giovedì 31 agosto 2017

Il volto della luna

C'era una volta un re superbo oltre ogni parola umana, che riteneva di essere signore di ogni cosa. I confini delle sue terre toccavano il mare, la sua torre più alta era la montagna più grande, e la sua cantina più bassa era nel fondo della terra, dove egli rivendicava il possesso di ogni metallo. Il suo esercito era il più forte e numeroso che esistesse, e poiché non aveva più nemici, usava organizzare battaglie tra le sue stesse truppe, solo per il proprio divertimento.
Ogni giorno e ogni notte, il re non faceva che decantare la sua ricchezza e il suo potere, commissionando le sue lodi a poeti e menestrelli, e ovunque andasse, seguitava nel vantarsi e nel dichiararsi più potente di chiunque, uomo o dio, fosse mai vissuto prima di lui.
Gli uomini vivevano nella sua soggezione e non osavano lamentarsi, né tentare di suggerirgli modestia o moderazione. In compenso, tutti gli altri abitanti del suo regno giunsero ben presto a odiarlo. Gli animali si nascondevano sottoterra, gli uccelli abbandonavano gli alberi, i pesci si immergevano per non doverlo sentire. Ben presto anche gli alberi, le acque e i fiori, e i metalli sotto la terra e i venti sopra di essa, si sentirono sdegnati a causa della sua superbia. E tutti i morti mai vissuti nelle sue terre, soprattutto quanti erano morti a causa delle sue guerre e dei suoi giochi, maledicevano il suo nome ogni giorno ed ogni notte.
Non so quanto riuscirono ad sopportare, se per alcuni mesi, magari anche anni, ma arrivò un momento in cui non lo tollerarono più, e di notte, riuniti tutti in corteo chiamarono a gran voce la Luna, che era il loro signore, perché ammonisse il re e ponesse un termine alla sua vanagloria.
E la Luna rispose loro, e discese sulla terra.
Ora, non so se vi hanno mai descritto cosa si prova a trovarsi alla presenza della Luna: il suo volto spettrale e luminoso, carico di promesse e maledizioni, guarda con sguardo insostenibile, ed è ammantato delle nubi e delle volte puntellate di stelle remote, sicché a tentare di racchiuderne la figura si rischia di perdersi e di non tornare presenti a sé stessi mai più.
Dopo avere udito dalle bestie, dagli elementi e dai morti ciò che li disturbava del sovrano, entrò nella sua stanza mentre egli era ancora sveglio, intento a fare un inventario. E il re provò grande sgomento.
«Chi sei tu, e che cosa vuoi da me?» gli domandò.
«Sono la Luna» gli rispose «e sono signore di tutto quanto la luce del mio volto tocchi sulla terra. I miei sudditi sono molto scontenti per causa tua, e mi hanno chiamato perché tu cessi di importunarli con la tua tracotanza».
Il re allora rise follemente e rispose «Ah, signore di cosa? Forse solo tu, perso e distratto nel cielo, non sai che tutto quello che si trova sulla terra appartiene a me. Ho conquistato tutte le terre fino al mare, preso possesso delle montagne e delle cave sotto la terra, e non vi è cosa al loro interno che non sia mia. Torna piuttosto da dove sei venuto, se non vuoi che il mio esercito ti faccia pentire per il tuo affronto».
Da parte sua, la Luna non rise. La Luna non ride mai, anche se talvolta sorride.
Nel sentirsi rispondere in quei termini, tese la mano al re e disse «Seguimi un momento, e ti mostrerò quanto ti sbagli». Il re rispose che non aveva tempo, non gli interessava vedere le sue vanità celesti. E allora la Luna cambiò volto, e assunse la sua sembianza nera, truce e terrificante, e afferrato il re, lo trascinò con sé nel cielo.
Atterrarono su un monte, e dopo aver ripreso il suo volto pallido la Luna rischiarò la notte e illuminò le cime degli alberi, i tetti dei villaggi e le sembianze degli animali notturni. Dunque disse al Re: «Comanda, uomo, che i cervi vengano da te, e che i gufi si posino sul tuo braccio, e chiedi ai lupi di cantare qualcosa per te». Il re, chissà con quali pensieri, chiamò i cervi e fece loro cenno con la mano, ma essi non si mossero; chiamò i gufi, tendendo loro il braccio, ma essi continuarono a volare; infine chiamò i lupi, ma neanche loro fecero udire una risposta. Una volta accaduto ciò, la Luna fece un cenno ai cervi, ed essi si avvicinarono, brucando l'erba davanti a loro; poi chiamò i gufi, che si appollaiarono su un albero vicino a loro; infine cantò una nota, e i lupi ulularono in risposta a quella nota.
Poi la Luna portò il re sulla costa, dove si trovava il suo porto, e gli disse «Puoi tu controllare il mare?».
Il re rispose "Tutte le acque a largo del mio regno sono mie, e tutte le navi e le barche che ci navigano sopra sono mie anche loro».
«Anche la marea ti appartiene?» domandò la Luna. Guardò il mare, senza muoversi, e ad un tratto la marea si alzò, torreggiando sul re. E la Luna divenne ancora più alta della marea, e sollevato il re sulla mano gli fece osservare, davanti a loro, il mare che ribolliva per la sua volontà. Poi lo placò, e volò nuovamente al castello, nella stanza del re.
«Rammenta, uomo» disse la Luna «che anche con tutto il tuo potere resti un uomo mortale, con altri più potenti di te e molti ordini che non potrai mai dare. Da adesso in poi, non dovrai mai più essere arrogante per le cose di cui disponi, e svolgere la tua funzione di sovrano con moderazione e umiltà».
Il re, però, era dannatamente sciocco. E mentre la Luna era ancora là dentro, il re chiamò a gran voce «Guardie, guardie, venite subito qui! C'è un nemico che si è intrufolato con l'inganno nella mia stanza, e osa minacciarmi!».
A quel punto, la Luna si adirò, e quando le guardie furono entrate nella stanza, le guardò, le chiamò per nome, ed esse si gettarono a terra urlanti, trasformandosi in lupi. La Luna mostrò a quel punto al re che neanche gli uomini gli appartenevano davvero, poiché essi, dopo la trasformazione, si gettarono su di lui e lo sbranarono. La Luna stabilì che da allora, perché sulla terra gli uomini non dimenticassero mai il timore che le dovevano, per ogni generazione di uomini ne nascessero alcuni che portassero il suo marchio, e che si trasformassero in lupi ogni notte di luna piena.

C'è tuttavia un'altra versione di questa storia. Prima ancora che le guardie arrivassero, secondo alcuni, la luna avrebbe rivelato il suo terzo volto, quello rosso. E con quel volto avrebbe guardato il re.
Secondo chi racconta questa storia, quando le guardie arrivarono, non trovarono nessuno, né mai più videro l'uomo che aveva costruito e governato quel regno.
Ma di tanto in tanto, nei secoli che sono venuti dopo, la luna ha mostrato altre volte il suo volto di cremisi: e tutte le notti che è successo, vi è stato chi ha raccontato storie su una creatura gigantesca, con vesti lacere, viscere cascanti e un'aura di sangue sprizzato ad ogni movimento, aggirarsi per i campi rapendo il bestiame, o talvolta scorrazzando per i centri abitati, e ogni cosa che abbia agguantato, l'ha portato con sé dicendo solo "È mia".
Vi è, in una città il cui nome sto cercando di dimenticare, un uomo sempre seduto al tavolo di una locanda, che nessuno è mai riuscito a fare allontanare. Se gli paghi da bere e ti siedi accanto a lui, chiedendogli "com'è la luna stasera?", lui ti racconterà una storia. Di un cacciatore che una volta è riuscito, con una trappola e del fuoco, a uccidere quella cosa; ma dopo che c'è riuscito, due diavoli senza il volto sono venuti giù dal cielo, lo hanno preso e se lo sono portato indietro, verso la luna rossa. Con lui c'era un compagno, che nascondendosi è riuscito a sfuggire ai diavoli; e quel compagno, l'uomo che ti racconterà quella storia, ogni volta che arde in cielo una luna rossa si chiude in casa e sbarra le finestre, raccontando, il giorno dopo, di aver udito bussare alla sua porta per tutta la notte, e la voce del cacciatore annunciargli le pene dell'inferno, e che, anche solo sbirciando tra le sbarre, ha visto sulla luna due occhi crudeli puntati verso di lui.


giovedì 17 agosto 2017

Anime di Mostri - Fastitocaloni, Aspidocheloni e altre balene-isola

Lay floating many a rood, in bulk as huge
As whom the Fables name of monstrous size,
Titanian, or Earth-born, that warr’d on Jove,
Briareos or Typhon, whom the Den
By ancient Tarsus held, or that Sea-beast
Leviathan, which God of all his works
Created hugest that swim th’ Ocean stream:
Him haply slumbr’ring on the Norway foam
The pilot of some small night-foundered Skiff, 
Deeming some Islanda, oft, as Sea-men tell,
With fixed Anchor in his skaly rind
Moors by his side under the Lee, while Night
Invests the Sea, and wished Morn delayes (...) 

John Milton, Paradise Lost, Libro I, 196-208.



Ecco che il viaggio del marinaio sembra essere giunto a destinazione: un'isola che non era segnata sulle mappe. Da solo, o magari insieme a un numeroso equipaggio, egli ormeggerà la sua barca e scenderà a terra per esplorare ciò che avrà trovato. Forse troverà vegetazione e forse anche uccelli, e lui e gli altri avranno il tempo per fermarsi e accendere un fuoco per la notte.
Ma presto o tardi, sentiranno dei boati provenire dalla terra sotto di loro, e con terrore la vedranno agitarsi: penseranno a un terremoto o a qualcosa di molto grande sotto il terreno, quando ecco, a poco a poco, che l'intera isola, con tutto ciò che vi è sopra, scivolerà sotto il pelo dell'acqua con fragore, trascinando anche gli sventurati esploratori. E prima di annegare, cercando magari di raggiungere la barca che ormai si sarà capovolta o sarà stata distrutta dal fenomeno, qualcuno dell'equipaggio vedrà, all'apice del terrore, un enorme corpo, con ampie pinne, seguire quella piccola parte del tutto che stava fuori dall'acqua, nelle profondità del mare.

Illustrazione del viaggio di San Brandano e del suo sbarco sulla balena-isola.

Può darsi che invece l'equipaggio sia accompagnato da San Brandano (VI secolo), e che questi, memore della sua esperienza, metta tutti in guardia dall'avvicinarsi a quella che sembra un'isola, ma è in realtà uno dei mostri marini più antichi e temibili, per quanto non sinceramente aggressivi, dei mari di tutto il mondo. Balena-isola, pesce-isola o aspidochelone che sia, è la creatura più grande che viva in mare, e oggi anche a noi tocca di vegliare sul suo dorso, prima che si inabissi.
Quello della balena-isola è un tòpos che appartiene più alla letteratura e alla leggenda che al mito, come molte altre figure presentate nelle pagine precedenti, e figura in molti racconti di mare in varie parti del mondo. Già nel mondo antico, Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, descrive animali marini di immani dimensioni (IX, 4):
"Plurima autem et maxima animalia in Indico mari, ex quibus ballaenae quaternum iugerum, pristes docenum cubitorum, quippe ubi locustae quaterna cubita impleant, anguillae quoque in Gange amne tricenos pedes."
"Invero moltissimi ed enormi animali si trovano nel Mare Indiano, tra i quali balene di quattro iugeri, pesci sega di duecento cubiti, dove certo le aragoste riempiono quattro cubiti, e anche anguille che nel fiume Gange (raggiungono) trecento piedi."
Uno iugero corrisponde a 2.519,9 m², ed è il quarto di un ettaro, quindi le balene in questione sarebbero state bestie di diecimila metri quadrati, mentre i duecento cubiti dei pesci sega equivalgono a circa novanta metri.

Gran parte delle storie su questo genere di creatura deriva dal mondo arabo, a cominciare dalle Mille e una notte, dove compare nel primo dei sette viaggi narrati da Sindbad il Marinaio:

"Un bel giorno, dopo una lunga ed estenuante navigazione durante la quale non avevamo avvistato terre per molto tempo, giungemmo in un'isola che assomigliava all'eden. Al nostro arrivo il comandante ordinò ai marinai di approdare, di gettare l'ancora e di ammainare le vele. [...] All'improvviso il comandante della nave, stando in piedi sulla prua, gridò con tutto il fiato che aveva: «Passeggeri, mettetevi in salvo! Affrettatevi a salire a bordo. Lasciate ogni cosa, fuggite, salvate le vostre anime! Questa su cui vi trovate non è un'isola ma un grosso pesce adagiatosi da tanto tempo in mezzo al mare; il suo dorso si è quindi ricoperto di sabbia, tanto da farlo sembrare una spiaggia e da farvi crescere gli alberi sopra. Quando avete attizzato il fuoco, il pesce, sentendone il calore, si è risvegliato; ora, adirato per le scottature, si sta spostando e vi sta trascinando con sé negli abissi marini»."

Anche un autore di testi scientifici, al-Jāḥiẓ (IX secolo), la inserisce nel suo Libro degli animali, presentandola col nome che essa ha in oriente, "zaratan":
Illustrazione di un manoscritto del 1633.
«Per quanto concerne lo Zaratan, non ho mai incontrato nessuno che l'abbia visto con i propri occhi. Ci sono marinai che asseriscono di essersi spinti verso certe isole, vedendo valli boscose e spaccature nella roccia, e di essere sbarcati per accendere un gran fuoco; e che quando il calore delle fiamme ebbe raggiunto la spina dorsale dello Zaratan, questo abbia iniziato a immergersi nell'acqua con loro sopra di lui, e con tutte le piante che vi crescevano, fino a che solo quelli capaci di nuotare furono in grado di salvarsi. Questo supera persino la più coraggiosa e fantasiosa delle finzioni.»
I mari che sembrano abbondare di più di mostri marini grandi al punto di essere scambiati per delle isole, sembra, sono quelli del nord.
Nel norvegese Konungs skuggsjá e nella Saga di Oddr l'Arciere (XIII secolo) viene presentato l'hafgufa, un mostro marino descritto come un pesce, il cui nome è composto da haf, "mare", e gufa, nebbia.

Nella prima opera viene detto:
« C'è un pesce che non ho ancora menzionato, di cui è bene evitare di parlare in proposito delle sue dimensioni, poiché alla maggioranza delle persone sembrerebbe incredibile. Ci sono molto pochi che possono parlarne chiaramente, poiché raramente si avvicina alla terra o appare dove potrebbe esser visto dai pescatori, e io suppongo che non vi siano tanti pesci di questa specie nel mare. Spesso nella nostra lingua noi lo chiamiamo hafgufa. Né io posso parlare con certezza delle sue dimensioni in aune, perché le volte che si è mostrato agli uomini è apparso più come terra che come pesce. Né ho sentito che ne sia mai stato catturato uno, o trovato morto; e io credo che non debbano essercene più di due negli oceani, e che ognuno sia incapace di riprodursi, perché credo che siano sempre gli stessi. Infatti, non sarebbe bene per gli altri pesci se gli hafgufa fossero in numero quanti le balene, per la loro vastità, e per quanta sussistenza necessitano. Si dice che sia la natura di questo pesce che quando vuole mangiare, allora estende il suo collo con un grande ruttare, e con questo ruttare butta fuori tanto cibo che tutti i generi di pesci che sono nei pressi accorrono nel luogo, e si riuniscono assieme, sia grandi che piccoli, poiché credono che otterranno cibo e buon mangiare; ma questo grande pesce lascia la sua bocca aperta nel frattempo, e l'apertura non è meno ampia di quella di un grande sound o fiordo, e i pesci non possono evitare di accorrere lì in grande numero. Ma come il suo stomaco e la sua bocca sono pieni, allora esso richiude assieme la fauci e cattura e imprigiona tutti quei pesci, che tanto avidamente erano giunti lì in cerca di cibo. »
Hafgufa.
È molto interessante il tòpos per il quale esistono solo due esemplari di questa creatura, ché se fossero di più e si riproducessero comporterebbero uno squilibrio per la natura e le sue risorse, poiché altrettanto viene detto, nella Bibbia, del Leviatano.

Dalla Saga di Oddr apprendiamo:
« Vignir disse: "Tu parli fin dove la tua conoscenza arriva. Ora ti dirò questo, che vi sono due mostri marini. Uno chiamato hafgufa, e l'altro lyngbakr. Esso [il lyngbakr] è la più grande delle balene nel mondo, ma l'hafgufa è il mostro più grande del mare. È la natura di questo mostro ingoiare uomini e navi, e perfino balene ed ogni cosa raggiunge. Esso sta sommerso per giorni e giorni, e infine sporge la sua testa e il suo naso e così rimane fino al cambio di marea. Il canale che abbiamo attraversato era tra la sua bocca, e il suo naso e la sua mandibola erano quelle rocce che sono apparse nel mare, e il lyngbakr era quell'isola che abbiamo visto inabissarsi. Ogmund ha mandato queste bestie contro di te con la sua magia per ucciderti con tutti i tuoi uomini. Pensava che molti sarebbero annegati [sulla schiena del lyngbakr], e che l'hafgufa avrebbe divorato i superstiti. Oggi sono passato nella sua bocca perché sapevo che era appena riemersa. »
Lyngbakr, Ernest Journal 1-2014.
http://www.loststudio.co.uk/Ernest-Journal-Lyngbakr
Qui ci viene presentato un altro mostro, il lyngbakr (lyngi "edera" e bakr "schiena", anche qui dunque un essere sul cui dorso cresce la vegetazione), esplicitamente definito balena, implicando che l'hafgufa non lo sia, e che si tratti piuttosto di un pesce, così grande da poter navigare nella sua gola come in un canale. Quello più vicino alla figura del pesce isola è comunque il lyngbakr, che lascia che gli uomini approdino sul suo dorso per poi ucciderli; ed è incredibilmente affascinante la complicità tra i due mostri, posti vicini tra loro con la garanzia che sia impossibile sfuggire loro, allorché chi riesca a scampare alla morte dopo l'inabissamente del lyngbakr viene divorato dall'hafgufa; come delle Scilla e Cariddi scandinave.
Dal folklore nordico -e non certo da quello greco, come il film "Scontro di titani" e il remake "Scontro tra titani" (1981 e 2010) potrebbero aver fatto credere a qualcuno- deriva anche uno dei mostri marini più celebri e più noti al grande pubblico, il kraken. Assente nelle saghe e nella letteratura medievale, le origini delle leggende su questa enorme piovra, che per altri sarebbe invece un granchio, potrebbero forse risalire proprio alla fine dell'età di mezzo; spesso è associato alle creature descritte da Olaus Magnus, di cui diremo tra poco, ma anche lì non figura il suo nome.
L'isola di san Brandano nel
"Manuscriptum translationis Germanicae", XV secolo.

Come accennato all'inizio, uno degli avvistamenti più celebri della balena-isola è quello di San Brandano. L'incontro è raccontato nella Navigatio sancti Brandani (X secolo):
"Tutti scesero dalla nave, a eccezione dell'abate, che rimase a bordo. Per un giorno e una notte celebrarono la festa, mentre l'abate, che aveva celebrato l'ufficio sulla nave così come si soleva fare in chiesa, rimase ancora a bordo. Alcuni erano andati in cerca di legna per cuocere il loro cibo. Quando il cibo fu pronto, l'abate ordinò loro di sedersi; ma appena ebbe detto ciò, tutti esclamarono all'unanimità: 'Oh padre aspetta i tuoi figli. Dove vai senza i tuoi figli?' Infatti, o la nave si stava allontanando dalla terra, oppure la terra si stava allontanando dalla nave. Il luogo dove avevano acceso il fuoco cominciò a tremare, e Brendano li tranquillizzò con queste parole: 'Oh fratelli, di cosa avete paura? Non è la terra, ma un animale, il luogo su cui stiamo celebrando la festa; esso è un pesce tra i più grandi, e non dovete meravigliarvi di ciò, poiché Dio ha voluto condurci qui per renderci più sapienti. Ora che avete visto le sue meraviglie, crederete di più in Lui, lo temerete ed osserverete meglio i Suoi precetti'."
Mostri marini della mappa di Olaus Magnus.
Arriviamo così alla parte da cui deriva tutto. Non so se la cosa vi stupirà, ma anche questo è un post che parla di letteratura anglosassone e di Tolkien.
Tutto comincia dal Phisiologus, il bestiario alla base di tutti gli altri bestiari medievali. Tra i vari animali della terra e del mare, esistenti e fantastici, annoverati tra le sue pagine, se ne trova uno di cui viene detto così:
"Est belua in mare quae dicitur graece aspidochelone, latine autem aspido testudo; cetus ergo est magnus, habens super corium suum tamquam sabulones, sicut iuxta littora maris. Haec in medio pelago eleuat dorsum suum super undas maris sursum; ita ut nauigantibus nautis non aliud credatur esse quam insula, praecipue cum uiderint totum locum illum sicut in omnibus littoribus maris sabulonibus esse repletum. Putantes autem insulam esse, applicant nauem suam iuxta eam, et descendentes figunt palos et alligant naues; deinde ut coquant sibi cibos post laborem, faciunt ibi focos super arenam quasi super terram; illa uero belua, cum senserit ardorem ignis, subito mergit se in aquam, et nauem secum trahit in profundum maris.
Sic patiuntur omnes qui increduli sunt et quicumque ignorant diaboli astutias, spem suam ponentes in eum; et operibus eius se obligantes, simul merguntur cum illo in gehennam ignis ardentis: ita astutia eius."
"Vi è una belva in mare che è detta in greco "aspidochelone", mentre in latino "tartaruga scudo" [ma aspis significa anche serpente]; è dunque un grande cetaceo, che ha sulla sua pelle tanta sabbia quanta se ne trova sulla spiaggia del mare. Qui in mezzo al mare eleva il suo dorso al di sopra delle onde; così che i naviganti credono che non sia altro che un'isola, e vedono subito tutto quel luogo ricoperto di sabbia come ogni altra spiaggia. Ritenendo dunque che sia un'isola, approdano con la nave su di essa, e scendendo piantano dei pali e legano le navi; dunque quando cuociono i cibi dopo il lavoro, fanno quivi un fuoco sulla sabbia come fosse terra; allora la belva, che ha sentito il calore del fuoco, subito si immerge in acqua, e trascina la nave con sé nelle profondità del mare.
Così soffrono tutti coloro che non credono e che ignorano le astuzie del diavolo, ponendo la loro speranza in lui; e vincolandosi a lui con le loro opere, subito sono sommersi con lui nella Gehenna di fuoco ardente: tale è la sua astuzia."
L'Aspidochelone da un codice del 1633 circa.
Nei bestiari, le caratteristiche degli animali hanno un significato allegorico o simbolico, e nel caso di questo mostro marino, il suo ingannare i marinai facendoli approdare sul suo dorso per poi trascinarli negli abissi diviene immagine degli inganni e delle false promesse del diavolo. E a partire da questo esempio, troviamo lo stesso concetto espresso da ogni bestiario in cui sia presente la balena.
Qui, però, la creatura viene distinta dalle comuni balene, perché il suo nome, Aspidochelone, chiama in causa un altro genere di animali, ovvero le tartarughe.
Nel XIII secolo Guillaume Le Clerc riporta la balena nel suo bestiario e ne cita il costume di fingersi un'isola, aggiungendo in più:
"Quando il pesce è affamato, spalanca ampiamente la bocca, ed esala un odore eccessivamente dolce. Allora tutti i pesciolini gli nuotano vicino, e, attratti dal profumo, si affollano nella sua gola. Allora la balena chiude le fauci e li ingoia nel suo stomaco, che è ampio come una valle."
Anche questa caratteristica verrà associata al diavolo e agli inganni con cui questi vince le anime dei mortali e li trascina all'Inferno.

Bartholomaeus Anglicus, sempre nel XIII secolo, nel suo "De proprietatibus rerum", libro 13, analizza la balena con criterio maggiormente scientifico e spiega anche come avvenga che questa venga scambiata per un'isola: piena di sperma, che è poi la caratteristica da cui deriva il nome del capodoglio (in inglese "sperm whale"), dopo essersi riprodotta la balena ha i resti di quanto emesso che galleggiano e si posano sul suo corpo; se la sostanza si essicca ha la consistenza dell'ambra. Con l'avanzare dell'età, la terra indurita accumulatasi sul dorso è tanta da permettere ad erbe e persino piccoli alberi di crescere su di essa. Nella testa del capodoglio, in realtà, si trova una sostanza, chiamata ancora oggi "spermaceti" (cioè sperma di balena, cioé di mostro marino), che serve all'animale per immergersi e scendere a grandi profondità senza subire sforzo, e che anticamente era ritenuta il seme di questi animali.
Rispetto alle versioni già presentate, Bartholomaeus aggiunge che la balena è temibile per i marinai tratti in inganno per la sua abitudine di ingoiare acqua e sputarla su di loro, e che ferirla è difficile a causa del grasso, che forma così tanti strati intorno al suo corpo da impedire che gli arpioni possano raggiungerlo; in compenso, la creatura all'interno è molto vulnerabile, perché se avverte il contatto con l'acqua di mare fugge immediatamente verso la terraferma.
Illustrazione di Conrad Gessner.

Olaus Magnus (1490 - 1557), arcivescovo di Uppsala, è il primo nome che venga in mente quando si tratti di mostri marini dei mari nordici, in quanto autore della Carta marina et Descriptio septemtrionalium terrarum (1539) e della Historia de gentibus septentrionalibus (1555), dove gli ultimi sei dei ventidue libri che compongono l'opera -più un'etnografia che un'effettiva opera di storia- sono dedicati agli animali e danno molto spazio ai numerosi mostri marini delle leggende scandinave. Anche lui racconta (libro XXI, capitolo 13) del grande accumulo di sperma della balena, senza però la leggenda della crescita di vegetazione sul suo dorso. Nella sua cartina sono raffigurati numerosi mostri in quelle acque, che possono darci un'idea di come le balene fossero immaginate nell'iconografia medievale, creature ibride con zampe anteriori, grandi bocche zannute, piccoli occhi e orecchie.

Il mito antico influenza così anche autori moderni: l'Ariosto, nel VI canto dell'Orlando Furioso, tra le tante meraviglie scorte in mare da Astolfo, tra cui le varie specie di balena già nominate, ne cita una particolare (stanza 37):
Veggiamo una balena, la maggiore
Che mai per tutto il mar veduta fosse:
Undeci passi e più dimostra fuore
De l’onde salse le spallacce grosse.
Caschiamo tutti insieme in uno errore,
Perch’era ferma e che mai non si scosse:
Ch’ella sia una isoletta ci credemo,
Così distante a l’un da l’altro estremo.
Come già visto in apertura, Milton usa questa figura, citando la frequenza delle sue testimonianze nelle acque norvegesi, e la identifica col Leviatano biblico, presentato nel Libro di Giobbe come la più temibile delle creature marine, anche se non si parla di una mole tale da parlare di un'isola. Oltre che nel primo libro, dove il Leviatano/balena-isola è citato come immagine dell'enorme mole di Satana disteso sul caos in cui è precipitato, Milton lo nomina nell'ottavo, a proposito della creazione e degli animali marini (412-416):

[...] there Leviathan                      Così si stende
Hugest of living Creatures, on the Deep          La balena vastissima simìle
Stretcht like a Promontorie sleeps or swimmes,                         A un monte in sulle liquide campagne,
And seems a moving Land, and at his Gilles                      O se si move, un'isola natante
Draws in, and at his Trunck spouts out a Sea.        Tu la diresti: entro sue fauci un mare
Tragge ed ingorga, e per la cava tromba.  
Alto riversa un mar.                                      

Post come questo sono in aggiornamento, e aggiungerò altre citazioni letterarie man mano che le troverò.
La scena del pesce-isola in "Sinbad: La leggenda dei sette mari".
La prima volta che ho assistito a una scena come quelle narrate, con lo stupore che si prova quando non si ha mai sentito di una storia del genere, è stato nel film Dreamworks "Sinbad: La leggenda dei sette mari" (2003), dove il protagonista e il suo equipaggio esplorano l'isola e ne scoprono la vera natura quando, durante una discussione un po' accesa, staccano un pezzo di terra: il suolo trema per l'interezza dell'isola,  tutta la vegetazione viene riassorbita dal terreno, e sotto i loro piedi si apre un'enorme occhio, mentre una lunga antenna con la punta luminosa oscilla sopra di loro. L'inquadratura successiva mostra chiaramente le sembianze del pesce - con un antenna simile a quella di molti pesci abissali-; segue la rocambolesca fuga sulla nave, accompagnata dal grido di Sinbad, che ora mi sembra riecheggiare del terrore di tutti i marinai delle storie già raccontate "È un pesce!". Fortunatamente, gli uomini riescono a salvarsi, e fissando delle cime alla pinna del pesce riescono a percorrere molto velocemente un ampio tratto di mare.
Un altro omaggio proviene dai Digimon: Whamon, il Digimon acquatico dalle sembianze di una grossa balena coi denti e senza occhi visibili, tra i pochi ad avere la caratteristica di essere sia una forma di livello campione che un evoluto, fa spesso emergere parte della grossa "fronte" per trasportare i protagonisti della prima, della seconda e della quarta serie, mentre altre volte li trasporta all'interno del corpo, secondo l'immagine di Giona, Pinocchio e altri che in questo post ho omesso.
Whamon.
Soprattutto, Whamon ha una forma al livello mega, KingWhamon, dall'aspetto di una ancor più grande balena di roccia con alberi e vegetazione su diverse parti del corpo.
KingWhamon.

E arriviamo infine all'esemplare che più mi interessa, con un nome e delle ricorrenze letterarie tutte sue: il Fastitocalon.
Nel Libro di Exeter, che ormai conoscerete bene (grazie ai post su The Wanderer e The Seafarer), sono presenti, insieme alle elegie e agli indovinelli, alcuni testi religiosi, e oltre a poemi su Cristo, i santi e alcuni episodi biblici, ci sono le definizioni in versi di quattro creature, secondo l'uso dei bestiari: la fenice, la pernice, la pantera e la balena.
Molto interessanti in quanto esempio di bestiario in lingua anglosassone, questi poemi sono oggetto di studio comparatistico con gli altri bestiari medievali nelle lingue germaniche, e in quello della balena (hwale), scopriamo che l'aspidochelone ha un altro nome presso questo popolo, ovvero "Fastitocalon". Il filologo J.R.R. Tolkien, a proposito del nome, ha sostenuto, nella lettera del 5 marzo 1964 a Mrs. Eileen Egar, pubblicata come "Lettera 255" nella raccolta "The Letters of J.R.R. Tolkien" (1981) (in Italia "La realtà in trasparenza"), che doveva trattarsi nel nome greco "aspidochelone" semplificato in "astitocalon" e preceduto da una f per ragioni allitterative ("fyrnstreama geflotan, Fastitocalon", "che galleggia negli antichi mari, Fastitocalon"), ragioni molto forti nella poesia germanica.

 Nu ic fitte gen      ymb fisca cynn                           Ora, facendo uso della mia memoria
wille woðcræfte      wordum cyþan                          vi narrerò in versi, con l'arte
þurh modgemynd      bi þam miclan hwale.             della poesia, di una specie di pesce:
Se bið unwillum      oft gemeted,                              la grande balena. Con cui spesso si incontrano, e certo
frecne ond ferðgrim,      fareðlacendum,                   contro la loro stessa volontà, tutti coloro
niþþa gehwylcum;      þam is noma cenned,             che percorrono il mare, ed è pericolosa
fyrnstreama geflotan,      Fastitocalon.                      e crudele ad ognuno. A questo essere
Is þæs hiw gelic      hreofum stane,                           che negli antichi mari galleggia è dato il nome
swylce worie      bi wædes ofre,                                di Fastitocàlon. La sua forma è simile
sondbeorgum ymbseald,      særyrica mæst,              a pietra ruvida e rozza, come se il più largo
swa þæt wenaþ      wægliþende                                  di tutti i giuncheti, circondato da dune di sabbia,
þæt hy on ealond sum      eagum wliten,                    navigasse vicino alla sponda, così che i viaggiatori
[credono                       
ond þonne gehydað      heahstefn scipu                      che si tratti di un'isola di fronte ai loro occhi;
to þam unlonde      oncyrrapum,                                 e così ormeggiano navi dalla prora alta
setlaþ sæmearas      sundes æt ende,                           con funi da ancoraggio a quella riva
ond þonne in þæt eglond      up gewitað                     che essi suppongono terra, assicurano ai limiti dell'acqua
collenferþe;      ceolas stondað                                    quelle cavalcature marine; e quindi gli uomini, forti
[e coraggiosi,               

bi staþe fæste,      streame biwunden.                          sbarcano sopra l'isola. Le navi
ðonne gewiciað      werigferðe,                                    restano presso la spiaggia, sicure, circondate
faroðlacende,      frecnes ne wenað,                             dalla marea. E i naviganti stremati di fatica
on þam ealonde      æled weccað,                                 montano il loro accampamento, non pensano affatto
[al pericolo.                  
heahfyr ælað;      hæleþ beoþ on wynnum,                  Sull'isola accendono un fuoco,
reonigmode,      ræste geliste.                                      lasciano che divampi un'altissima fiamma.
þonne gefeleð      facnes cræftig                                  Colmi di gioia; stanchi, e lieti del riposo.
þæt him þa ferend on      fæste wuniaþ,                       Abile al tradimento, quando avverte
wic weardiað      wedres on luste,                                che i viaggiatori si sono sistemati, si sentono sicuri,
ðonne semninga      on sealtne wæg                             hanno disposto il campo e godono la dolce
mid þa noþe      niþer gewiteþ                                      temperatura dell'aria, all'improvviso allora
garsecges gæst,      grund geseceð,                               la creatura oceanica rapidamente si immerge
ond þonne in deaðsele      drence bifæsteð                    nelle profondità del mare, nelle acque salse,
scipu mid scealcum.      Swa bið scinna þeaw,              e annegandoli tutti li imprigiona, le navi e i marinai,
deofla wise,      þæt hi drohtende                                   nella dimora della morte.
þurh dyrne meaht      duguðe beswicað,                        Non diverso
ond on teosu tyhtaþ      tilra dæda,                                 è il costume dei dèmoni, l'uso dei diavoli,
wemað on willan,      þæt hy wraþe secen,                    che poiché esistono attraggono e seducono
frofre to feondum,      oþþæt hy fæste ðær                    moltitudini d'uomini, usando
æt þam wærlogan      wic geceosað.                              un misterioso potere, e di proposito
þonne þæt gecnaweð      of cwicsusle                            li persuadono tutti alla rovina delle buone azioni
flah feond gemah,      þætte fira gehwylc                       così che cercano aiuto e conforto dai cattivi spiriti,
hæleþa cynnes      on his hringe biþ                                e con fermezza scelgono di dimorare col diavolo.
fæste gefeged,      he him feorgbona                                Quando dal suo tormento vivo il falso e traditore
þurh sliþen searo      siþþan weorþeð,                              nemico sa che ognuno della razza umana
wloncum ond heanum,      þe his willan her                     è ormai sicuro prigioniero della sua potenza,
[con arte crudele             

firenum fremmað,      mid þam he færinga,                      trae da lui la vita, compie la propria volontà.
heoloþhelme biþeaht,      helle seceð,                               L'uomo rapidamente, con tutti i suoi peccati. coperto
goda geasne,      grundleasne wylm                                  da un elmo di tenebre, destituito di tutte le virtù,
under mistglome,      swa se micla hwæl,                         precipita all'inferno, oceano senza fondo
se þe bisenceð      sæliþende                                             d'oscurità nebbiosa, come la grande balena
eorlas ond yðmearas.      He hafað oþre gecynd,              che annega i marinai, uomini e navi.
wæterþisa wlonc,      wrætlicran gien.                               Ma l'ardito
þonne hine on holme      hungor bysgað                            viaggiatore dei mari possiede una più strana
ond þone aglæcan      ætes lysteþ,                                      caratteristica: quando
ðonne se mereweard      muð ontyneð,                               nell'oceano la fame lo opprime, allora quel guardiano
wide weleras;      cymeð wynsum stenc                             del mare apre la bocca, le sue labbra immense,
[e un odore                     
of his innoþe,      þætte oþre þurh þone,                             piacevole esce da lui, così che gli altri pesci
[d'ogni specie                 

sæfisca cynn,      beswicen weorðaþ,                                  ne sono attratti e presi, e nuotano rapidi allora
swimmað sundhwate      þær se sweta stenc                       al luogo del dolce profumo. Vi entrano in folla confusa
ut gewiteð.      Hi þær in farað                                            finché la bocca immensa ne è ricolma:
unware weorude,      oþþæt se wida ceafl                           egli improvvisamente
gefylled bið;      þonne færinga                                           serra con suono orrendo sulla preda le mascelle
[atroci.                           
ymbe þa herehuþe      hlemmeð togædre                             Lo stesso accade agli uomini
grimme goman.      Swa biþ gumena gehwam,                   che spesso nel corso di questo tempo fuggevole
se þe oftost his      unwærlice                                              mostrano poco riguardo per la vita, e lasciano
on þas lænan tid      lif bisceawað,                                       che il vano desiderio li illuda
læteð hine beswican      þurh swetne stenc,                         con il suo dolce profumo, e per i loro vizi
leasne willan,      þæt he biþ leahtrum fah                           sono odiati dal Re della gloria. Il maledetto
wið wuldorcyning.      Him se awyrgda ongean                  dopo il viaggio apre l'inferno a quelli
æfter hinsiþe      helle ontyneð,                                            che con cattivo consiglio e frivolezza, ignorando
þam þe leaslice      lices wynne                                            la guida dell'anima, inseguirono
ofer ferhtgereaht      fremedon on unræd.                             solo le gioie del corpo.
þonne se fæcna      in þam fæstenne                                     Quando l'ingannatore, l'esperto del male, ha gettato
gebroht hafað,      bealwes cræftig,                                       nella prigione dove la fiamma è sempre rinnovata
æt þam edwylme      þa þe him on cleofiað,                         quelli che carichi d'ogni peccato aderirono a lui
gyltum gehrodene,      ond ær georne his                             e avidamente un tempo ascoltarono
in hira lifdagum      larum hyrdon,                                       nei giorni della vita il suo richiamo, allora chiude
þonne he þa grimman      goman bihlemmeð                      dopo la morte le mascelle atroci,
æfter feorhcwale      fæste togædre,                                     le porte dell'inferno.
helle hlinduru;      nagon hwyrft ne swice,                           E chi vi entra
utsiþ æfre,      þa þær in cumað,                                           non spera né il ritorno né la fuga, non esiste uscita
þon ma þe þa fiscas      faraðlacende                                    non più di quanto i peschi, natanti dell'oceano
of þæs hwæles fenge      hweorfan motan.                            possano liberarsi dalla stretta
Forþon is eallinga    (lacuna)                                                 della balena. Per cui completamente...
dryhtna dryhtne,      ond a deoflum wiðsace                         [---spazio lasciato per via della lacuna---, ndC]
wordum ond weorcum,      þæt we wuldorcyning                al Signore di tutti i signori, e combattiamo sempre
geseon moton.      Uton a sibbe to him                                 contro il demonio con parole e imprese,
on þas hwilnan tid      hælu secan,                                        così che si possa vedere
þæt we mid swa leofne      in lofe motan                              il Re della gloria. Imploriamo da Lui
to widan feore      wuldres neotan.                                        la pace e la salvezza in questo tempo di transizione,
così da godere per sempre della sua gloria
con la Sua lode, e insieme a Lui che più di tutti è amato.
Una rappresentazione moderna di una di queste amiche.

Scoprire questo testo mi ha positivamente stupito, perché prima di allora avevo creduto che questo nome fosse un invenzione di un mitopoieta molto più recente dell'era anglosassone, ossia lo stesso Tolkien.
Nella raccolta di poesie "The Adventures of Tom Bombadil" ("Le avventure di Tom Bombadil") del 1962, Tolkien inserisce una poesia che si intitola "Fastitocalon", rifacimento di un suo componimento precedente. L'idea era quella di mostrare attraverso questo esempio il procedimento della cultura degli Hobbit, i quali, come l'autore spiega nella lettera su citata, avrebbero tratto questa materia dalla cultura e dalla lingua "dotta", cioè quella degli Elfi, equiparata al greco, adattandola alla loro lingua, come se fosse l'inglese, e anglosassone loro stile, che è il motivo per cui nella poesia si parla più volte di pisolini e tè.
Tolkien, a differenza del poeta anglosassone da cui ha attinto, conosceva l'origine del nome Aspidochelone: ecco così che nella sua lirica il Fastitocalone è l'ultimo dei "Turtle-fish", "pesci-tartaruga", e ha uno spesso guscio su cui far sbarcare gli ignari marinai.

Fastitocalon                                                                          Il Fastitocalone

Look, there is Fastitocalon!                                                 Guarda Fastitocalone
An island good to land upon,                                               Un buon approdo, quest'isolone
Although 'tis rather bare.                                                      Anche se è un po' spoglio.
Come, leave the sea! And let us run,                                    Forza corriamo! Lasciamo il mare,
Or dance, or lie down in the sun!                                         Stendiamoci al sole o iniziamo a ballare!
See, gulls are sitting there!                                                   Guardate i gabbiani son su quello scoglio!
Beware!                                                                                Ma state attenti!
Gulls do not sink.                                                                 I gabbiani non vanno a fondo!
There they may sit, or strut and prink:                                 Lì possono sedersi oppur pavoneggiare
Their part is to tip the wink,                                                 Ma l'allarme devon dare
If anyone should dare                                                           Se qualcun volesse osare
Upon that isle to settle,                                                         Su quest'isola stabilirsi
Or only for a while to get                                                     O solo fermarsi un po' affinché
Relief from sickness or the wet,                                           Ci si possa riposare, o asciugarsi,
Or maybe boil a kettle.                                                         O magari farsi un tè.

Ah! foolish folk, who land on HIM,                                    Oh! Sciocco chi attracca alla sua schiena
And little fires proceed to trim                                             E piccoli fuochi ad accender inizia
And hope perhaps for tea!                                                    Sperando in una cena!
It may be that His shell is thick,                                           Grosso e spesso il suo guscio appare
He seems to sleep; but He is quick,                                      Sembra dormire: ma egli è veloce,
And floats now in the sea                                                     E ora galleggia in mezzo al mare,
With guile;                                                                            Ma è astuto,
And when He hears their tapping feet,                                 E quando sente dei passi scalpicciare,
Or faintly feels the sudden heat,                                           O avverte appena dei fuochi il calore,
With smile                                                                             Con un sorriso
HE dives,                                                                               S'è già tuffato
And promptly turning upside down                                      E rovesciandosi prontamente

He tips them off, and deep they drown,                                Fa cadere e affogar tutta la gente
And lose their silly lives                                                       Che perde così la sua vita insensata
To their surprise.                                                                   Rimanendo meravigliata.
Be wise!                                                                                State attenti!
There are many monsters in the Sea,                                    Nel mare si trova più di un mostro
But none so perilous as HE,                                                  Ma nessuno è pericoloso come questo:
Old horny Fastitocalon,                                                         Vecchio coriaceo Fastitocalone
Whose mighty kindred all have gone,                                   La cui stirpe possente è ormai sparita,
The last of the old Turtle-fish.                                               Lui è l'ultimo tartarugone.
So if to save your life you wish                                             Perciò se volete salvarvi la vita
Then I advise:                                                                        Sentite il mio consiglio:
Pay heed to sailors' ancient lore,                                            Dei marinai l'inseguimento seguite
Set foot on no uncharted shore!                                             E non sbarcate su isole ignote!
Or better still,                                                                         O ancora meglio,
Your days at peace on Middle-earth                                       A Terra-di-mezzo la vostra vita fugace
In mitth                                                                                   In pace
Fulfil!                                                                                      Trascorrete.

Qui una versione cheloniforme.


Bibliografia

La fenice e altri poemi anglosassoni, a cura di Roberto Sanesi, SE 1998, Milano
Le avventure di Tom Bombadil, J.R.R. Tolkien, traduzione di Isabella  Murro, Bompiani 2000, Milano
Le mille e una notte, a cura di Hafez Haidar, Oscar Mondadori 2001

Ogni cosa intorno a me scomparve o scivolò sulla terra che si agitava sotto di me, finendo in mare.
Mentre terrorizzato paventavo già la fine del mio viaggio, uno degli angeli che avevo visto sul mare mi disse: "Non è ancora finito il tuo viaggio. Questi è il Fastitocalon, e ti porterà alla prossima meta."
Entrai nella creatura, e la sentii inabissarsi.
Quando riemerse e spalancò le fauci vidi una spiaggia avvolta nella nebbia, e udii riecheggiare una voce che piangeva.

giovedì 3 agosto 2017

L'elegia anglosassone - The Seafarer sulla pista delle balene

I mesi estivi mi conciliano storie di mare, di viaggi per mare, e le immagini di quei popoli antichi le cui storie e la cui lingua sono un tesoro prezioso da proteggere, custodire gelosamente nella tana e proteggere col fuoco: i re, i conti e i guerrieri dei regni anglosassoni.
Ecco che torno ad aprire l'Exeter Book, il manoscritto che contiene le otto elegie grazie alle quali sentimenti provati da uomini vissuti più di mille anni fa possono essere ancora provati e le loro parole ancora pronunciate, e nella profondità della loro fede cristiana è forse ancora possibile scorgere un barlume di spiritualità pagana. L'elegia più conosciuta, accanto a The Wanderer, è un canto di mare e di anima, il viaggio di un marinaio: The Seafarer.

Prima di procedere, occorre chiarire che alcuni elementi utili a seguire meglio il discorso, sono presenti nel post in cui ho iniziato a parlare delle elegie anglosassoni, appunto quello su The Wanderer. Inserirò più volte il link nel corso del post, in modo da poterlo aprire all'occorrenza senza doverlo cercare ogni volta.

The Seafarer somiglia a The Wanderer da molti punti di vista, e la loro analisi tiene conto degli elementi comuni: lunghezza affine, struttura interna in cui sono ravvisabili due parti; soprattutto, in entrambe le elegie si esprime un io sofferente, a noi ignoto, conoscitore della dimensione aristocratica del comitatus, con il re e i suoi guerrieri, in viaggio, lontano da quel mondo, che lamenta una vita di sofferenze, e in entrambe si trovano versi di matrice cristiana che causano non pochi problemi. Per questa analisi, come quella di The Wanderer, mi avvalgo di un saggio proveniente dalla raccolta curata da Martin Green "Old English Elegies", "The Meaning and Structure of the Seafarer" di Roy F. Leslie, e di un volume italiano, "L'elegia pagana anglosassone" di Aldo Ricci, soprattutto per le traduzioni.
Sia i viaggi dell'Errante che quelli del Navigatore abbondano di scenari aspri connotati dalla sensazione del gelo e della rigidità, e dalla fisicità del ghiaccio, ma mentre l'uno viaggia soprattutto attraverso la terra, il Navigatore si muove per mare. Da qui la felice dimensione di complementarietà delle due elegie, giustamente le più celebri delle otto riportate nell'Exeter Book.
Prima pagina tratta dal manoscritto di Exeter.

Il contenuto dell'elegia si può riassumere così: un io lirico annuncia la potenzialità, quindi l'intenzione, di cantare a proposito di sé stesso e dell'asperità dei suoi viaggi per mare, compiuti in inverno in balia delle intemperie, sperimentando delle difficoltà ignote a chi vive al sicuro e ripetendo più volte questo confronto. Per quanto quella vita sia dura, il poeta -tuttavia, o forse proprio per questa ragione- non può fare a meno di sentire il richiamo del mare.
A questo punto, con un brusco passaggio, il poeta esamina la vita terrena, inevitabilmente destinata a terminare senza che che i beni materiali possano essere portati con sé; la fama, che è l'unica cosa che rimane di un uomo dopo che è morto; l'esaltazione del timor di Dio; le beatitudini del regno dei cieli e la speranza di raggiungerle. Il testo è presente in fondo al post, con l'originale affiancato dalla traduzione di Aldo Ricci.
Ora, proprio la differenza, a primo impatto quasi totale, fra la parte dal verso 1 al 64a e quella dal 64b al 124, ha portato e porta ancora gli studiosi a confutare l'unità dell'elegia, o almeno il fatto che l'autore della prima parte abbia toccato la seconda.
Aldo Ricci, chiamando in campo i critici inglesi e tedeschi a lui precedenti  (parliamo del primo Novecento), ritiene ormai assodato che si tratti di due autori diversi, di cui o il secondo o un terzo avrebbe unito i lavori nel testo pervenutoci, ma Leslie, scrivendo negli anni '80, esordisce informandoci che l'unità di The Seafarer e la paternità di un unico poeta sono ormai accertate.
Stanti così le cose, nell'analisi dell'elegia che mi appresto ad eseguire -basandomi sulle traduzioni in italiano e in inglese dei saggisti di cui mi sono avvalso e non intervenendo sul testo in anglosassone salvo che occasionalmente, su termini di cui conosco il significato- cercherò di evidenziare le prove della tesi degli studiosi "pro-unità", vale a dire la presenza di elementi cristiani anche nella prima parte è il suo parallelismo con la seconda, di cui, in quest'ottica, la prima sarebbe un'immagine metaforica.

L'inizio dell'elegia, ("Posso cantare un vero canto di me stesso") riprende le battute iniziali di altre opere affini, come il "Lamento della Sposa", altra elegia ("Canto questa canzone di me miserrima"). L'autobiografismo, spiega il saggio di Leslie, si lega all'uso degli scrittori anglosassoni di esprimersi sempre in prima persona, anche quando si riferiscono a situazioni dove non sono presenti cronisti umani (viene citato il caso di un assedio raccontato dalla città che lo subisce). Vedremo però più avanti come questo metta in relazione l'elegia con un altro genere letterario, che per ora non è il caso di nominare.
La descrizione dei fenomeni naturali tende all'effetto più che al realismo, ricorda la descrizione del paesaggio invernale dell'Errante ("disperato, oppresso dagli anni, al di là delle onde ghiacciate", verso 24, "vede cadere la brina e la nave mista alla grandine", 48), torna ben due volte sulla grandine (vv. 17 e 32), ci suggestiona romanticamente spingendo la nostra fantasia verso il Mare del Nord, e ci lascia con una domanda: perché si trova lì?
Ricorre tre volte, in questa prima parte, un confronto tra i rigori del viaggio per mare e la vita sulla terraferma di altri uomini (o forse di un altro uomo in particolare, non lo sappiamo): "Questo non sa colui/ a cui è concesso vivere felicemente sulla terra ferma,/ come in tristezza io m'indugiassi in inverno/ sul mare gelato, sulla via dell'esilio" (vv. 12-14), "Ben poco dunque, colui che fruisce delle gioie della vita/ e nessun dolore ha sofferto nelle città/ ed è altero e riscaldato dal vino, ben poco egli può credere come spesso/ affranto io dovessi trattenermi sulle vie dell'oceano" (27-30) e "Questo non sa l'eroe [beorn, che però può significare anche "l'uomo", ndC], il ricco guerriero, che cosa soffrano alcuni di coloro che più lontano di tutti vanno sulle loro vie d'esilio!" (55-57).
L'Errante, o il poeta che scrisse per lui, spiegava, a proposito di chi si trovi, come lui, "senza amici", "il suo destino sono le vie dell'esilio e non gli anelli d'oro,/ un gelido cuore e non i frutti della terra;" (vv. 32-33).
Pare sia da credere che il Navigatore si trovi in esilio. Solo che non è questo il punto su cui è focalizzata l'elegia, non si parla del perché si trovi in esilio, né egli lamenta la perdita della sua vita precedente -come invece avviene in The Wanderer, dove l'io lirico ha perduto il suo signore.
Occorre invece fare caso ai tre passaggi sopra citati: nel primo e nel terzo, l'uomo che vive sulla terraferma -perché gli è concesso- non sa, non conosce le pene della vita sul mare; nel secondo caso l'uomo, che vive a corte, ebbro di vino e altri piaceri, crede poco. Ed ecco che salta all'occhio una più profonda dimensione del confronto.
Al peggiorare del quadro paesaggistico, con la grandine e l'infittirsi delle tenebre, seguono i versi più belli ed emblematici dell'elegia, insieme a degli altri poco più avanti:
Eppure i miei più riposti pensieri
mi agitano ora perché io stesso vada ad esplorare
le profonde correnti, il giuoco delle onde salate;
sempre il desiderio del mio cuore mi spinge
a partire, onde, lontano da qui,
io cerchi le terre degli stranieri.
Perciò non vi è uomo in terra sì gagliardo d'animo,
né sì generoso nei suoi doni, sì valoroso nella sua gioventù,sì ardito nelle sue gesta, sì amato dal suo principe che non abbia sempre la bramosia dei viaggi sul mare, qualunque sia la fortuna che il Signore vorrà concedergli.
Né trova egli gioia nell'arpa o nel ricevere anelli,
né felicità nella sua sposa, né gioia nel mondo,
né in altra cosa alcuna che non nel cozzar delle onde;
sempre languisce chi sospira il mare.
Ci sono dei significati nascosti, che i saggisti hanno indagato e che esporrò anch'io, ma insieme ad essi, forse altrettanto importante, c'è il significato letterale ed esteriore, e lì è espressa altissima poesia, umanità, meraviglia: il moto dell'uomo verso l'ignoto, il superamento dei limiti in cerca di alterità, e il desiderio e l'attrazione che motivano il viaggio. Un desiderio e un attrazione dolorosi, motivo di sospiro: un passaggio autenticamente romantico, il Sehnsucht mille anni prima dello Sturm und Drang. Ma lo è anche sinceramente?
L'analisi di Leslie e di quanti altri leggono in chiave religiosa anche la prima parte dell'elegia ne postula una funzione omiletica: il discorso del poeta è una predicazione rivolta al pubblico, e le immagini del marinaio e del mare sono allegorie dell'uomo e della vita.
L'esilio è dunque la condizione di vita dell'uomo sulla terra, escluso dalla sala del regno dei cieli per via del peccato originale, e oltre il mare attende la dimora della gioia ultraterrena, che pure richiede aspre pene per essere conquistata. Pene ignote a se þe ah lifes wyn gebiden in burgum, l'uomo che ha goduto della vita di città cullato dai piaceri: quello tracciata dal poeta di The Seafarer, almeno in quest'ottica, è un confronto tra la vità mondana e quella ascetica, in esaltazione della seconda.
Pure, i versi 39-47 estendono la portata della predicazione a tutta l'umanità: per quanto ricca e felice possa essere la vita di un uomo sulla terra, egli non è mai dispensato dalle preoccupazioni per il suo seafaring, il viaggio sul mare che qui è viaggio dell'anima. Problematico, poi, è il verso 38, elþeodigra eard gesece , circa il viaggio verso le terre degli stranieri, che a detta del Leslie non si ritrova altrove nella letteratura anglosassone; la sua supposizione è che le terre desiderate dal navigatore siano proprio i luoghi beati del Paradiso.
Ciò per cui è straordinario ai miei occhi leggere queste elegie, e vale anche per questa, è un insieme di informazioni involontarie: i poeti elegiaci si riferiscono continuamente a sale, re, anelli e arpe, immagini comuni per la loro cultura; immagini che conosciamo anche noi, tramandateci grazie a varie fonti e poi ricostruite nelle narrazioni moderne, ma appunto per vie indirette, mentre qui nelle elegie accade un'altra cosa, chi scrive ha vissuto quando questa era la normalità, un fenomeno sociale contemporaneo: riceviamo un messaggio da parte di uomini che conoscevano le sale e i donatori di anelli, uomini che ci trasmettono qualcosa di quel mondo e grazie ai quali sappiamo che esso era vero.

L'inverno non occupa l'interezza dell'elegia, e nei versi 48-49 si ha il ritorno della primavera, col mondo che "risboccia alla vita", poiché esso è soggetto a un ciclo e condotto inesorabilmente a seguire un percorso, che come ogni cosa dovrà finire: onetteð significa, più propriamente, che il mondo scorre e avanza, senza fermarsi; viene anticipato il motivo della caducità dominante nella seconda parte del componimento.
Annunciata dal cuculo giunge anche l'estate, di cui l'uccello è araldo, ma giunge connotata negativamente, un periodo di dolori annunciato da un canto lamentoso; probabilmente perché il cuculo, nelle sue comparse nell'elegia "The Husband's Message" e nelle poesie gallesi, è simbolo della separazione degli amanti, e nel messaggio omiletico del Navigatore ricorda il percorso del mondo verso la fine è forse anche l'imminente partenza del marinaio.
Dopo il terzo confronto tra il marinaio-asceta e l'uomo mondano (55-57) si ha un passaggio che costituisce il momento di più alta poesia insieme a quello ricordato più sopra:
E per questo, fuori del mio petto, la mia anima viaggia
il mio pensiero vaga con le onde del mare
sulla dimora della balena, ben lungi
per la superficie del mondo e torna nuovamente a me
avido e bramoso; l'errante solitario chiama,
sospinge irresistibilmente il mio cuore sulle vie della balena,
sulla distesa del mare. 
Sono versi che ci colpiscono perché paiono personificare la mente, o l'anima, che per l'attrazione suscitata dal mare abbandona il corpo e vola sul mare per poi tornare indietro, impaziente di ripartire: un'enfasi che desta in noi ancora maggiore ammirazione per quest'uomo, lontano nel tempo ma vicino nel cuore.
Indubbiamente l'autore di questi versi è un grande poeta, ma non scrive questi versi secondo un'immaginazione moderna, bensì seguendo la sua, che trae i suoi modelli dai secoli precedenti, quando i popoli anglosassoni, prima dell'evangelizzazione, credevano e praticavano lo sciamanesimo. In quell'ottica era comune immaginare lo spirito abbandonare il corpo, magari muovendosi in forma animale, e gielleð anfloga, che ha causato numerosi problemi di interpretazione e che il Ricci traduce "errante solitario", è per Leslie un "lone-flyer", un volatore, seguendo l'idea di John C. Pope che anfloga stia ad indicare un uccello da preda.
Due volte ricorre in questi versi il kenning, la metafora-epiteto tipica della poesia germanica, in uno dei suoi impieghi più ricorrenti, indicare il mare come luogo delle balene, frequentissimo nel Beowulf. Anche le balene sono instancabili viaggiatrici per mare, connotate però di accezioni religiose spesso negative; di questo parleremo un'altra volta.

La seconda parte dell'elegia, quella dove la connotazione religiosa è esplicita, non deve sembrare meno affascinante della prima -anche se le immagini poetiche più felici sono quelle che abbiamo già visto-, poiché in essa, adattata alla nuova morale cristiana, affiora evidente l'etica pagana germanica: dopo aver espresso sfiducia nei beni terreni, destinati a sparire (vv. 64b-67), il poeta nomina tre possibilità di morte per l'uomo, per malattia, vecchiaia e violenza -una lista affine è presente anch'essa nel Beowulf- e riprende il motivo pagano della vita spesa alla conquista della fama, unica cosa che resti di un uomo quando muore.
Impossibile non riportare qui l'immortale stanza dell'Hávamál:

"Muoiono i parenti, muoiono gli armenti,
tu stesso infine morirai.
So di uno che non muore mai:
la fama che uno si è conquistato."

Nell'omelia del Navigatore, però, c'è un tipo di impresa superiore alle altre, che il cristiano è chiamato a compiere: quella contro i feonda, che significa nemici in generale e demoni, fiend, in questo contesto, e contro il deofle, il diavolo. È allora che egli ottiene che "i figli degli uomini lo lodino dopo/ e le sue lodi continuino quindi con gli angioli/ per sempre -la gloria della vita eterna,/ la gioia con le falangi celesti." (77-80a).
I versi successivi (80b-95) riprendono un altro tema centrale di The Wanderer, e ce lo ricordano profondamente, poiché parlano della decadenza dei tempi, tema tipico delle elegie, e come in the Wanderer, lamentano la mancanza dei donatori d’anelli, re e imperatori (questi ultimi, assenti nel mondo germanico e forse noti grazie alla letteratura latina, sono chiamati con un termine latino, caseras, Cesari), variando, come nota Leslie, il motivo dell'ubi sunt che dominava i famosi versi 92-96 di The Wanderer, cioè non esprimendo la domanda "Dove sono?", ma rispondendo direttamente "Se ne sono andati tutti". Un altro motivo frequente in molte letterature è anche l'indebolimento delle generazioni, presente fin dai poemi omerici, l'idea che il mondo passi nelle mani di uomini via via più deboli sia di corpo che di spirito. Il tutto si riallaccia a quel woruld onetteð del verso 49, il mondo che scorre e che lo fa verso la fine e verso la perdita. L'immagine della gloria del passato che si disperde è paragonata a quella dell'uomo che muore, consumato dall'età, e i versi 95-97 presentano un corpo che una volta persa l'anima non ha più sensibilità, non può "gustare la dolcezza e sentire il dolore,/ né muovere una mano, né pensare con la mente."
Il passaggio seguente (97-102), la sepoltura col ricco corredo d'oro, vede piuttosto una critica della nuova etica alla vecchia: è inutile colmare di beni e oggetti preziosi il tumulo del defunto, che non se ne servirà; più giusto, semmai, sarebbe darli ai bisognosi. I versi 101 e 102, leggendo il corpus anglosassone dopo mille anni, possiamo immaginarli rivolti all'ultimo padrone dell'oro visto all'inizio della terza parte del Beowulf, che tanto si è affannato a proteggerlo ed è morto solo e disperato (a meno di considerare l'idea che dopo la morte si sia trasformato in drago, per la quale vi rimando al mio più recente post su Beowulf).

Arriviamo così all'omelia vera e propria, ai versi in esaltazione del Signore, del Dio dei cristiani, che riassumono la parte precedente dell'elegia, anticipano i toni conclusivi e rivelano due cose molto interessanti, i limiti ancora presenti nella sintesi tra pagano e cristiano e una chiave di lettura, secondo Leslie, per la prima prima parte. "Micel biþ se Meotudes egsa, forþon hi seo molde oncyrreð", "Grande sia il timore di Dio, perché il mondo si trasformerà", il cammino del mondo è qualcosa di davvero urgente e davvero presente nella spiritualità del nostro poeta, è il male e il pericolo che agita la sua epoca e per il quale ci si rivolge a Dio con trepidazione; a Dio va la lode per aver creato ogni cosa (105), e agli uomini vanno le massime (109-112), i precetti del retto comportarsi che ricordano a loro volta i versi gnomici di The Wanderer (versi 65-77). E il Leslie non manca di mettere a confronto questi versi con le poesie anglosassoni manifestamente religiose e con le traduzioni della Bibbia: il verso 107, "Beato è colui che vive umilmente: su lui ricadrà la misericordia dal cielo" è una beatitudine, mentre il verso precedente, "Pazzo è colui che non teme Iddio: la morte lo coglierà inaspettata", è piuttosto una beatitudine al negativo.
Dei versi 113-115a, che il manoscritto presenta lacunosi, Ricci non fornisce la traduzione; Leslie traduce le parti rimaste, da cui deriva un proseguimento del precetto di essere giusti sia verso l'amico che verso il nemico, anche se quest'ultimo ci desidera "pieno di fuoco...su una pira funeraria, un corpo bruciato", con l'ottica delle pene infernali che nelle loro apparizioni sono spesso problematiche, data la differente natura degli inferi germanici (lo stesso vale per i versi a riguardo in Beowulf).
Il verso 115b è "Wyrd biþ swiþre", "Il Fato è più forte". Ecco così, proprio nel cuore di una lezione religiosa, che il poeta non manca di nominare il Wyrd, il destino anglosassone, la forza da cui dipende tutto ciò che accade e per la quale, dulcis in fundo, ho scoperto un anno fa queste elegie, quando ho desiderato comprendere il significato di questa parola e ho trovato il verso di The Wanderer "Wyrd bið ful aræd". Il verso successivo riconosce Dio come "più potente di qualsiasi volontà umana", e negli intenti del poeta anche più in alto del Wyrd, su questo non c'è dubbio; ma il fatto che in questa posizione sia presente la vecchia concezione del destino è indice della sua permanenza nella concezione esistenziale del poeta, e anche qualora, come ritiene Ricci, The Seafarer sia frutto delle interpolazioni di almeno un autore cristiano a un testo a lui precedente non cristiano, anche questo secondo autore non avrebbe eliminato il riferimento al Wyrd.

La chiave di lettura cui accennavo è nei due versi seguenti: "Pensiamo dov'è la nostra dimora/ e quindi studiamo come possiamo arrivarvi". Leslie conclude il saggio immaginando che il poeta abbia dedicato la prima parte dell'esilio al primo interrogativo, dove sia la dimora dell'uomo, cioè la via dell'esilio verso il regno dei cieli, e la seconda al modo in cui raggiungerla, impartendo le sue lezioni a tal scopo. Questi versi hanno così il senso di somma di quelli precedenti e di inizio della conclusione: un invito a "raggiungere l'eterna beatitudine/ dove sta la vita al lato della Divina bontà,/ la giustizia dei cieli!", con un ultima lode rivolta al Creatore, Signore dei Cieli, Iddio eterno.

Siamo sull'Anima del Mostro, e spunti di lettura grotteschi o macabri sono ben accetti, ancor più se motivati.
Nella raccolta di Martin Green fa capolino un saggio di Raymond P. Tripp Jr. intitolato "Odin's Powers and the Old English Elegies", che ho consultato anche per il post di The Wanderer e osserva un dato molto interessante. Un antico genere della poesia germanica, il canto funerario in lode del defunto per propiziare il suo viaggio ultraterreno, presenta delle affinità con alcune parti delle elegie.
Riprodotto anche alla fine del Beowulf, nell'immagine della fanciulla geata che canta durante il funerale dell'eroe, il canto di morte è spesso in prima persona e affidato all'eroe che ripercorre le tappe della sua vita in modo da essere stimato degno di accedere al luogo spirituale "alto", Valhalla o anche Paradiso.
A questo genere viene associato nel saggio un elemento ricorrente sia nella poesia pagana che in quella cristiana, quello dei morti richiamati in vita per raccontare la loro storia.
Odino, col suo uso delle rune, è il dio "necromante" per eccellenza, che rivela nell'Hávamál:

"Conosco un dodicesimo incantamento: se vedo appeso su un albero un morto e intaglio una runa, l'uomo rinviene e parla con me."
mentre nell'Hárbarðsljóð chiama tranquillamente "vecchi uomini che vivono nei boschi" quelli che Thor sa essere morti nelle tombe.
È sempre Odino, nel Völuspá, a evocare la veggente perché racconti l'origine dell'universo e la sua fine, e nel Baldrs Draumar, a rianimare una strega perché gli riveli la sorte di Baldr.
Meno noto è il fatto che, nella poesia anglosassone, anche Dio convoca i morti a raccontare la loro storia. Nel poema Christ, già ricordato in passato su queste pagine, nel momento del Giudizio Universale:

"...si destarono dai morti i figli degli uomini, tutta la razza degli uomini, per decreto di Dio attraverso il Suo maestoso potere, [Egli] comandò loro, ai portatori di parola, di sollevarsi dalle loro tombe di terra."

Il saggio di Tripp mette in luce la differenza tra il risveglio individuale operato da Odino e quello collettivo operato da Dio; possiamo scorgere la dimensione eroica dell'etica germanica, dove ogni uomo combatte per acquisire gloria per sé stesso, contrapposta all'aspirazione alla salvezza di tutta l'umanità del Cristianesimo; quello che ci interessa, in ogni caso, è la frequenza di questo ricorso ai morti e al racconto della loro esperienza nella letteratura germanica in generale e anglosassone in particolare,  che sarebbe interessante vedere confermata da testi pagani di quest'ultima lingua. Purtroppo non ne permangono, e quanto di più vicino abbiamo a quel mondo perduto sono appunto le elegie.
Da questo deriva la continuità di un genere in un altro: il tono di una persona che rimpiange la vita passata non dev'essere molto diverso da quello di un morto che rimpiange la vita -anche se, ricorda Tripp, le death-song germaniche non sono lamenti, ma dichiarazioni consapevoli e orgogliose. Infine, lo spunto suggerito dal saggio è la possibilità che in qualche modo, in qualche fase, in qualche caso, le voci delle elegie siano voci di morti. Voci di rimpianto che parlano di chi sono state e dell'esilio in cui si trovano, convocate dal comando divino perché la loro storia possa ancora aiutare qualcuno.
Lo spunto va opportunamente collocato: se vi è qualcosa di tutto questo nelle elegie, appartiene probabilmente a uno strato antico, magari a forme orali precedenti alla trasmissione scritta, e nel caso di The Seafarer, che non parla di una vita passata quanto del suo presente e del suo futuro, è meno rivelante che nelle altre. Forse è oggi, dopo tutto questo tempo, che le elegie tornano a quell'antico ruolo, oggi che quel mondo è passato e molti l'hanno dimenticato, ma che può ancora raccontarci qualcosa, che ogni volta che lo nominiamo e leggiamo questi versi, gli uomini del passato tornano a parlare con noi.



Seguono il testo di The Seafarer e la sua traduzione.
Occorre precisare che ho in certa misura alterato la traduzione di Ricci: questi ha abbracciato una teoria secondo la quale all'interno dell'elegia si alternano due voci, un vecchio che ha già sperimentato il viaggio per mare e un giovane che ancora deve affrontarlo. Il traduttore ha dunque diviso l'elegia e in alcuni versi ha attribuito la prima metà a una voce e la seconda all'altra. Poiché oggi la maggior parte degli studiosi non segue questa teoria, e fondamentalmente perché Leslie traduce e analizza il verso come espressione di un'unica voce, ho riportato la traduzione di Ricci senza separazioni.
Segnalo anche che, in accordo alle esigenze comportate da un dialogo, in alcuni versi la parola forþon, che solitamente significa "perciò", "pertanto", è resa con "eppure". Traduzioni che non riportino questa divisione danno a forþon il suo significato più tipico.
I versi 113-115a, a causa di alcune lacune del testo, non sono stati tradotti, ma potete leggere il loro contenuto più sopra.

Mæg ic be me sylfum     soðgied wrecan,                 Posso dar voce a un canto verace su me stesso
siþas secgan,     hu ic geswincdagum                        raccontare i miei viaggi; come nei giorni faticosi
earfoðhwile     oft þrowade,                                      spesse volte soffersi ore di strazio,
bitre breostceare     gebiden hæbbe,                          come ebbi a sopportare amare pene del cuore,
gecunnad in ceole     cearselda fela,                          come esplorai con la mia nave molte dimore del dolore 5
atol yþa gewealc,     þær mec oft bigeat                    lo spaventoso cozzare delle onde. Là spesso la faticosa
nearo nihtwaco     æt nacan stefnan,                          guardia notturna mi tratteneva alla prua,
þonne he be clifum cnossað.     Calde geþrungen     quando la nave era sbattuta dai marosi, presso le
[scogliere;                      
wæron mine fet,     forste gebunden                       trafitti dal freddo erano i miei piedi, avvinti dal gelo
caldum clommum,     þær þa ceare seofedun         con catene di ghiaccio; là i tristi pensieri palpitavano 10
hat ymb heortan;     hungor innan slat                   cocenti nel mio cuore; e la fame dilaniava
merewerges mod.     Þæt se mon ne wat                il petto di me stanco del mare. Questo non sa colui
þe him on foldan     fægrost limpeð,                      a cui è concesso vivere felicemente sulla terra ferma,
hu ic earmcearig     iscealdne sæ                           come in tristezza io m'indugiassi in inverno
winter wunade     wræccan lastum,                       sul mare gelato, sulla via dell'esilio, 15
winemægum bidroren,                                                                     privo dei miei cari,
bihongen hrimgicelum;     hægl scurum fleag.     coperto di ghiaccioli: in turbini cadeva la grandine.
þær ic ne gehyrde     butan hlimman sæ,              Là null'altro sentivo che il boato del mare,
iscaldne wæg.     Hwilum ylfete song                   e la gelida onda a volte e il canto del cigno.
dyde ic me to gomene,     ganotes hleoþor           Per mio svago avevo il grido della procellaria; 20
ond huilpan sweg     fore hleahtor wera,              invece del riso degli uomini, il gracchiare degli
[uccelli marini;                
mæw singende     fore medodrince.                     il canto del gabbiano invece dei conviviali banchetti.
Stormas þær stanclifu beotan,     þær him stearn oncwæð,   Là la tempesta si avventava contro gli scogli,
[là rispondeva la rondine marina,         
isigfeþera;     ful oft þæt earn bigeal,                   l'uccello dalle gelide penne; e ben spesso strideva l'aquila
urigfeþra;     nænig hleomæga                              dalle rugiadose penne. Nessuno dei miei cari 25
feasceaftig ferð     frefran meahte.                        poteva consolare l'animo straziato.
Forþon him gelyfeð lyt,     se þe ah lifes wyn      Ben poco dunque, colui che fruisce delle gioie della vita
gebiden in burgum,     bealosiþa hwon,               e nessun dolore ha sofferto nelle città
wlonc ond wingal,     hu ic werig oft                   ed è altero e riscaldato dal vino, ben poco egli può

[credere come spesso       

in brimlade     bidan sceolde.                               affranto io dovessi trattenermi sulle vie dell'oceano. 30
Nap nihtscua,     norþan sniwde,                         Le ombre della notte infittivano; nevicava da settentrione
hrim hrusan bond,     hægl feol on eorþan,         il ghiaccio incatenava la terra, e sulla terra cadeva la
[grandine                         
corna caldast.     Forþon cnyssað nu                   il più freddo dei grani! Eppure i miei più riposti pensieri
heortan geþohtas     þæt ic hean streamas,          mi agitano ora perché io stesso vada ad esplorare
sealtyþa gelac     sylf cunnige --                         le profonde correnti, il giuoco delle onde salate; 35
monað modes lust     mæla gehwylce                 sempre il desiderio del mio cuore mi spinge
ferð to feran,     þæt ic feor heonan                     a partire, onde, lontano da qui,
elþeodigra     eard gesece --                                io cerchi le terre degli stranieri.
Forþon nis þæs modwlonc     mon ofer eorþan, Perciò non vi è uomo in terra sì gagliardo d'animo,
ne his gifena þæs god,     ne in geoguþe to þæs hwæt, né sì generoso nei suoi doni, sì valoroso nella
[sua gioventù 40                  
ne in his dædum to þæs deor,     ne him his dryhten to þæs hold, sì ardito nelle sue gesta, sì amato
[dal suo principe             
þæt he a his sæfore     sorge næbbe,                  che non abbia sempre la bramosia dei viaggi sul mare,
to hwon hine Dryhten     gedon wille.               qualunque sia la fortuna che il Signore vorrà concedergli.
Ne biþ him to hearpan hyge     ne to hringþege Né trova egli gioia nell'arpa o nel ricevere anelli,
ne to wife wyn     ne to worulde hyht                 né felicità nella sua sposa, né gioia nel mondo, 45
ne ymbe owiht elles     nefne ymb yða gewealc; né in altra cosa alcuna che non nel cozzar delle onde;
ac a hafað longunge     se þe on lagu fundað.     sempre languisce chi sospira il mare.
Bearwas blostmum nimað,     byrig fægriað,     I boschi si vestono di germogli, i monti si abbelliscono,
wongas wlitigað,     woruld onetteð:                  le pianure si adornano, il mondo risboccia alla vita;
ealle þa gemoniað     modes fusne                     e tutto sprona l'audace d'animo, 50
sefan to siþe     þam þe swa þenceð                   il cuore di chi così vuole, al viaggio,
on flodwegas     feor gewitan.                            a partire per lontane plaghe sulle vie del mare.
Swylce geac monað     geomran reorde;            Così pure il cucùlo ammonisce con malinconica voce,
singeð sumeres weard,     sorge beodeð             il guardiano dell'estate canta e predice amari dolori
bitter in breosthord.     Þæt se beorn ne wat,      nel cuore. Questo non sa l'eroe, 55
sefteadig secg,     hwæt þa sume dreogað          il ricco guerriero, che cosa soffrano alcuni di coloro
þe þa wræclastas     widost lecgað.                    che più lontano di tutti vanno sulle loro vie d'esilio!
Forþon nu min hyge hweorfeð     ofer hreþerlocan, E per questo, fuori del mio petto, la mia anima viaggia
min modsefa     mid mereflode,                         il mio pensiero vaga con le onde del mare
ofer hwæles eþel     hweorfeð wide,                  sulla dimora della balena, ben lungi 60
eorþan sceatas --     cymeð eft to me                 per la superficie del mondo e torna nuovamente a me
gifre ond grædig;     gielleð anfloga,                 avido e bramoso; l'errante solitario chiama,
hweteð on hwælweg     hreþer unwearnum       sospinge irresistibilmente il mio cuore sulle vie della balena,
ofer holma gelagu.     Forþon me hatran sind    sulla distesa del mare. E quindi assai più mi sono care
Dryhtnes dreamas     þonne þis deade lif           le delizie del Nostro Signore che questa morta vita 65
læne on londe.     Ic gelyfe no                            transitoria sulla terra: io non credo
þæt him eorðwelan     ece stondað.                    che le ricchezze terrene dureranno eterne.
Simle þreora sum     þinga gehwylce                 Sempre è dubbio fino all'ora
ær his tiddege     to tweon weorþeð:                  del suo arrivo, quale di tre cose -
adl oþþe yldo     oþþe ecghete                            il morbo, la vecchiaia o la violenza - 70
fægum fromweardum     feorh oðþringeð.         torranno la vita ai condannati che dovranno partire da
[questo mondo.         
Forþon biþ eorla gehwam     æftercweþendra    E perciò questa sarà per ogni guerriero la lode dei vivi,
lof lifgendra     lastworda betst,                         di coloro che parleranno dopo la sua morte, la migliore
[fama postuma:         
þæt he gewyrce,     ær he on weg scyle,            che prima che debba partirsene da questa vita, egli faccia sì,
fremum on foldan     wið feonda niþ,                con atti benefici contro la malizia dei Demoni 75
deorum dædum     deofle togeanes,                   e con gesta valorose contro il Diavolo,
þæt hine ælda bearn     æfter hergen,                 che i figli degli uomini lo lodino dopo
ond his lof siþþan     lifge mid englum              e le sue lodi continuino con gli angioli
awa to ealdre,     ecan lifes blæd,                       per sempre - la gloria della vita eterna,
dream mid dugeþum.     Dagas sind gewitene,  la gioia con le falangi celesti. Passato è il tempo 80
ealle onmedlan     eorþan rices;                          e [sono passate] tutte le pompe del regno terrestre;
nearon nu cyningas     ne caseras                       ora più non vi sono né re né imperatori,
ne goldgiefan     swylce iu wæron,                    né distributori di oro, come v'erano un tempo,
þonne hi mæst mid him     mærþa gefremedon quando, l'uno contro l'altro, compivano le gesta più gloriose
ond on dryhtlicestum     dome lifdon.                e vivevano coperti di gloria, nel fasto più principesco; 85
Gedroren is þeos duguð eal,     dreamas sind gewitene; caduta è la falange di guerrieri, passate sono le gioie;
wuniað þa wacran     ond þæs woruld healdaþ,  rimangono i deboli e posseggono la terra,
brucað þurh bisgo.     Blæd is gehnæged,           e solo a stento ne fruiscono. La gloria è distrutta,
eorþan indryhto     ealdað ond searað,                la nobiltà della terra invecchia e sfiorisce,
swa nu monna gehwylc     geond middangeard. come ogni uomo che è sulla terra; 90
Yldo him on fareþ,     onsyn blacað,                   la vecchiaia lo sorprende, la sua faccia impallidisce,
gomelfeax gnornað,     wat his iuwine,               e, canuto, egli si lamenta: ha visto i suoi antichi amici,
æþelinga bearn     eorþan forgiefene.                  i figli di nobili, consegnati alla terra.
Ne mæg him þonne se flæschoma     þonne him þæt feorg losað Né quando l'anima se ne diparte può
[questa veste terrena                   

ne swete forswelgan     ne sar gefelan                 gustare la dolcezza e sentire il dolore, 95
ne hond onhreran     ne mid hyge þencan.           né muovere una mano, né pensare con la mente.
Þeah þe græf wille     golde stregan                     Benché egli volesse ricoprire d'oro
broþor his geborenum,     byrgan be deadum       la tomba del proprio fratello, e seppellire con i morti congiunti
maþmum mislicum,     þæt hine mid wille,          in tesori svariati ciò che egli vorrebbe con sé,      
ne mæg þære sawle     þe biþ synna ful                mai potrà l'oro, nell'anima carca di peccati, 100
gold to geoce     for Godes egsan,                        tener luogo del timore di Dio -
þonne he hit ær hydeð     þenden he her leofað.   quell'oro ch'egli tenne nascosto mentre qui viveva.
Micel biþ se Meotudes egsa,     forþon hi seo molde oncyrreð; Grande sia il timore di Dio, perché il mondo
[si trasformerà;             
se gestaþelade     stiþe grundas,                             Egli creò le solide basi della terra,
eorþan sceatas     ond uprodor.                               la superficie del mondo ed i cieli. 105
Dol biþ se þe him his Dryhten ne ondrædeþ:     cymeð him se deað unþinged. Pazzo è colui che non teme
[Iddio: la morte lo coglierà inaspettata.
Eadig bið se þe eaþmod leofaþ;     cymeð him seo ar of heofonum. Beato è colui che vive umilmente:
[su lui ricadrà la misericordia dal cielo;
Meotod him þæt mod gestaþelað,     forþon he in his meahte gelyfeð. il Creatore gli rinsalda l'anima perché
[egli crede nella Sua potenza.      
Stieran mon sceal strongum mode,     ond þæt on staþelum healdan, Si deve frenare la volontà ostinata
[e guidarla rigidamente
ond gewis werum,     wisum clæne.                       ed essere sinceri verso gli uomini, puri verso le donne. 110
Scyle monna gehwylc     mid gemete healdan       Ognuno deve saper tenere la misura
wiþ leofne ond wið laþne     * * * bealo.               verso l'amico e verso il nemico
þeah þe he hine wille     fyres fulne
oþþe on bæle     forbærnedne
his geworhtne wine,     Wyrd biþ swiþre,                                          il Destino è più forte. 115
Meotud meahtigra,     þonne ænges monnes gehygd. Iddio è più potente di qualsiasi volontà umana.
Uton we hycgan     hwær we ham agen,                 Pensiamo dov'è la nostra dimora
ond þonne geþencan     hu we þider cumen;           e quindi studiamo come possiamo arrivarvi
ond we þonne eac tilien     þæt we to moten           e cerchiamo anche noi di poter raggiungere
in þa ecan     eadignesse                                          l'eterna beatitudine, 120
þær is lif gelong     in lufan Dryhtnes,                    dove sta la vita al lato della Divina bontà,
hyht in heofonum.     Þæs sy þam Halgan þonc      la delizia dei cieli! Sien dunque rese grazie al Creatore,
þæt he usic geweorþade,     wuldres Ealdor            ché Egli, il Signore dei Cieli, ci ha onorato,
ece Dryhten,     in ealle tid. Amen.                          Iddio eterno, per tutti i secoli! Amen!

The Seafarer - Ezra Pound
Ezra Pound nel 1913.

Posto qui di seguito anche il testo, riportato dal sito Poetry Foundation, della traduzione di The Seafarer scritta da Ezra Pound (1885-1972) e pubblicata sulla rivista New Age il 30 novembre 1911. Nel rimuovere totalmente gli elementi cristiani del testo, la versione di Pound contiene solo i primi 99 versi, ricchi di allitterazioni come tipico nella poesia anglosassone.

May I for my own self song's truth reckon,
Journey's jargon, how I in harsh days          
Hardship endured oft.                                      
Bitter breast-cares have I abided,
Known on my keel many a care's hold,
And dire sea-surge, and there I oft spent
Narrow nightwatch nigh the ship's head
While she tossed close to cliffs. Coldly afflicted,
My feet were by frost benumbed.
Chill its chains are; chafing sighs
Hew my heart round and hunger begot
Mere-weary mood. Lest man know not
That he on dry land loveliest liveth,
List how I, care-wretched, on ice-cold sea,
Weathered the winter, wretched outcast
Deprived of my kinsmen;
Hung with hard ice-flakes, where hail-scur flew,
There I heard naught save the harsh sea
And ice-cold wave, at whiles the swan cries,
Did for my games the gannet's clamour,
Sea-fowls, loudness was for me laughter,
The mews' singing all my mead-drink.
Storms, on the stone-cliffs beaten, fell on the stern
In icy feathers; full oft the eagle screamed
With spray on his pinion.
Not any protector
May make merry man faring needy.
This he little believes, who aye in winsome life
Abides 'mid burghers some heavy business,
Wealthy and wine-flushed, how I weary oft
Must bide above brine.
Neareth nightshade, snoweth from north,
Frost froze the land, hail fell on earth then
Corn of the coldest. Nathless there knocketh now
The heart's thought that I on high streams
The salt-wavy tumult traverse alone.
Moaneth alway my mind's lust
That I fare forth, that I afar hence
Seek out a foreign fastness.
For this there's no mood-lofty man over earth's midst,
Not though he be given his good, but will have in his youth greed;
Nor his deed to the daring, nor his king to the faithful
But shall have his sorrow for sea-fare
Whatever his lord will.
He hath not heart for harping, nor in ring-having
Nor winsomeness to wife, nor world's delight
Nor any whit else save the wave's slash,
Yet longing comes upon him to fare forth on the water.
Bosque taketh blossom, cometh beauty of berries,
Fields to fairness, land fares brisker,
All this admonisheth man eager of mood,
The heart turns to travel so that he then thinks
On flood-ways to be far departing.
Cuckoo calleth with gloomy crying,
He singeth summerward, bodeth sorrow,
The bitter heart's blood. Burgher knows not —
He the prosperous man — what some perform
Where wandering them widest draweth.
So that but now my heart burst from my breast-lock,
My mood 'mid the mere-flood,
Over the whale's acre, would wander wide.
On earth's shelter cometh oft to me,
Eager and ready, the crying lone-flyer,
Whets for the whale-path the heart irresistibly,
O'er tracks of ocean; seeing that anyhow
My lord deems to me this dead life
On loan and on land, I believe not
That any earth-weal eternal standeth
Save there be somewhat calamitous
That, ere a man's tide go, turn it to twain.
Disease or oldness or sword-hate
Beats out the breath from doom-gripped body.
And for this, every earl whatever, for those speaking after —
Laud of the living, boasteth some last word,
That he will work ere he pass onward,
Frame on the fair earth 'gainst foes his malice,
Daring ado, ...
So that all men shall honour him after
And his laud beyond them remain 'mid the English,
Aye, for ever, a lasting life's-blast,
Delight mid the doughty.
Days little durable,
And all arrogance of earthen riches,
There come now no kings nor Cæsars
Nor gold-giving lords like those gone.
Howe'er in mirth most magnified,
Whoe'er lived in life most lordliest,
Drear all this excellence, delights undurable!
Waneth the watch, but the world holdeth.
Tomb hideth trouble. The blade is layed low.
Earthly glory ageth and seareth.
No man at all going the earth's gait,
But age fares against him, his face paleth,
Grey-haired he groaneth, knows gone companions,
Lordly men are to earth o'ergiven,
Nor may he then the flesh-cover, whose life ceaseth,
Nor eat the sweet nor feel the sorry,
Nor stir hand nor think in mid heart,
And though he strew the grave with gold,
His born brothers, their buried bodies
Be an unlikely treasure hoard.

Scoperte in tempi abbastanza recenti, le elegie non hanno influenzato la letteratura medievale e moderna come altri testi più o meno antichi; vedremo tra poco un autore molto rilevante che a questo fa eccezione, e abbiamo già nominato Ezra Pound. Ciascuna di esse, però, tocca temi pregnanti e slegati dal tempo, e The Seafarer, pur nelle finalità omiletiche del poeta, riguarda qualcosa di molto intimo per l'uomo, e cioè il suo rapporto col mare.
Il mare, temuto e ammirato come tutto ciò che è grande, luogo e simbolo del divino, che invita e che distrugge chi risponde al suo invito, è banco di prova di uomini ed eroi da quando esistono le storie, nella misura in cui le storie sono sin dal principio ricerche, esperienze di scoperta e arricchimento, cui non si perviene mai senza il sacrificio e il dolore. La nostra stessa immagine di tensione oltre il limite, di bisogno di conoscenza, di eroismo come superamento di sé, è quella di Odisseo/Ulisse, che è anche la mia immagine dell'Uomo, colui "che sul mare patì molti dolori".

Già nel post su The Wanderer abbiamo visto che Tolkien, oltre a conoscere bene questi testi, abbia inserito l'elegia dell'Errante in una poesia del Signore degli Anelli, attraverso il celebre verso "Dove sono il cavallo e il cavaliere?".
Ora è tempo di cercare in Tolkien il marinaio, che troviamo addirittura in versi scritti in anglosassone e affidati a uno dei primi personaggi del legendarium, l'Eriol protagonista del viaggio raccontato in "The Lost Tales", scritto a partire dal 1917, abbandonato nelle successive stesure del Silmarillion. In "The Lost Road", uno dei volumi della "History of the Middle-Earth", Christopher Tolkien inserisce questi versi, fornendone una traduzione in inglese. Il libro non è mai stato tradotto in italiano, la terza versione è mia.

Monað módes lust mid mereflóde
forð tó féran, þæt ic feor heonan
ofer héan holmas, ofer hwæles eðel
elþéodigra eard geséce.
Nis me tó hearpan hyge ne tó hringþege
ne tó wífe wyn ne tó worulde hyht
ne ymb ówiht elles nefne ymb ýða gewealc.

[The desire of my spirit urges me to journey forth over the flowing sea, that far hence across the hills of water and the whale's country I may seek the land of strangers. No mind have I for harp, nor gift of ring, nor delight in women, nor joy in the world, nor concern with aught else save the rolling of the waves.]

"Il desiderio del mio spirito mi spinge a viaggiare lontano oltre il mare ondoso, sì che lontano sulle colline d'acqua e il paese della balena possa cercare la terra degli stranieri. Non ho pensiero per l’arpa, per il dono di anelli, né piacere per le donne, né gioia nel mondo, né preoccupazione per nient'altro che l'infrangersi delle onde."
Eriol, il cui nome diviene poi Ælfwine, è il marinaio umano che in un'antica Inghilterra parte alla ricerca di nuove storie e raggiunge l'isola di Tol Eressëa, dimora di Elfi che gli raccontano le storie dei Tempi Remoti.

Bibliografia

L'elegia pagana anglosassone, Aldo Ricci, G. C. Sansoni, Firenze, 1921.
The Old English Elegies, a cura di Martin Green, Fairleigh Dickinson University, 1983.

Navigai tra i ghiacci e la grandine, con la sola compagnia dei gabbiani e delle sterne, cercando la divinità che Gojira aveva detto che avrei trovato. Nel canto del mare riconobbi le voci di Ulisse, di Beowulf, di Eärendil e di quanti avevano inseguito il loro destino tra i flutti, e composi a mia volta il mio, sperando che alla fine del viaggio qualcuno l'avrebbe potuto ascoltare.
Dopo sette giorni vidi uno spruzzo in lontananza, e poi un altro in risposta; forme oscure scorrevano sotto la mia barca, grandi abbastanza da gettare il mio cuore nello sgomento: avevo trovato la via delle balene. Sembravano seguire un punto in lontananza. Presto nuotarono così fitte da formare un tappeto sul mare, ma intorno a me continuarono a lasciare spazio, perché la mia barca non si ribaltasse.
E vidi che il cielo spalancava un varco tra le nubi, e gli angeli, ancora una volta, mostrarsi a me nella loro luce distante. Alcuni di loro scesero dal cielo e volarono verso il mare, e i più erano simili a piccole luci, visti da lontano, ma poi ne discesero altri, più grandi, e a vederli somigliavano alle balene; così, sotto il dorso del mare, anche le balene somigliavano agli angeli.
Infine vidi un'isola. Era illuminata dalla luce del cielo, e le balene parevano indicarmela. Approdai, grato di essere finalmente a terra. Fu solo dopo molte ore che l'isola iniziò a muoversi.