati ormai da me distanti


Penso a foglie gialle e a tele di ragno 
In autunni che più non torneranno 
Alle nebbiose mattine, e al sole d'argento, 
E ai miei capelli agitati dal vento.

Seduto accanto al fuoco, rifletto 
Al mondo che sarà, 
Quando l'inverno un giorno giungerà, 
Ma della primavera io non vedrò l'aspetto.

Vi sono infatti tante e tante cose 
Che io purtroppo ancora non conosco: 
Diversi in ogni prato ed in ogni bosco 
Il verde ed il profumo delle rose.

Seduto accanto al fuoco, rifletto 
Ai popoli vissuti tanto tempo fa, 
Ed a coloro che vedranno un mondo 
Che a me per sempre ignoto resterà

Ma mentre lì seduto rifletto 
Sui tempi che fuggiron veloci 
Ascolto in ansia ed aspetto 
Il ritorno di passi e di voci."

Bilbo a Gran Burrone
Fonte: http://cg-warrior.deviantart.com/art/Bilbo-in-Rivendell-333595026

giovedì 22 dicembre 2016

Cavalcata in ascesa verso l'inverno

Il ritorno dell'Anima del Mostro avviene oggi, all'indomani del solstizio d'inverno. Questo segna l'inizio della mia stagione preferita, che porta con sé così tante suggestioni, immagini, sensazioni, e storie, più di ogni altra cosa, che è davvero difficile scegliere di cosa parlare. Dev'essere nella natura dell'inverno essere così fecondo, anche e forse proprio perché sembra così morto: l'inverno, stagione del freddo, porta gli uomini ad accendere il fuoco per riscaldarsi, provocando questo contrasto fra calore e gelo, fra interno ed esterno, protezione e minaccia, vita e morte, luce e tenebra, e potremmo continuare ancora, che sono quelle coppie di opposti alla base del cosmo e della vita (o almeno, di come li vediamo io e gli antichi). È così che tutto ha inizio secondo l'Edda, con il contatto tra le scintille del Müspellheimr e il vento freddo del Niflheimr nel vuoto cosmico di Ginnungagap (qualche dettaglio in più in uno dei post più vecchi) che danno origine a tutte le cose.

Il solstizio d'inverno è uno dei giorni con maggior rilevanza spirituale presso tutte le culture. Presso la religione dei Celti e quella germanica si chiama Yule, e è il momento in cui la ruota dell'anno, il corso del quale è scandito dal movimento di tale ruota, raggiunge il punto più basso e inizia la risalita (il nome potrebbe dunque derivare dal norreno Hjól, cioè ruota), visione metaforica del percorso per il quale, dopo che le ore di buio diventano sempre di più, iniziano a diminuire.
Ecco, questa della salita, dell'ascesa, è un'idea che mi rincuora ritrovare nelle credenze antiche, dato che è una scoperta che ho fatto quest'anno. L'autunno, che mi ha visto dedito a studiare prima i mostri (a ottobre, sul mio profilo di Facebook) e poi il mondo dei morti (a novembre, con i post sulla Danza), è stato come un percorso in discesa (un bel percorso, peraltro, questi sono stati mesi felici), e quando dicembre è arrivato, portando nella mia mente immagini di distese innevate e storie vicino al fuoco, insieme a visioni di leggende come quelle di cui parlerò tra poco, si è costituito come idea di salita, moto -obliquo, non verticale, quindi graduale e ripido- verso l'alto, una meta che, quale che sia, è nobile e rifulge di bellezza come il ghiaccio.

Ora, dalle saghe islandesi sappiamo che, in occasione di Yule, i popoli nordici sacrificavano un maiale a Freyr, dio della fertilità (e tuttora, nei paesi scandinavi, si mangia carne di maiale a Natale). Anche la capra è associata allo Yule nordico: la capra è l'animale sacro di Thorr, e alcune leggende descrivono la corsa in cielo di Þórr (Thor) sul suo carro trainato dalle sue capre Tanngnjóstr e Tanngrisnir. Il che non è che una variante della Caccia Selvaggia.
La Caccia Selvaggia (Wild Hunt in inglese, Wutende heer in tedesco), anche detta Caccia infernale, o Caccia morta in Lombardia, è il nome con cui ci si riferisce a numerose storie, che traggono origine dal mito e abbondano nelle leggende del Nord Europa, come della Francia, della Spagna e dell'Italia settentrionale, riguardanti processioni di esseri animati, animali e/o umani, di natura sovrannaturale, ultraterrena o demoniaca, che avvengono di notte e sono cariche di segni e di presagi. È uno dei tòpoi imitologici che preferisco, e che abbonda in letteratura, non solo nelle saghe o nell'Edda (Secondo carme di Helgi uccisore di Hundingr), ma anche in opere italiane, prime fra tutte la Commedia, il Decameron (Nastagio degli Onesti) e la Gerusalemme Liberata, fino a permanere, com'è dovuto, nel fantasy, assumendo particolare rilevanza nella saga di Andrzej Sapkowski e dando il titolo al terzo dei videogiochi tratti da essa, intitolato appunto "The Witcher 3: Wild Hunt". Per chi non è pratico dell'ambiente è un nome come tanti, ma avere un minimo di cultura videoludica farà squillare un campanello.
"La caccia selvaggia" di Johann Wilhelm Cordes (1856, 1857)

È un tòpos che abbonda e che adoro, come dicevo, e uno degli argomenti cui intendo dedicare un post da prima di iniziare il blog: ma poiché esso merita uno spazio esclusivo, e devo ancora raccogliere più materiale di quello che ho a riguardo -nonché finire The Witcher 3!- questo post è preannunciato ma ancora da realizzarsi. In questa sede mi accontenterò di un paio di nozioni.
La prima è che il prototipo della Caccia Selvaggia va ricercato nella mitologia nordica, dove il suo protagonista è Odino. La leggenda vuole che il Padre di Tutto, durante le dodici notti che seguono il solstizio d'inverno, cavalchi sul suo destriero a otto zampe, Sleipnir, alla testa di un corteo di anime di guerrieri chiamati Einherjar, cioè "soldati in armatura", tutti i morti in battaglia degni di accedere al Valhalla, che, divisi in vita sotto schieramenti diversi, sono ora uniti in un'unica armata che si prepara alla battaglia finale il giorno del Ragnarök. Il contatto fra popoli e la trasmissione delle storie ha causato molte varianti geografiche della Caccia, che di volta in volta è capeggiata dalla più illustre figura della cultura locale, fra Re Artù, Carlo Magno, Nuada (leggendario re dell'Irlanda); in alcune storie del folklore italiano, il capo della Caccia ha nome Beatrik ed è un alter ego del re Teodorico. E naturalmente, in molte altre versioni il capo della Caccia è il Diavolo, al quale gli dèi pagani sono frequentemente assimilati.

Tornando a parlare di Odino, è davvero straordinario come questo grande dio riesca ancora a farsi sentire, laddove altri non ne sono in grado. Già nel post sull'elegia anglosassone consideravo come nella voce di Gandalf riecheggi ancora la sua grande saggezza, ma in questo caso si va oltre la letteratura e la narrazione, si parla di qualcosa che si avverte più concretamente. Perché un vecchio con la barba che solca il cielo invernale insieme ad animali volanti è qualcosa di molto, molto familiare.
Con questo non voglio sostenere che Babbo Natale si possa identificare col Padre dei Caduti, perché intercorre una differenza di epoca, di valore, di credenza e tanto altro. Ma proprio questa impalpabilità, questo margine di inesattezza che non si può mai correggere, questo profilo sfocato che non si stabilizza, è ciò che caratterizza le idee. E Babbo Natale, sempre attorniato da folletti, o magari "elfi" (vale la pena ricordare che elfo deriva proprio dal norreno alf, e che gli alfar nella mitologia sono esseri superiori, in uno stato d'esistenza a metà fra quello umano e quello divino, che, come i Nani, sono in parte collegati al mondo dei morti), che solca il cielo su una slitta trainata da renne volanti e che sa sempre come si sono comportati i bambini durante l'anno, quasi avesse, come Odino, due corvi che volano per il mondo e gli riferiscono ogni giorno tutto ciò che hanno scoperto, non può non avere, all'origine della sua storia, accanto a storie cristiane come quella di San Nicola, un'idea antica e archetipica come quella di Odino, che, scavando ancora, ci porterebbe a parlare dei più antichi dèi legati al cielo, alla saggezza e all'eternità.

Chi conosce, poi, la leggenda di San Nicola? Abbondano i riferimenti nei libri di scuola e nei post sui social ricondivisi ogni volta durante le feste, e forse è per questo che non la prendevo abbastanza in considerazione. E invece, anche qui, si tratta di qualcosa di molto interessante.
Tanto per cominciare, il vescovo San Nicola di Myra vive nel IV secolo, le sue reliquie vengono traslate e sono oggetto di culto nel Medioevo. È protettore di molte categorie di persone, come i marinai, i mercanti, anche le prostitute e gli usurai, a seconda di dove si va; in ogni caso, è il santo patrono di Bari, e lo è dei bambini. La storia di come salvò alcuni bambini dalla miseria colmandoli di doni è un altro dei motivi originari del Natale. Oltre a questo, San Nicola è legato a un'altra leggenda legata al Natale, una leggenda cui ho visto acquisire maggiore notorietà quest'ultimo anno, probabilmente grazie anche a un paio di film usciti nel 2015, e che è molto adatta alle pagine di questo blog: la leggenda del Krampus.
Il Krampus è una via di mezzo fra il diavolo, l'uomo nero e Babbo Natale. Nelle sue numerose raffigurazioni mantiene sempre una folta pelliccia, due lunghe corna caprine e un volto crudele, e si occupa di punire i bambini che si comportano male, in maniera decisamente più severa rispetto alla sua più nota controparte, che in queste storie ha la sola valenza positiva: può portare loro il carbone, colpirli, o condurli via con sé. La storia che lo lega al santo parla di un gruppo di giovani, camuffati con corna e pellicce per spaventare i vicini, che si rendono conto che uno di loro è il diavolo in persona, indistinguibile se non per gli zoccoli al posto dei piedi, e vengono salvati da Nicola di Myra che scaccia  il maligno; altre storie, appartenenti al folklore germanico, raccontano invece di un mostro che si intrufolava nelle case per uccidere e mangiare i bambini, finché gli abitanti del villaggio non riescono a chiamare un religioso o un santo, che riesce a imprigionare la creatura usando dei ferri benedetti, costringendola, da allora, a usare la sua abilità di passare attraverso i camini per portare doni a coloro che abitano nella casa.

Ci sarebbero molte altre storie, tra i vari miti, le leggende e le credenze d'Europa, poi evolutesi anche attraverso la loro importazione in America, in cui ritrovare le basi della moderna iconografia di Babbo Natale, nonché del Krampus, della Befana, di storie legate al Natale e all'inverno. Questa è solo una base da cui partire, tanto io quanto chi leggerà, per apprendere e ricercare quanto si può scoprire sui mondi e le storie messe a punto dall'uomo, e sul potere della sua intelligenza creativa, della sua fantasia, della sua parola e della sua arte.
Ora che il solstizio è passato, una di queste notti potrebbe capitare di vedere i cavalieri ultraterreni avanzare furenti attraverso il cielo notturno; oppure, la notte del 24, di scorgere Babbo Natale sulla sua slitta; in casi meno fortunati -a seconda dei punti di vista- di ritrovarsi faccia a faccia con un Krampus mentre si sgranocchia del torrone su una sedia a dondolo accanto al camino. Comunque vada, questo è l'inverno. È il tempo dell'anima, dell'estasi poetica -tale è il significato del nome di Odino- il palco dello spirito dionisiaco che si agita in ogni uomo, la fredda notte in cui non si può uscire di casa, pena l'essere rapiti nel mondo infernale da cavalieri spettrali, e si attende, accanto al focolare, che passi, raccontando storie durante l'attesa e rendendosi conto, perché forse lo si era dimenticato, che oltre l'ingannevole danza di luci c'è una bocca tenebrosa che chiede di essere riempita, un'anima che ha bisogno dei mostri.
Un buon inverno, un buon Yule, e un gioioso e santo Natale, tutti e tre insieme, a chi legge l'Anima del Mostro.

giovedì 1 dicembre 2016

Il settimo sigillo - La cerca cavalleresca di Dio (Danza di ossa autunnali, parte IV)

Questo post, che conclude la nostra danza, è quello da cui è cominciato tutto.
Un anno fa ho visto per la prima volta, credo ad ottobre, "Il settimo sigillo" (Det sjunde inseglet) di Ingmar Bergman (1957), che da allora è uno dei miei film preferiti; certamente era mio intendimento parlare di cosa mi avesse lasciato questo film, ma c'erano tanti altri argomenti su cui scrivere allora, e il blog era appena nato, così ho rimandato a quando fosse stato il momento più adatto.
A un anno di distanza, ricordando le sensazioni di quel periodo (che era anche quello in cui andavo scoprendo la bellezza dello studio del Medioevo e delle sue atmosfere caratteristiche, sia quelle ricostruite dalla storia che quelle suggerite dall'arte) mentre vivevo un altro autunno, ho deciso di scrivere le mie osservazioni su questo film per la prima settimana di novembre, in modo da pubblicarlo all'indomani del giorno dei morti. E invece?
Invece, pensando di dover leggere un po' quello che c'è a monte del film, e quindi anche le raffigurazioni della morte nel Medioevo, ho finito non solo per studiare l'argomento come attività principale dell'intero novembre, o prendere in prestito un intero saggio, ma di scrivere una serie di post che mi ha occupato per tutto il mese. Dopo aver rivisto il film, e scritto quella che doveva essere una premessa o un contenuto in più, la storia delle danze macabre, e che è invece diventata il nucleo, adesso scriverò di quello che ho visto nel Settimo sigillo, che da nucleo è diventato un elegante epilogo.
Per proseguire con la lettura del post, occorre aver visto il film. Cosa, non l'hai visto? Vedilo adesso, lo trovi anche in streaming, quando hai finito torna qui, il post non si muoverà.

Fatto? Bene, cominciamo.

La partita a scacchi con la Morte
Prima di dirigere il film, Ingmar Bergman, nel 1955, scrive un dramma dal titolo "Pittura su legno" (Trämålning), in cui figurano già i protagonisti del film, il cavaliere Antonius Block (che nel dramma però è muto) con lo scuderio Jons, i quali, di ritorno da una crociata, viaggiano per la Svezia di fine XIV secolo, vessata dalla peste, facendo la conoscenza di diversi personaggi che manifestano varie condizioni dell'umanità. Il buon riscontro del testo tra gli allievi dell'Accademia di Malmö porta Bergman a pubblicarlo, e quindi a rimaneggiarlo e ampliarlo fino a trarne il film.
Le fonti di ispirazione, fondamentalmente, sono legate all'arte del Medioevo, nella forma cui è pervenuta a noi moderni: le pitture e gli affreschi nelle chiese, i Carmina Burana, le leggende popolari. Tra le pitture, come mostrato anche nel film, figura anche il genere della nostra danza, con quadri in cui la morte incoronata rapisce gli uomini alla vita, e scheletri si mescolano ai vivi in suggestioni apocalittiche. E naturalmente, anche l'Apocalisse, da cui il film trae il titolo: proprio una frase dell'Apocalisse apre la pellicola su un'emblematica inquadratura, e la sua continuazione chiude la storia in una delle ultime scene.
« Quando l'agnello aprì il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe » (Apocalisse, 8, 1)
 La vicenda, divenuta ormai mito, del cavaliere che gioca a scacchi con la morte, si palesa fin quasi subito. Dopo alcune inquadrature sul paesaggio e sul cavaliere Antonius Block, Max Von Sydow al suo esordio, compare la Morte (Bengt Ekerot), subitanea come nelle leggende.
«Tu chi sei?
«Sono la Morte.»
«Sei venuta a prendermi?»
«È già da molto che ti cammino a fianco.»
«Me n'ero accorto.»
Il cavaliere non vuole seguire il tristo mietitore perché, anche se il suo spirito è pronto -forse per le crociate cui ha preso parte-, il suo corpo non lo è. Per resistere, sfida dunque la Morte a scacchi, dato che è a conoscenza delle leggende e degli affreschi che fanno menzione dell'inclinazione al gioco del sinistro agente, che a sua volta accetta incuriosito. La partita non si svolge tutta in una volta, ma i due sfidanti si danno appuntamento, via via in luoghi diversi, man mano che i loro viaggi proseguono. Al cavaliere, in ogni caso, la partita dà una proroga sul tempo da vivere.
Il cavaliere e lo scudiero in viaggio
Antonius Block è dunque un uomo audace, intelligente e curioso, e come ogni cavaliere che si rispetti, è impegnato in una quest, una cerca: vuole trovare Dio.
Come in altri film bergmaniani, la ricerca di Dio è al centro della storia, e la risposta alle grandi domande è delineata da un quadro della cultura e del pensiero medievale, presentato nelle sue forme più archetipiche e più vicine all'idea popolare che si ha del Medioevo, ma non per questo approssimative, anzi: il Medioevo qui è un luogo dell'immaginario, nel quale i personaggi possono muoversi e agire in maniera sincera, leggera e paradigmatica, nella profondità e complessità del dramma che viene raccontato.
Con lui il suo scuderio, Jöns (Gunnar Björnstand), un personaggio indimenticabile anche se tutto di un'altra stoffa, che sta lì a incarnare l'ateismo e il pragmatismo che, in particolare nel periodo della peste, andavano diffondendosi verso la fine del Medioevo. Jöns si presenta così:
«Io sono lo scudiero Jöns, che si beffa della morte e del Signore, che ride di se stesso, ma sorride alle ragazze. Ho un mondo che è soltanto mio, di cui tutti si burlano, io compreso. Un mondo senza senso e senza scopo. Ma quando come te si è indifferenti al cielo e all’inferno…»
 Jöns non è una spalla comica, anche se a volte le sue osservazioni sono ilari, ma è innanzitutto un personaggio che vede le cose per come sono, un punto di vista più facile per lo spettatore moderno, e che coglie l'ironia, il sarcasmo, ma anche l'errore e l'ingiustizia. Compiace perché è anche un personaggio forte, che è rimasto con il cavaliere dieci anni in Terra Santa, e che interviene per riparare ciò che trova sbagliato, come nell'episodio in cui salva una ragazza dallo sciacallo che sta derubando in casa sua. Ragazza che è la prima di una serie di altri incontri che si uniscono ai due nel viaggio.
Lo sfondo in cui i due compagni si muovono, introdotto man mano nelle prime scene, è, come dicevo, ricco di suggestioni che rimandano immediatamente al Medioevo per come lo si immagina, a cominciare dalla fantomatica abbondanza di superstizioni: Jöns racconta al cavaliere:
«A Fargestaad non facevano che parlare di orribili portenti. Due cavalli si son divorati l’un l’altro e nella notte le tombe si sono aperte. Le ossa dei sepolti sono state sparse ovunque e al tramonto si son visti quattro soli nel cielo.»
Si tratta del millenarismo caratteristico della cultura del tempo: derivante dalla credenza cristiana della seconda venuta di Cristo sulla Terra, sostenuta dall'Apocalisse stesso, che dovrebbe avvenire dopo un tempo di mille anni, caratterizza l'interezza del periodo medievale (la cui durata, a seconda delle dottrine storiografiche, si aggira anch'essa intorno a un millennio. Verrebbe quasi da dire che i mille anni prima della fine del mondo fossero quelli del Medioevo, se i secoli successivi, e il nostro in particolare, non fossero così prosperi e felici da rassicurarci che il mondo non è finito), ed è il sostrato su cui si costituiscono le numerose leggende e le testimonianze, raccolte secoli più tardi, di numerosi fenomeni sovrannaturali come comete a due code, esseri mostruosi e altri di cui la citazione del film costituisce un esempio.
La peste circola lasciando innumerevoli vittime, come il cadavere solitario cui Jöns si ferma a chiedere informazioni, scoprendone le condizioni, per poi riferire al cavaliere, che gli domanda se l'uomo fosse muto, che egli «a modo suo era estremamente eloquente», ma «di un'eloquenza piuttosto funebre.» E vediamo anche una ragazza accusata di essere una strega, la cui trama viene sviluppata più avanti nel film.

La scena ambientata in chiesa, una delle mie preferite, chiarisce il carattere di entrambi i personaggi principali, soprattutto del cavaliere: questi si confessa con un prete, e gli espone i suoi turbamenti.

«Che sia impossibile sapere? Ma perché? Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Mi ascolti?»
La confessione del cavaliere
«Certo.»
«Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza. Voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli.»
La scena ha un netto capovolgimento quando il prete rivela di essere la Morte; Morte che dunque non dà risposte, ma sfugge alle domande di Antonius replicando con quello che l'umanità fa, mai su quello che è.
Jöns invece incontra un pittore intento a dipingere, indovinate un po', una danza macabra. Il dialogo fra i due mette in luce alcune semplici dinamiche che riguardano questo genere artistico.
Jöns: «Che cosa dipingi?»
Pittore: «La danza della morte.»
Jöns: «E quella è la morte?»
Pittore: «Sì. Che prima o dopo danza con tutti.»
Jöns: «Che argomento triste hai scelto.»
Pittore: «Voglio ricordare alla gente che tutti quanti dobbiamo morire.»
Jöns: «Non servirà a rallegrarla...»
Pittore: «E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente? Che guardino e piangano.»
Jöns: «Ah, invece di guardare chiuderanno gli occhi...»
Pittore: «E io dico che li apriranno. Un teschio spesso interessa molto di più di una donna nuda.»
Jöns: «Se li spaventi, però...»
Pittore: «Li fai pensare...»
Jöns: «E se pensano...»
Il pittore e il suo quadro, che mostra anche la folla dei flagellanti
Pittore: «Si spaventano ancora di più.»
Jöns: «E corrono a buttarsi in braccio ai preti!»
Pittore: «Oh… Questo non mi riguarda.»
Jöns: «Tu non pensi che al tuo lavoro, eh?»
Pittore: «Faccio vedere come stanno le cose, e poi che ognuno decida.»
Jöns: «Molti però ti copriranno di maledizioni.»
Pittore: «Sicuro. E se saranno in troppi, io passerò a un argomento divertente. Devo pur vivere, fino a che non mi uccide la peste.» 
 Questo porta a discutere il senso delle nostre danze, perché mette in luce il fatto che esse non sono date all'umanità dall'alto, quasi un monito della Morte stessa, ma vengono dipinte da pittori con motivazioni, e che i pittori stessi non sempre dovevano essere così intimoriti dalla loro stessa arte. In questo approccio pragmatico e a metà fra il critico e il divertito, anche il timor sacro della morte viene visto per quello che è.
D'altra parte, non è casuale il momento del Medioevo scelto per ambientare la vicenda: il Trecento squassato dalla peste che riduce di un terzo la popolazione europea, oltre che da guerre e crisi varie, è un periodo complesso in cui le certezze del fiorente Basso Medioevo di XII e XIII secolo vengono meno, e anche la religione non è vissuta più sulla base di certezze, ma di dubbi che rendono più tormentato, ma anche più intenso, il rapporto fra l'uomo e la fede.

Alcune scene, le più delicate del film, sono affidate alla famigliola di attori, Jof, Mia e il loro figlioletto Mikael. Jof rappresenta lo spirito più delicato, leggero, puro dell'uomo medievale, che assiste a visioni cui crede e che racconta in giro, finendo spesso malmenato per questo, e che vive innanzitutto per la sua arte, l'arte semplice del comporre canzoni in mezzo alla natura, descrivere le sue visioni, recitare e danzare; oltre che per la sua famiglia, la cui semplicità e tenerezza addolciscono anche ser Antonius quando si trova insieme a loro. Mia, la moglie che di lui si prende cura, ammonendolo e rimbrottandolo, ma anche sostenendolo, quasi una madre insomma, è la stabilità senza la quale le danze e i voli di Jof non potrebbero levarsi; e Mikael, il figlioletto, in un certo senso concretizza la loro famiglia, il loro amore, la loro unione.
La scena in cui Antonius incontra la famigliola e si intrattiene con loro è delicato e sereno, perché anche se animati da pensieri e incombenze molto diverse, e anche se l'uno è un nobile e gli altri non lo sono, possono trascorrere del tempo piacevole insieme in virtù della loro comune umanità. Antonius ascolta Mia che parla di lei e Jof, del bambino, della loro vita e del loro futuro, e parla di sé, del suo viaggio con "una compagnia sgradevole: me stesso", e anche del suo passato, di una giovinezza trascorsa come un sogno accanto alla moglie, che lo sta ancora aspettando.
Al termine dell'incontro Antonius dice:
Antonius con Jof e Mia
«Lo ricorderò questo momento. Il silenzio del crepuscolo. Il profumo delle fragole. La ciotola del latte. I vostri volti su cui discende la sera. Mikael che dorme sul carro. Jof e la sua lira. Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. E sarà per me un conforto. Qualcosa in cui credere.»
Insieme a loro viaggia Jonas Skat, il capo della compagnia teatrale, che ha in mente di recitare un dramma sulla morte, anch'egli per adattarsi ai tempi che corrono: si arriva così ad una scena che ruota sulla forte contrapposizione fra due toni diversi, quella dello spettacolo dei saltimbanchi, in cui Jof e Mia ballano cantano in lingua popolare, con azioni licenziose e argomenti disimpegnati, e vengono interrotti dall'arrivo di una marcia di flagellanti; intonando il Dies Irae, canto gregoriano incentrato sul giudizio universale, la fine dei tempi e il castigo dell'ira di Dio, i flagellanti si arrestano in mezzo alla piazza, e un monaco dallo sguardo arcigno ammonisce con parole sprezzanti tutti i presenti sull'ineluttabilità della loro fine, senza nemmeno fare menzione del Paradiso e della vita beata, solo della morte e del peccato che avvelena la vita degli uomini. È significativo come Antonius rimanga in parte turbato, mentre Jöns non sia sfiorato dalle minacce e anzi irritato per i toni del monaco, oltre che per il fatto che non crede nelle sue parole.

Si inserisce poi un'altra vicenda, quella del fabbro Plug, grosso e manesco ma sostanzialmente un bonaccione, che non trova più la moglie, fuggita con quello Skat della compagnia teatrale, e gira chiedendo prima a Jöns e poi agli avventori di una locanda dove poter trovare la moglie. Qui Raval, lo sciacallo già citato, omuncolo incline a far male agli altri per il puro piacere di farlo, prova a scatenare le ire del fabbro su un povero Jof capitato nel momento sbagliato, ma viene fermato da Jöns, che, per l'appunto, lo marchia come aveva promesso di fare. La vicenda di Plug permette un dialogo sulle donne e sull'amore fra lui e Jöns, quali uomini del popolo attenti alle perdite che la vita di coppia comporta, una sequenza divertente in cui lui e l'attore Skat si confrontano in una gara di insulti che vede il primo vincitore, e un incontro fra Skat e la Morte, che per prenderlo abbatte l'albero su cui intendeva dormire. «Ma se ho un contratto?» «Annullato.» «Ma non c'è qualche scusa, qualche particolare eccezione per gli attori?» «No, no, niente. Nessuna eccezione.» È come aver visto un'altra di quelle danze macabre o un altro di quei trionfi della morte, ma su pellicola. Lo spirito è lo stesso.

La strega, interpretata da Maud Hansson
La storia del fabbro porta il gruppo di viaggiatori ad addentrarsi nel bosco, luogo per eccellenza dell'avventura, della ricerca cavalleresca, del pericolo e del male. Qui si assiste a un episodio molto più serio, quella della strega: una ragazza che ha affermato di aver avuto intrallazzi col demonio, e la cui eliminazione, specie in un momento di grande incombenza come quello della peste, è prioritaria. I soldati portano il carretto in cui è imprigionata, perché, anche se solo a guardarla si rischia la dannazione, "ci hanno pagato bene e val la pena rischiare". Questa vicenda era stata introdotta fin dalle prime scene, e il fato spaventoso della strega era rimasto sospeso fino a questo momento.
Si ha qui la scena che più mi ha colpito la prima volta: Antonius, durante la notte, si avvicina alla gabbia in cui è tenuta la ragazza e le domanda come fare a parlare con il Diavolo: «Voglio domandargli di Dio. Lui sicuramente deve saperne più di ogni altro.» Ho provato il senso di brama e di ricerca tra la determinazione e l'ossessione che guida questo eroe intellettuale, ho sentito che, qualunque fosse stato il prezzo per ottenere risposte su Dio, lui l'avrebbe pagato. E quando la ragazza gli dice di guardarla negli occhi, perché è lì che troverà il Diavolo, domandando poi «Lo vedi?» lui replica «Vedo solo il tuo disperato terrore. E nient'altro. Ecco ciò che vedo.» con una misericordia agghiacciante. Specie perché, diversamente, tutti i preti e i soldati che l'hanno vista non hanno avuto dubbi sulla presenza del maligno dentro di lei. Il cavaliere non ha il potere di salvarla, ma le dà una droga con la quale perdere coscienza mentre viene arsa viva, senza pietà da altri se non da lui e da Jöns, che sconvolto e furioso esclama: «Che cosa vede? Questo vorrei sapere.»
Antonius: «Ormai non vede più.»
Jöns: «Non avete risposto alla mia domanda. Chi veglia su di lei? Gli angeli, o Dio, o Satana, oppure… oppure il nulla. Il nulla, ve lo dico io.»
Antonius non può accettare l'idea e si oppone: «No, no, no, non può essere.»
Jöns: «Guardate i suoi occhi. La sua torbida coscienza si sta accorgendo del nulla. Del nulla che ormai la sommerge.»
Antonius: «No.»
Jöns: «E noi siamo qui incapaci di fare qualcosa. Perché vediamo ciò che vede lei, e il nostro terrore è uguale al suo. E nessuno l’aiuta. No! Non posso guardarla.»
Ormai addentratisi nel bosco, i compagni incontrano ancora una volta Raval, ormai appestato, che chiede aiuto e conforto mentre la peste lo consuma, ma non ne riceve, perché per lui non si può più far nulla. Prima di morire, il disgraziato urla tutta la sua umanità nelle frasi: «Ho paura di morire! Non voglio morire! Non voglio! Non voglio!» «Che cosa accadrà di me? Ditemi qualcosa, confortatemi! Abbiate un po' di misericordia! Non vedete che muoio?»
Frasi che sono quelle che animano il film stesso, che in parte guidano il cavaliere, perché anche in lui l'inquietudine non potrebbe aversi se non fosse per la paura della morte, e che sono la domanda, "cosa accadrà?" cui si continua a cercare risposta.
 Il senso risolutivo, forse, si ha alla fine della partita a scacchi. Durante uno degli incontri, la Morte è sembrata esprimere interesse per la famigliola di saltimbanchi, il che ha preoccupato Antonius. Per questo motivo, mentre il visionario Jof vede la Morte che gioca con il cavaliere e si affretta ad allontanarsi con Mia e Mikael sul carro, Antonius guadagna del tempo per loro rovesciando i pezzi della scacchiera con il suo mantello, il che segna la sua sconfitta, perché, con la mossa successiva, la Morte gli dà scacco matto. Dopo avergli chiesto se abbia trovato utile il rinvio della sua fine, il mietitore dichiara che il loro ultimo incontro sarà nel castello, dove mieterà lui e tutti i suoi compagni di viaggio.
«E tu ci svelerai i tuoi segreti?»
«Non ho alcun segreto da svelare.»
«Allora non sai niente?»
«Non mi serve sapere.»

Il gruppo riunito al castello che vede la Morte arrivare.
Da sinistra verso destra, Lisa, Plug, la ragazza, Karin, Antonius, Jöns.
Al castello, Antonius rincontra finalmente la moglie, Karin, una dama compunta, la cui anima è come smagrita per l'attesa. Karin riceve lo sposo, Jöns, Plug, Lisa sua moglie, e quella ragazza che Jöns ha salvato da Raval. Come dei novelli discepoli intorno a un messia, i compagni mangiano insieme mentre Karin legge la Bibbia, il passo dell'Apocalisse citato all'inizio e proseguito con la descrizione degli effetti dei primi tre angeli che suonano le trombe. Quindi, la Morte fa il suo ingresso. Come se l'avessero aspettata, e in un certo senso è dall'inizio che la si attende, i personaggi si alzano e si presentano. Si presenta Karin, moglie del cavaliere; si presenta Plog insieme a Lisa, quasi facendo una summa della sua vita, del suo mestiere di fabbro e delle vicissitudini con la moglie. La ragazza è in silenzio, ma il suo sguardo pare adorante. Antonius invoca, un ultima volta, il Signore, come Jöns invoca, un'ultima volta, il nulla cui crede lui. 
Antonius: «Dall’oscurità che tutti ci attornia mi rivolgo a te, o signore Iddio. Abbi misericordia, che siamo inetti, e sgomenti, e ignari.»
Jöns: «Nell’oscurità in cui dite che siamo avvolti, e probabilmente è proprio così, non c’è nessuno che ascolti i vostri lamenti o lenisca le vostre sofferenze. Asciugate le lacrime e specchiatevi nella vostra indifferenza.»
Antonius Block: Dio, tu che in qualche luogo esisti, che devi certamente esistere, abbi misericordia di noi.»
Jöns: «Forse avrei potuto liberarmi da questa angoscia dell’eternità che vi tormenta. Ma ormai è troppo tardi per insegnarvi la gioia smisurata di una mano che si muove e di un cuore che pulsa.»
Karin: «Silenzio. Silenzio...»
Jöns: «Sì, farò silenzio, ma mi ribello.»
Infine, la ragazza parla, e dice: «L'ora è giunta.»
La scena precedente è il trionfo della morte, la sua maestà oltrepassa il castello, surclassa la protezione delle sue mura, gli stessi presenti la chiamano "nobile signore", nessuno di loro può sfuggire in qualche modo, e neanche Antonius avrebbe potuto.
Non ho detto in cosa consistesse quel "senso risolutivo". Antonius si è impegnato per rallentare la sua fine e avere, almeno, il tempo di trovare le sue risposte esistenziali. Quel tempo non ha potuto impiegarlo in quanto uomo, soggetto alla contingenza: davanti al pensiero che la Morte portasse via insieme a lui anche Jof, Mia e Mikael, dovendo scegliere tra loro e la sua potenziale vittoria sulla Morte, ha scelto loro. E in una certa accezione, non ha perso, perché loro vivono grazie a lui, e nel fatto che loro vivano riecheggia la vita di lui: si ottiene veramente qualcosa cui si tiene, io credo -non significa lo credano il regista o i personaggi-, nel momento in cui si è disposti a sacrificarla.
Davanti alla morte, comunque, ha perso.
Il film poteva concludersi così, oppure limitarsi a mostrare, dopo questa scena, Jof e la sua famiglia che vanno per la loro strada, come appunto fa, ma ecco, prima della fine del film, Jof ha un'altra visione:
«Mia! Li vedo, Mia. Li vedo. Laggiù, contro quelle nuvole scure. Sono tutti assieme. Il fabbro e Lisa, il cavaliere, Raval e Jöns e Skat. E la Morte austera li invita a danzare. Vuole che si tengano per mano e che danzino in una lunga fila. In testa a tutti è la Morte. Con la falce e la clessidra. E Skat è l’ultimo e ha la lira sotto il braccio. Danzano solenni, allontanandosi lentamente nel chiarore dell’alba. Verso un altro mondo ignoto, mentre la pioggia lava quieta i loro volti. E terge le loro guance dal sale delle lacrime.»
La danza macabra

Indovina un po', il film si conclude con questa, un'altra danza macabra. L'arte cinematografica impiega il suo linguaggio nell'esprimere questo antico soggetto, mostrando i personaggi in fila, mano nella mano, in una danza sospinta dalla Morte,  una danza che accomuna, che livella, che porta "verso un altro mondo ignoto"; un passaggio che non deve per forza provocare sgomento, che Bergman qui mostra in chiave poetica e simbolica, ma non per questo falsa.
Nessuna risposta, in conclusione, dal film, su Dio, sull'aldilà. Che la Morte risponda "non mi serve sapere" non è una mancanza, si sposa perfettamente con l'idea del film e con l'idea delle danze macabre, l'idea della morte svincolata da quadri di sorti ultraterrene e di retribuzione; un'arte che parli della morte su questa terra, della vita che finisce.
La risposta non viene data, ma la via per intraprenderla conduce da qualche parte: nel corso del viaggio il cavaliere fa esperienza di molteplici situazioni, sentimenti, persone, della morte in diverse forme, e della vita, nelle sue forme ancora più numerose. È anche questo il senso della cerca, apprendere e migliorare mentre si perviene all'oggetto della ricerca; certamente ser Antonius Block, uomo formato da dieci anni di crociate, è a un livello di esperienza e di conoscenza più avanzato rispetto a quello di qualunque giovane eroe in viaggio in un poema o romanzo d'avventura, ma per trovare ciò che cerca, la somma esperienza e conoscenza, deve ugualmente ricercare e cogliere ciò che si presenta ai suoi occhi. E l'oggetto della cerca, non lo trova? Non ha una visione totale né una risposta assoluta, ma qualcosa di Dio, forse, la coglie, la coglie in compagnia degli attori, il cui ricordo diviene "qualcosa in cui credere", nella misericordia e umanità sofferente della strega e di Raval, nella moglie che è rimasta, novella Penelope, ad attendere il suo ritorno anche dopo che tutti se ne sono andati, nello stesso percorso di miglioramento. Se i sentimenti umani e l'accalcarsi delle loro voci parlano di Dio, il cavaliere, a tratti, lo raggiunge.
Questa interpretazione, in qualunque caso, è una delle tante. Volutamente il regista non dà risposta alle molte domande poste dal film. Non c'è mai nulla di sicuro e di certo quando si parla di spirito, di Dio, di anima, si entra nel mondo della filosofia e dell'arte che sono come infinite danze, vive, libere, rispetto alle quali la Morte, tenendo chi conduce la danza, è l'unica cosa certa, grazie alla quale quei passi e quell'arte sono possibili.