giovedì 27 aprile 2017

Beowulf III - Elegie dei signori degli anelli

Sono passati un anno, sette mesi e cinquanta post da quando è cominciata questa storia, nel settembre 2015, con quello che intitolai "Post 0", in cui dichiaravo la premessa teorica del discorso che sarebbe seguito e la firmavo con l'immagine di Beowulf che lottava con Grendel. Quell'immagine, se il discorso è riuscito a centrare il bersaglio, si sarà capito che era lì per mostrare Grendel. Pur senza togliere nulla a Beowulf.
Beowulf e Hroðgar col braccio di Grendel. Anche per questo
 post, mi affiderò alle illustrazioni del grande John Howe.
Non era scontato arrivare a cinquanta post, e dunque ho voluto celebrarlo. E ora che ho superato questo piccolo traguardo e sto continuando, voglio partire nuovamente dal Beowulf: non solo per quell'inizio, ma perché dopo i primi tre post, per molti versi introduttivi, Beowulf è stato il primo argomento su cui ho scritto. Quell'anno, per l'appunto, lo stavo leggendo per la prima volta, avevo scoperto la vera storia, la lingua in cui era scritta, e tutto ciò che avveniva fra i tre scontri nei quali si snoda la storia. 
La prima volta che lessi il nome Beowulf fu a otto o nove anni, nel libro "Nel Regno della Fantasia" di Geronimo Stilton; per quanto sminuiti, quei libri per bambini sono letture piacevolissime, grazie alle quali ho scoperto una quantità smisurata di parole e numerose storie. Dato che lì si parlava di come il Beowulf abbia ispirato i lavori di Tolkien, mi sembrò subito importante, e fui parimenti catturato dalla storia proprio per la predominanza che avevano i mostri.
Per tale motivo, pochi anni dopo, volli portarmi a casa, non appena lo vidi, una versione illustrata che trovai in libreria. I disegni (l'illustratrice dell'edizione italiane è Eva Rasano) di un Grendel oscuro, gigantesco e dallo sguardo crudele mi mettevano una certa inquietudine, ma ancora maggiore era quella trasmessa dal drago, con i giganteschi occhi gialli tagliati dalla sottile pupilla verticale. Rimasi un po' perplesso: il libro era scritto in prosa, e benché non sapessi che Beowulf è scritto in versi, avevo l'impressione che la vera opera fosse stata riassunta.
Copertina del libro di Kevin Crossley-Holland.
Apprezzo oggi quel libro più di allora: non solo fu un approccio alla materia, grazie al quale potevo già dire di conoscere la storia, ma fu una mano che mi veniva tesa, più o meno direttamente, da alcuni amici. L'autore, Kevin Crossley-Holland, ha scritto altri adattamenti per ragazzi delle letterature medievali, oltre ad aver tradotto in inglese vari testi anglosassoni tra cui lo stesso Beowulf, e ad incoraggiarlo nel suo lavoro, tanti anni fa ad Oxford, fu proprio il professor Tolkien. 
Nella sua versione, a differenza del poema, la storia inizia alla corte di Hygelac, re dei Geati (piuttosto che dai Danesi), con un uomo molto vecchio che ha una lunga barba e un occhio solo. L'uomo si presenta come Gangleri, che significa "Viandante", e gli viene chiesto di raccontare una storia: il vecchio evoca allora le vicende dei Danesi di Hroðgar, di Grendel e del suo flagello, e questo sprona Beowulf a partire per compiere la sua impresa. Il resto procede come nel poema, con passi che ne sono una fedele traduzione e l'omissione delle storie di contorno citate nel poema, nonché di dettagli come l'uccisione di Unferð dei propri fratelli. Il vecchio dice a Beowulf, all'inizio del libro. che la sua è una storia vera, una storia del passato, del presente e del futuro. "Come può essere vera se è una storia del futuro?" domanda il Geata. "Perché non è ancora finita", gli risponde il viandante, aggiungendo "Sarai tu a finirla". Il fatto che alla fine del libro, durante il funerale di Beowulf, il vecchio fosse presente e dicesse "È finita. Adesso la storia è finita. E sei stato tu a concluderla", mi pareva strano fino a un certo punto, dato che le fiabe mi avevano abituato a fatti un po' insoliti. Solo l'anno scorso ho realizzato di chi si trattava, che Gangleri è un altro dei nomi di Odino, e che il Padre di Tutto era presente in quel libro, a indicare a Beowulf la sua strada, e anche, vorrei osare, a me la mia.

Quando ho letto il vero Beowulf, tradotto da Ludovica Koch con testo originale a fronte, pensavo fosse il punto di arrivo di quel percorso: leggevo infine questa storia che mi piaceva da bambino, che ha ispirato il mio autore preferito, e che resta l'unica opera della letteratura -almeno occidentale- a essere incentrata sui mostri.
Dopo averlo riletto in questi giorni, ho realizzato che quello era l'inizio di quello che è venuto dopo.
Beowulf, dopo aver accompagnato la nascita dell'Anima del Mostro, è rimasto fermo nella mia mente, come un trono in fondo a una sala dell'idromele, mentre mi dedicavo a tutto il resto. Quando leggevo le kenningar (figure retoriche) della poesia germanica, quando trovavo altre sale con un re circondato da un fidato comitatus di guerrieri, quando la scorsa estate ho scoperto le elegie anglosassoni e ho cominciato ad apprenderne la lingua, il Beowulf era sempre lì, e ad esso rapportavo ciò che scoprivo. E con l'esperienza acquisita in un anno e mezzo, vedo cose che prima non vedevo.
La prima di queste cose, è una bellezza che non coglievo. Coglievo la gloria, la furia dei combattimenti, e la prima lettura mi aveva rivelato anche la forza dei sentimenti dei personaggi -e di uno su tutti, quello a metà strada fra la lealtà e l'amore che sta alla base dei legami feudali e che viene trasmesso dai dialoghi di Beowulf con Hroðgar e Hygelac, quando loro sono re, e poi Wiglaf e Beowulf quando il re è lui. Ma non coglievo, poiché ne ho realizzato la mancanza solo dopo, come il poeta rievochi, con ammirazione e nostalgia, la dimensione eroica dei guerrieri e della sala: essi procedono sempre coperti dalla cotta di maglia, scintillante, ornata, e dall'elmo coperto dai fregi a forma di cinghiale, mentre al fianco le loro spade hanno l'elsa che termina in un anello e sono ornate da motivi a serpentina. Il convivio degli uomini è nobile, regale, sommo, ognuno di loro fa parte di quell'assemblea perché ne è meritevole. La sala dell'idromele è teatro e simbolo dei rituali e del prestigio di questa aristocrazia guerriera, il cui intrattenimento principale, durante queste feste, è la poesia, una poesia orale cui tutti si dedicano, attingendo ciascuno a un bagaglio collettivo di ricordi di imprese e grandi eroi, impiegando le combinazioni artistiche della parola nei propri canti; ed emerge tra loro lo scop, lo scaldo, che racconta storie importanti cui tutti prestano orecchio, e fra esse la più importante, quella del sommo eroe germanico e della sua vittoria contro il drago, che nel Beowulf è Sigemund (Sigmund), ma nell'Edda e nella saga dei Volsunghi è suo figlio, Sigurðr.
Porta di Heorot, John Howe.

Questa bellezza è accompagnata, e resa insieme più bella e più triste, dal tono con cui viene rievocata: quello della nostalgia.
Ancor più che poema epico o anche eroico, come dicono Tolkien e non solo, il Beowulf andrebbe letto come un poema elegiaco, il ricordo di un uomo che per noi vive in un passato remoto, che racconta di quello che anche per lui è un passato remoto e ormai svanito.

Uno dei momenti elegiaci più vicini a The Wanderer viene affidato, nella parentesi che viene aperta per raccontare la storia del tesoro e del drago, dall'ultimo discendente dell'antica stirpe che aveva radunato gli ori, "trecento" (spesso in poesia i numeri non indicano una quantità precisa, ma semplicemente grande) anni prima che la coppa fosse rubata. Dopo aver portato, il "custode degli anelli" (kenning che in seguito indica anche il drago), tutte le ricchezze dei conti in una grotta, dice così:

«Terra, conserva tu,
adesso che gli eroi   non possono più farlo,
le proprietà dei conti.   Pensa, un tempo da te
sono state cavate,   queste ricchezze.
La morte in guerra,   malanno temerario
dell'esistenza, ha colto   ognuno degli uomini
della mia nazione,   che hanno abbandonato
la vita, [ma] hanno visto   i piaceri di corte.
E adesso, chi cinge   la spada, chi lustra
il boccale laminato, la ricca coppa da bere?
La mia gente è fuggita   altrove. L'elmo duro,
intarsiato d'oro,   perderà le sue lamine.
Dorme, chi lo lustrava,   chi avrebbe lucidato
la maschera di guerra.   Così, la veste bellica,
che aveva saggiato   in battaglia, al di sopra
del cozzo degli scudi,   il morso dei ferri,
si sfascia, come [si sfascia]   il guerriero. La cotta di anelli
non può più andarsene in giro,   accompagnando in battaglia
il capitano, cingendo   la vita degli eroi.
È scomparso il piacere   dell'arpa, il diletto
del legno sonoro;   non vola più per la sala
il bravo falco, o il cavallo   veloce scalpita più,
alle sue poste   dentro la rocca.
Una mala morte   ha scacciato di qui
molte specie viventi».
(v. 2247 - 2266)

Gli fa eco, prima del combattimento, il vecchio re Beowulf, che ripercorre la propria vita e le proprie imprese, con ampio spazio sulle vicissitudini della stirpe regale dei Wederas, e dice, a proposito del lutto del re Hredhel per la morte del figlio Herebeald:

«Il cavaliere dorme,
sta nel sepolcro, il guerriero.   Non c'è più il suono dell'arpa,
né, nelle stanze, il diletto   che c'era in altri tempi».
(v. 2457 - 2459)

Quanto sono simili questi versi a quelli del vagabondo che rievoca la sua corte?

"Dov'è il cavallo? Dov'è il giovane guerriero? Dov'è il dispensatore di tesori?
Dov'è la sala delle feste? Dove sono le gioie dei banchetti?
Ah, la coppa risplendente! Ah, il guerriero nella sua armatura!
Ah, la gloria del principe! Com'è passato quel tempo
scomparso nel buio della notte, come se non fosse mai stato!"

Il poeta celebra un tempo e una società che sente già lontani, e benché questi e gli uomini che li popolano siano pagani, non può fare a meno di ammirarli. La sua decisione di dare connotati cristiani agli uomini -e pagani ai mostri-, non va vista come una violenza sulla matrice originaria della leggenda, ma come un'esigenza della cultura cui appartiene. Alla sua formazione e all'influenza della letteratura classica nell'Inghilterra altomedioevale sono invece dovuti elementi di stile, di cui uno degli esempi più celebri è la descrizione della palude in cui vivono Grendel e sua madre  (v. 1357 - 1367), derivante dalla Visio Pauli, a sua volta derivante dal VI libro dell'Eneide. Virgilio, principale modello epico dall'epoca romana all'intero Medioevo, è fortemente sentito anche dal poeta del Beowulf.

A questi, come si apprende leggendo il saggio del professor Tolkien "The monsters and the critics" ("I mostri e i critici"), molta critica ha imputato la colpa di un grave difetto di forma: dettagli storici, politici, informazioni su episodi ben noti agli ascoltatori come le storie di Finn ed Hengest e della battaglia di Finnsburg, o di Ingeld, che sarebbero di grande interesse per meglio contestualizzare la storia e soprattutto per conoscerne l'ambientazione, sono accennati, elementi di sfondo che compongono un'ambientazione, mentre lo spazio principale è dato agli scontri con gli orchi e con il drago, di scarso interesse per gli studiosi. L'affermazione più citata dai critici per evidenziare questo aspetto, proveniente da "The Dark Ages" (1904) di W. P. Ker,, recita che tale sproporzione "pone al centro l'irrilevante e ai margini le cose gravi", ("puts the irrelevances in the centre and the serious things on the outer edges").
Il professor Tolkien, amico dei mostri, estimatore degli orchi e amante dei draghi, dedica gran parte del saggio a dimostrare l'erroneità di tali concetti, non solo in quanto una simile distinzione tra rilevante e irrilevante deriva da un punto di vista moderno, laddove gli orchi e i draghi potevano risultare interessanti nelle corti della Scandinavia e della Britannia medioevali, presso le quali le storie di Finn e Ingeld erano probabilmente note e magari raccontate anche in altre storie (la storia di Finn ed Hengest, per esempio, è tramandata da un frammento in anglosassone che ne porta il nome, e sul quale il Tolkien filologo lavorò approfonditamente). Dopodiché, passa ad osservare come si presentino quei mostri e cosa rappresentino. Non posso che consigliare di leggere il saggio per saperne di più.
Dei mostri con uno spazio così esteso in un'opera letteraria così importante e di così alto valore sono, per chi si curi di loro, una vera benedizione. Bene si comprende, dopo aver letto questo poema, quanto materiale e quante influenze avesse il professore dalla sua parte per la sua creazione mitopoietica (ovviamente frutto della conoscenza di moltissime opere, ma ora come ora mi limito a cogliere quelle presenti qui).

Di Grendel, delle sue dimensioni e del suo essere discendente di Caino, ho detto qualcosa del primo post. Grendel rappresenta paure e manifestazioni di una cultura antica, eppure non riesco a non guardarlo con occhi moderni e provare, in parte, simpatia per lui.
Grendel, dalla graphic novel (2015) di David Rubín con i testi di Santiago García
Il suo nome (è l'unico dei mostri ad avere un nome proprio) è di difficile comprensione. Le possibilità sono grynde, "abisso", grindangrindelgrennian (tutti verbi che significano digrignare i denti) e groen ("verde", forse in quanto appartenente a una razza mostruosa come i troll, almeno in un materiale precedente al poema), da cui grendles e grendlas, che potrebbero essere i nomi che lo indicavano in precedenza (rispettivamente "bugie verdi" e "piedi verdi"). Lui e sua madre vengono chiamati gæst, che può significare straniero o anche fantasma. Vi è un passo, tra il verso 100 e il 115, nei quali viene presentato il mostro, un passo che Tolkien, in una nota contenuta nel "Beowulf" curato e pubblicato nel 2014 da Christopher Tolkien, ipotizza essere stato aggiunto dal poeta in un momento successivo a una prima stesura, in quanto spezza l'azione tra l'apparizione di Grendel e il suo attacco ai Danesi, in cui si racconta la storia di Caino e si fanno discendere da lui le creature malvage: gli eotenas, gli ylfe, gli orcneas e quei gigantas (calco dal latino) che fecero guerra a Dio ne furono sconfitti. Come pare comunemente assodato, questi ultimi sono un riferimento sia alle vicende della mitologia greca, quelle della Titanomachia e della Gigantomachia combattute dagli dèi, che alla tradizione ebraica, ormai poco nota ma di cui rimangono accenni nella Genesi, dei giganti, figli degli angeli Vigilanti, che vennero puniti da Dio col Diluvio; le altre tre categorie sono invece pura tradizione nordica, con gli eotenas (da jötnar) che sono i giganti "locali", gli ylfe, "elfi", che in Inghilterra avevano un'accezione negativa, e gli orcneas (probabile la parentela col latino Orcus, dio degli inferi) dei non morti, forse affini ai draugar delle saghe norrene (gli stessi di Skyrim). Da questi Tolkien trae il nome "orc", che usa al posto del tradizionale ogre francese per indicare le creature delle sue storie (entrambe le parole vengono da noi tradotte come "orco", perdendo la differenza; proprio per questo nelle edizioni de Il Signore degli Anelli, fino all'inizio degli anni Duemila, questi sono chiamati "Orchetti").
Nella sua raccolta di saggi "Uscite dal mondo" (1992), Elémire Zolla aggiunge alla spiegazione di orcneas il nome orcen, che indica un mostro marino -e probabilmente deriva dal latino orca, con il quale intendiamo il famoso cetaceo, e l'islandese orkn, che indica una specie di foca: per la sua pelle e il suo movimento sulla terra, "trascinato", non è del tutto lontana dall'immagine di un uomo in bilico tra la vita e la morte.
Grendel. John Howe.
Sia i giganti che gli elfi, nell'immaginario nordico, sono in qualche modo associati al mondo dei morti, e sovente si confondono con i nani, che hanno la stessa accezione. Per quanto Grendel non sia un morto, ma un vivo che muore nel corso della storia, questi elementi all'origine del suo nome lo fanno derivare direttamente dai vari generi di morti viventi, della memoria nordica e latina, e di esseri mostruosi non umani e antropofagi, quali giganti e troll. Quelli che nei miti eddici provengono da Jotunheim, e che qui vengono chiamati esseri "di Fuori", "Stranieri", ma entrano a far parte della storia cristiana attraverso il passaggio della storia di Caino. In questo senso, nota Tolkien, il poeta fa sì che la battaglia dell'eroe contro queste creature, oltre ad essere espressione della sua forza e di tutte le virtù che lo rendevano grande nella storia pagana da cui ha tratto la materia, sia anche una battaglia cristiana, in una concezione per la quale gli uomini devono contrastare le insidie del male, delle forze negative legate all'Inferno e al peccato che piagano la loro vita. Per questo Grendel e sua madre (cui il poeta non si riferisce mai come orcneas, che probabilmente costituiscono un altro genere di creatura) sono spesso chiamati "nemici di Dio".

Grendel e sua madre, in tutto ciò, sono anche mostri dal punto di vista sociale: non formano una società, non hanno leggi o diritto, compiono omicidi senza pagare il wergild, il guidrigildo, la somma dovuta ai parenti dell'ucciso secondo il diritto germanico antico, senza il quale essi si vendicheranno, e ignorano le tecniche dell'uomo, come "l'arte del menarmi fendenti" come dice Beowulf nel decidere di combattere 'l'orco' a mani nude. Grendel è senza un padre e una patria, che Ludovica Koch ci ricorda essere i connotati di base per l'identificazione; e dato che è totalmente al di fuori del legame sociale degli uomini, non è da escludere, che fosse o meno nella mente del poeta, che praticasse l'incesto con la propria madre. Rispetto a tutto ciò, il fatto che Grendel sia in grado di sollevare un uomo con una mano sola, e divorarlo intero, appare quasi secondario nell'individuare la sua non-umanità. In tal senso Beowulf è un campione del diritto, poiché vendica la morte dei Danesi -e anche del suo uomo, Hondscioh- e successivamente vendica quella di Æschere, l'uomo più fidato di Hroðgar e suo consigliere, esperto conoscitore dei misteri e dei segreti, rapito e decapitato dalla madre di Grendel, che ne lascia la testa infilzata su una roccia davanti al suo antro (esiste un saggio che vede, in ciò, un'allegoria delle cose che sfuggono alla comprensione umana), uccidendo la creatura. Eppure, in un suo modo perverso, la madre di Grendel si è procurata un indennizzo per la morte del figlio, uccidendo qualcuno per vendetta.
Bellissimo disegno del lutto della madre di Grendel, di Rebecca
Wolfram, trovato qui: http://www.benigngirl.org/GrendelsMother/grendelsmother.html
Questa creatura, che insieme a Wealhþeow, moglie di Hroðgar, Hygd, moglie di Hygelac, e la fanciulla senza nome che canta al funerale di Beowulf, è l'unica 'donna' presente fisicamente nel poema, dimostra di avere almeno un sentimento in comune con gli esseri umani, il dolore e la rabbia per la morte di un figlio e il desiderio di vendicarsi su chi l'ha ucciso (chi sia stato esattamente forse non lo sapeva, ma forse l'avrà immaginato nel lottare con Beowulf), attaccando Heorot specificamente per quel motivo, non avendolo mai fatto prima di allora. La sua vendetta, però, non avviene secondo la legge, la norma, e per questo motivo lei rimane ugualmente un mostro.
Ma lo è sempre stata? Gran parte delle diatribe sorte intorno al Beowulf riguardano proprio la madre di Grendel, la cui presenza, che pare allungare l'episodio di Grendel oltre la sua durata iniziale, è curiosa per varie ragioni. Particolare curiosità suscita il nome aglæc-wif con cui viene indicata, spesso tradotto come "donna mostruosa" o "sposa mostruosa", finanche a "sposa infernale". Doreen M. E. Gillan, in un saggio del 1961 dedicato proprioall'uso del termine "aglæca" nel poema, insiste su come esso indichi non deformità o malvagità, quanto piuttosto l'eccezionalità dei personaggi cui è riferito. Un altro termine molto indagato è ides, che ha degli equivalenti in norreno e in antico alto tedesco, e significa "signora", ricorrendo spesso per identificare le Valchirie, mentre altri collegano la creatura a dee della fertilità come Gefjon o Freyja. Non si è pervenuti a un accordo, ma si è diffusa un'idea, l'idea che questa donna forte e vendicativa, prima di essere dipinta come un demone acquatico pronto ad aggredire gli invasori con un coltello come se si trovasse in cucina, potesse essere un'antica dea del Nord, ridotta, dal mutare dei tempi e della cultura, ad essere dipinta come un mostro. In quest'ottica, certe interpretazioni moderne che vedono in lei una strega antica e affascinante, sembrano recuperare qualcosa di quel passato.

Ancora più mostruoso, comunque, è Grendel: non sappiamo come mai abbia attaccato Heorot. Non abbiamo un motivo, com'è invece nel bellissimo film del 2005 "Beowulf & Grendel", di cui parlerò in un futuro non troppo lontano, per odiare i Danesi. Forse è per la sua natura di orco, troll o qualunque cosa sia. Sappiamo che prima di attaccare, e per lungo tempo, era rimasto ad ascoltare la musica della corte:

"Penosamente, a lungo,
pazientò l'Orco audace   appostato nel buio
che ascoltava ogni giorno,   dalla corte, le musiche
alte e la festa. Udiva   gli accordi sopra l'arpa,
il chiaro canto del poeta.   Raccontava (sapeva
ritrovare il remoto)   l'origine degli uomini:
come l'Onnipotente   fabbricasse la terra,
la distesa dal chiaro   volto, recinta d'acqua.
(v. 86 - 93)

Se era effettivamente nemico di Dio, discendente del primo omicida, del primo che infranse il legame di pace tra gli esseri viventi, il canto sulla genesi del mondo e sull'armonia primordiale dev'essergli molto inviso. E di questo non dubito; ma penso che, anche al di fuori del contenuto, fossero la musica e i suoni della festa a provocare il suo rancore. Sentiva una grande comunità di uomini che stavano insieme e che si divertivano, mentre lui non aveva altri se non sua madre, viveva in una caverna sotto un lago dove "nemmeno il cervo braccato dai cacciatori sarebbe mai entrato". Grendel, che in un verso è anche definito "pagano", è uno straniero, è un mostro, è estraneo alla società degli uomini, non potrebbe far parte di quella comunità neppure se lo volesse -e a questo non punto non escluderei che una parte della sua anima, dato che in questo sito ogni mostro ha un'anima, lo desiderasse- e si configura, così, come un emarginato. L'Emarginato. La sua reazione non può non essere distruttiva.
Eppure, anche con così tante caratteristiche negative, Grendel è a mio giudizio un personaggio letterario potente, magnetico e tragico: mai descritto direttamente, ma presentato fin quasi dall'inizio del poema, domina la prima sequenza e getta la sua ombra anche sulla successiva; striscia come un'ombra fuori dalla sua tana durante la notte e attacca e divora gli uomini senza che lo si possa fermare. Non sappiamo com'è fatto, ma ha tutti gli attributi per i quali temerlo. Se ne parla con terrore nelle ore del giorno, e in quelle della notte si sta nascosti e lontani dalla sala maledetta, che lui infesta ogni notte, come un fantasma. Dopo i primi attacchi gli uomini non lo vedono più, ma sanno che c'è. E con sé, scopriamo, porta un sacco, probabilmente piccolo per lui, ma grande abbastanza da metterci dentro almeno un uomo: nella Scandinavia pre-cristiana (o presso il più tardo contesto in cui opera il poeta) esisteva il terrore per un crudele Uomo Nero, un antenato dei Boogeyman del moderno cinema dell'orrore, che, anziché i bambini, rapiva gli uomini. Eppure, come dicevo, provo simpatia per lui, perché è un escluso, un solitario, che scruta il mondo da lontano e sa che non potrà mai farne parte: esso ha delle regole che lui non comprende. E questa simpatia per lui, nel mondo moderno, non è così rara: prova ne sia l'interpretazione che gli viene data nel film "Beowulf & Grendel", e prima ancora il romanzo "Grendel" di John Gardner (1971), tradotto in italiano come "L'orco" (l'edizione italiana pare sia oggi difficilmente reperibile), che getta uno sguardo alla vicenda e al mondo del poema dal punto di vista del mostro.

Uccidere i due orchi è un'impresa che garantisce a Beowulf una grande e temibile fama: dopo che, morto Hygelac e morto il suo erede Heardred, il trono dei Geati passa a lui, nessuna delle bellicose popolazioni confinanti osa attaccare il suo popolo. Non è, comunque, la prima impresa del figlio di Ecgþeow, che racconta dal verso 530 al verso 581 la sua gara di nuoto con Breca e la strage di mostri marini (niceras) che compie in mare, con addosso la cotta di maglia e la spada; e nemmeno è l'ultima.
Il drago che domina sull'ultima parte del poema, il draca, o wyrm, o fyr-wyrm per la sua natura di fuoco, viene indicato con alcuni appellativi simili a quelli di Grendel, sceaþa (Flagello), aglæca (mostro, o più correttamente essere che desta stupore), e si muove alla stessa ora della notte. Anche lui è uno Straniero, venuto da un altro mondo, e anche di lui, come di Grendel, Beowulf parla come del "nemico della mia vita". Non è, però, nemico di Dio.
Beowulf contro il drago, John Howe.
Presso gli anglosassoni, come ho riscontrato personalmente quando ho letto, in entrambe le occasioni per pura coincidenza (o meglio, per via del wyrd), una pagina della Cronaca anglosassone e il frammento di Finn ed Hengest, dei draghi di fuoco volanti erano considerati sì qualcosa di insolito, ma comunque creature naturali, possibili da incontrare. Per quanto l'introduzione della parte su di lui sia mutila, quando il poeta introduce il drago lo fa con naturalezza, senza dover spiegare che cosa sia o da quale misfatto biblico derivi la sua stirpe, e quando racconta la storia del tesoro, conservato da un antico popolo fino alla morte del suo ultimo appartenente, l'arrivo del drago nel tumulo e il suo stanziamento al suo interno appaiono come cose naturali. Naturali come dei vermi in un cadavere in decomposizione, aggiungerei io, giocando sulla parola wyrm, verme, con cui il mostro viene chiamato, e sulla natura di lui: per "trecento inverni" (il numero può anche indicare semplicemente una grande quantità) il drago è rimasto assopito su quegli ori, su antiche spade, anelli, bracciali, corredi di guerra, ormai inutili ai proprietari originali, inutili a chi avesse desiderato possederli, visto il loro temibile guardiano...e inutili al drago stesso ("e lì, esperto di inverni, guarda quell'oro pagano/ e non se ne fa niente"). Non solo l'oro è inutile al drago, ma il poeta lo mette in luce, ed è solo uno dei passi che danno un carattere al drago, per il quale il flagello di Beowulf è un personaggio letterario a tutti gli effetti, e non un semplice animale. Per Tolkien, proprio quel passo indica "che cosa significa veramente essere un drago": per lui, quella creatura esiste fisicamente, e alla sua fisicità si accompagna una valenza simbolica di "personificazione di malizia, cupidigia e distruzione (il lato malvagio della vita eroica)" e "della crudeltà livellatrice della fortuna, che non distingue il buono dal cattivo (l'aspetto malvagio della vita eroica)". La storia di Beowulf è quella di un uomo che spicca fra gli altri uomini in quanto eroe, ed è eroe in quanto prende parte alla lotta cui sono tenuti tutti gli uomini, laddove altri le si ritraggono, riportando molti successi per meriti fuori dall'ordinario; ma non può riportare la vittoria finale, "cosicché", continua Tolkien "possiamo vedere l'uomo combattere contro un mondo ostile,  e la sua inevitabile disfatta nel Tempo". Il drago è perfettamente al suo posto lì dov'è, lungi dall'essere "insignificante" come altri lo vorrebbero, in quanto è l'unico avversario capace di uccidere Beowulf, cosa che nessun uomo sulla terra, e nemmeno gli orchi infernali, sono riusciti a fare. Parimenti, aggiunge Howard Shilton alla fine del suo "The nature of Beowulf's dragon", nessun altro se non Beowulf avrebbe potuto uccidere il drago.

Accanto al lato malvagio dell'eroe di cui parla il professore, è potente in questo drago l'immagine di caricatura del re: per tutto il poema si parla del re come del donatore degli anelli, poiché gli anelli sono il simbolo del potere del re, anche secondo il mito di Draupnir e di Odino, e nel donarli egli stringe forti rapporti feudali con gli altri uomini; sono anche simbolo delle spade, con il pomo dell'elsa ad anello, e delle navi dalla forma ricurva. Il drago, oltre a spadroneggiare su un tesoro pieno sia di anelli che di spade, è fatto egli stesso di anelli, spire tortuose che si avvolgono tra loro e contro le quali Beowulf deve combattere: spezzare gli anelli, in questo caso, gesto che significa liberare uno schiavo (e con il suo attacco fiammeggiante il drago terrorizza i Geati asservendoli alla paura). Anche le spade germaniche hanno dei draghi sopra di sé, nei motivi a serpentina che le decorano e che hanno una valenza simbolica, forse magica in origine; quanto alle navi, è risaputo che questi popoli usassero viaggiare su imbarcazioni la cui prua e poppa erano spesso intagliate in modo da richiamare la testa di un drago, per spaventare i nemici e i possibili spiriti ostili. Il fatto che dopo la morte del drago il suo corpo venga gettato in mare dai Geati è stato da alcuni messo accanto a questo dato storico, anche se appare più verosimile ritenere che ciò avvenga per semplici ragioni di praticità. Howard Shilton, comunque, lo trova una forma di sepoltura più rispettosa delle mutilazioni cui sono soggetti gli orchi.
Il re è anche custode, guardiano e pastore dell'oro, kenning che vengono riferite anche al drago, e che, in quanto kenning, significano che il pubblico del poema, e gli ascoltatori delle sue forme precedenti, le ricollegavano immediatamente al re o al drago. Ciò attesta anche un gioco poetico che ai miei occhi è splendido, e che sostiene il mio discorso: il drago vive uno stato di esistenza molto simile a quello del re, custode del tesoro, signore degli anelli.
Dopo essere morto, ma prima di essere gettato in mare, il corpo del drago è consumato dal fuoco. A prescindere da letture metaforiche, che mi parrebbero un po' forzate (il fuoco dell'ira, o addirittura il fuoco che ha appiccato al palazzo di Beowulf che gli è costato la vita), credo che il senso sia letterale, e che il fuoco che contiene il suo corpo, quello che esala dalle fauci -per quanto, nota Shilton, non venga esplicitamente detto che il fuoco è sputato dalla bocca del drago-, continuando a bruciare anche dopo la sua morte, lo avvolge. E forse è proprio questo il funerale del drago, visto che il funerale di Beowulf, sul rogo, si svolge in maniera affine.
Un'altra versione di John Howe.
La somiglianza tra re e drago è tale da ispirare un'ipotesi affascinante, che, a quanto risulta dal saggio di Shilton, trova insigni sostenitori: l'arrivo del drago è preceduto dalla storia dell'ultimo discendente del popolo del passato, di una sorta di "regno che fu", e dal suo lamento elegiaco riportato più in alto. Dopo qualche tempo, il sopravvissuto muore, e più avanti ancora interviene il drago. Si è già ricordato che la cultura germanica ricorda un altro grande drago nella sua letteratura, il Fáfnir o Fáfner ucciso da Sigurðr e menzionato indirettamente anche nel Beowulf. La storia, raccontata dall'Edda e dalla saga dei Volsunghi, vuole che Fáfnir fosse originariamente un nano, che uccise il padre Hreiðmarr per ottenere l'anello di Andvari e venne punito per la sua avidità, trasformandosi in drago e mettendosi a guardia del tesoro, scacciandone il fratello Reginn che avrebbe, tanti anni dopo, inviato Sigurðr a ucciderlo. Il drago appare anche qui come simbolo di avidità, con una dimensione in più, di sapore mitico e fiabesco, data dalla metamorfosi dell'uomo. Vista la quantità di spazio data all'ultimo superstite del popolo del tesoro di Beowulf e la quasi subitaneità dell'arrivo del drago, e visto anche che pare fosse credenza di alcuni, nell'antichità nordica, che le anime dei morti si trasformassero in draghi per sorvegliare i bene che venivano sepolti con il loro corpo, non sembra così illogico ritenere che il drago di Beowulf sia lo stesso padrone del tesoro che si è trasformato, per via dell'avidità, sfuggendo così alla morte (per un po') e rimanendo insieme al suo oro. Il che chiarirebbe meglio il modo in cui, dopo aver subito il furto di una piccola coppa, il drago lo noti immediatamente e si scateni con tale violenza sul palazzo di Beowulf.
La posizione di Shilton, e anche la mia, è che nel poema, e secondo il poeta, non sia così. Molto probabilmente questa era la storia del materiale mitico/leggendario cui ha attinto il poeta, ma per un motivo o per un altro egli l'ha alterato. Ne risulta che il drago sia esclusivamente un drago, perfettamente incarnato nella sua natura, e dunque naturale, laddove gli orchi in parte non lo sono, al punto tale che, mentre questi sono invulnerabili alle armi comuni, ed è solo con la propria forza e con una spada forgiata da dei giganti, che Beowulf riesce ad avere la meglio su di loro, il wyrm è impenetrabile nella parte superiore del suo corpo poiché protetto dalle squame ossee, mentre la parte inferiore, scoperta, costituisce il suo punto debole (com'è anche per Fafnir e come sarà, in un futuro che è anche passato, per Glaurung e per Smaug). L'idea di questa possibilità ci permette però di riflettere, di scoprire quanto poco siamo lontani dalla mostruosità e quanto poco la mostruosità è lontana dall'umanità, nel momento in cui vediamo i due aglæcan uno davanti all'altro pronti allo scontro e vediamo come l'uno sia immagine dell'altro.
Per questo motivo, il drago e i due orchi sono irrinunciabili; la storia non potrebbe esistere se loro non fossero quello che sono, perché se Grendel e sua madre fossero uomini non sarebbero una minaccia del vincolo sociale così forte, né così impossibile da sconfiggere per i Danesi. Se il drago non fosse un drago, non potrebbe uccidere Beowulf, e soprattutto non mostrerebbe con tanta verità e fatalità il suo riflesso attraverso le spire scintillanti.
Quel valore, per me, è ancora di più. Ho scoperto Beowulf per via di Tolkien, e poi ho scoperto che Tolkien lo amava, ma solo quando avrò letto davvero tutto quello che ha scritto potrò farmi un'idea di quanto. Nel frattempo, Beowulf è diventato fondamentale anche per me. Non solo in quanto storia di mostri, ma in quanto storia che parla di come sono fatti i mostri, di cosa li rende mostri e di cosa rende gli altri 'non mostri'. E ne deriva che a essere mostri, nel poema, sono i più grandi e i più forti, perché aglæca vengono chiamati Grendel, la madre di Grendel, il drago, Beowulf e Sigemund. Creature uniche che stupiscono e fanno parlare gli altri di sé per la loro unicità e per come riescono a lasciare traccia della loro anima nel mondo, attraverso la gloria e le imprese, oppure attraverso violenze ed eccidi che gridano che questo mondo non è fatto per loro. Oppure, ancora, in una gloria di fuoco, destinata ad infiammare il tessuto della storia e dell'arte. Poiché il drago di Beowulf, il primo nella letteratura occidentale in grado sia di sputare fuoco che volare, con in aggiunta grandi dimensioni e un tesoro cui fare la guardia, è probabilmente all'origine dell'archetipo del drago come lo intediamo oggi, attraverso "Lo Hobbit" nel quale rivive, unito a Fáfnir, in Smaug, oltre che nelle fiabe, fino a raggiungere le storie moderne che li ospitano ancora. Attraverso quelle i draghi hanno conquistato la mia infanzia, e sono stati la causa della maggior parte delle cose che ho fatto da allora in poi.

E così, per quanto il tempo sia passato e il cavallo e il cavaliere non ci siano più, né il re, né la sala, né il banchetto, né la coppa, né la cotta, né la gloria, e nemmeno l'orco e il drago ci siano più, la fama di Beowulf e il ricordo di quel luogo, in cui uomini che amano le spade e le storie di eroi vivono nella pace e nella bellezza di un mondo arcaico e selvaggio, rimarranno per sempre, insieme a tutto quello che lo straordinario poeta anglosassone ci ha raccontato. E rimarranno le parole, la chiave per la quale questi personaggi vivono ancora; ripetere la storia, raccontandola in altri modi, fino a creare storie nuove figlie di questa, significano che ancora, nel nostro presente e nelle nostre sale completamente diverse, c'è un posto per quel mondo. A Beowulf l'eternità parla con questi versi, il discorso di Wealhþeow a Beowulf dopo la sua prima impresa (v. 1221 - 1231):

«Tu ti sei meritato   che gli uomini ti celebrino
da vicino e lontano   per tutto l'arco
della loro esistenza,   per spazi tanto vasti
quanti ne cinge il mare,   il recinto e le mura
dei venti. Sii fortunato,   principe, finché vivi.
È giusto che io ti regali   questi gioielli preziosi.
Sii gentile nei gesti   verso i miei figli: conservali
ai piaceri e alle musiche.   Qui, ciascuno dei conti
è leale con l'altro,   di mente generosa,
fedele al feudatario.   Vanno d'accordo i vassalli,
il popolo è bene istruito,   e gli uomini del seguito,
se hanno bevuto, fanno   quello che io gli comando».


Bibliografia

Beowulf, a cura di Koch, Ludovica, Einaudi 1987 (2013), Torino.
Beowulf, Tolkien, J.R.R., a cura di Tolkien, Christopher, Bompiani 2014.
Beowulf - L'eroe, il mostro e il drago, Crossley-Holland, Kevin, traduzione a cura di Daniela Camboni, Nuove Edizioni Romane 2007. Roma.
Letterature germaniche medioevali, Borges, Jorge Luis e Vásquez, María Esther, a cura di Melis, Antonio, traduzione di Lorenzini, Lucia, Adelphi 2014, Milano.
The monsters and the critics, Tolkien, J.R.R., George Allen & Unwin. 1983.
The nature of Beowulf's dragon, Shilton, Howard, in Anglo-Saxon Texts and Contexts, Bulletin of the John Rynalds University Library of Manchester, 1997.
Uscite dal mondo, Zolla, Elémire, Adelphi 1992, Milano.

giovedì 13 aprile 2017

Hiraeth

I parte: Fernweh

Viveva, un tempo che non verrà più, su a nord del regno che fu, talvolta menzionato in alcuni racconti, una giovane donna che conosceva così tante leggende del passato da provare uno struggente desiderio che quel passato tornasse per lei, benché sapesse che ciò non sarebbe mai potuto accadere. La giovane si chiamava Enid, e se i più ne compativano la sorte, chiunque la conoscesse non poteva non pensare che sarebbe stato più che giusto se almeno a lei, fra tutti coloro che vivevano, il fato avesse concesso che quanto il suo cuore bramava accadesse, poiché i segni del suo struggimento erano ben visibili, e ciononostante ella era buona e leale con chiunque e in qualunque situazione.
La cagione del suo stato d'animo era la poesia, quella poesia che non potrebbe sollevare una libbra di peso, ma che arriva più lontano delle frecce e penetra con più foga di una spada: la poesia con cui il bardo aveva cantato storie, leggende antiche di eroi e di prodigi, che le avevano messo dentro un'amarezza, al pensiero che quel mondo non sarebbe mai stato il suo, ancora più grande di quella che ogni vivente porta con sé dal giorno in cui nasce. Le storie di Gwydion, di Fionn, di Cúchulainn, di eroi che avevano avuto il potere di fare la differenza nel loro tempo, e di lasciare un segno, erano ai suoi occhi l'idea assoluta e insuperabile del valore e della bellezza, e lei soffriva perché sentiva che se quelle storie erano tali, era perché il mondo, nel tempo in cui si erano svolte, permetteva, a chi fosse abbastanza audace, di coronare il proprio sogno di eroismo e di eternità, mentre su di sé, sui suoi giorni e sul mondo, avvertiva l'incombere della morte e del disfacimento di tutte le cose: sempre in meno raccontavano e chiedevano quelle storie, più interessate alle nuove possibilità del mondo, che concedeva adesso una vita più serena a più persone, al prezzo, che sembrava meno importante, della loro libertà di rischiare. Non le sarebbe stato possibile opporsi a quell'incedere inesorabile, e anche se fosse riuscita a compiere qualcosa di degno dei canti del suo popolo, quei canti avrebbero avuto vita breve prima dell'oblio e della fine di tutta la musica, che sarebbe arrivata non appena le persone avessero deciso di immolare il passato sull'altare del futuro.

Un giorno di primavera, mentre sedeva davanti alla porta di casa con i suoi cupi pensieri, Enid vide venire dal nord un viaggiatore. Il suo mantello era grigio e il suo bastone segnato dall'uso. Il viaggiatore era giovane come lei, per quanto i suoi occhi paressero quelli di un vecchio, e davanti a lei si fermò. Lei gli chiese se potesse essergli d'aiuto.
Il viaggiatore le rivolse un accenno di inchino, e disse «Puoi essermi d'aiuto, o sorella sul dorso del mondo, solamente se sei disposta a sacrificare una cosa a cui tieni, poiché altrimenti non vi è nulla, con tutta la tua buona fede, che tu possa fare».
Questa risposta la stupì un po' e le dispiacque anche, ma la curiosità vinse lo sdegno, e dunque chiese ancora: «Che tipo di sacrificio ti occorrerebbe, e perché dici che non possa fare nient'altro per te?».
Rispose il viaggiatore: «Si tratterebbe di abbandonare il luogo in cui sei vissuta fino ad oggi e seguire me nel mio viaggio. Viaggio da solo da molto tempo, e per quanto ciò non mi pesasse all'inizio, sento ora di portare con me un fardello troppo grave per un uomo solo; per questo, ogni volta che mi imbatto in luoghi e persone nuovi al mio percorso, formulo questa richiesta. Finora nessuno ha accettato di seguirmi, ma continuo a porla ugualmente».
Chiese la ragazza: «Dove sei diretto?».
Rispose il viaggiatore: «Dovunque e in nessun luogo, sorella mia. È un destino più grande di me quello che mi agita e mi spinge a fuggire dall'uscio rivolgendomi all'infinito. Per quanto insolito possa sembrarti, c'è qualcosa in me, radicato nello spirito, che mi porta a voler raggiungere luoghi in cui non sono mai stato, e grande è la mia ansia finché non sono arrivato in una nuova terra; ma una volta lì, dopo poco tempo, l'insoddisfazione mi afferra il cuore, e il dubbio di non essere nel posto giusto molesta la mia serenità. Così, dopo un breve periodo, mi rimetto ogni volta in cammino, alla ricerca di una nuova terra dove so che resterò per poco.»
Chiese la ragazza: «Qual è il tuo nome?».
Rispose il viaggiatore: «L'unico nome che ho mantenuto è Vegtamr, che significa 'viandante' nella lingua del posto dal quale sono partito.»
Allora la ragazza disse: «Salve Vegtamr. Io sono Enid, che nella lingua di questo posto significa 'anima', e anche in me è radicato qualcosa che mi impedisce di trovare la pace qui dove sto. Io ti accompagnerò nel tuo viaggio, se tu vorrai accompagnare me nel mio.»
Chiese allora il viaggiatore: «Dove desideri andare, Enid, mia simile?».
Rispose la ragazza, dopo averci pensato, nell'unica maniera che seppe trovare: «A casa. Un posto dal quale non mi sentirò più lontana. Puoi portarmici?»
Vegtamr a quel dire rise, e rise di gusto e a lungo, ma prima che lei potesse replicare le spiegò: «Ho viaggiato per la maggior parte degli anni che ho vissuto, e ho dimenticato cosa significhi avere una casa; e come la lontananza ha sempre segnato il mio cuore, così non ho idea alcuna di quale sia il suo opposto. Ma poiché me lo chiedi, Enid, io cercherò un posto del genere insieme a te, perché tu hai accettato di accompagnarmi e perché sono curioso di scoprire dove potresti trovare quello che cerchi. Posso darti un giorno di tempo per salutare i tuoi cari, ma domani a quest'ora vorrei riprendere il cammino».
«Soffrirei di più» lei rispose «salutando le persone e i luoghi della mia vita finora, e rimpiangendoli un domani, sentendo di essermi allontanata ancora, piuttosto che andando via in silenzio, come se non ci fossi mai stata. Lasciami solo alcuni minuti per prendere ciò che mi occorre, e poi verrò con te».
«Perché allora» chiese Vegtamr «vuoi andartene se temi che andartene nutrirà la tua nostalgia, come il fiume nutre il mare?».
«Perché se qui mi sentissi a casa, adesso non vorrei andarmene» rispose lei, e lui non parlò più.
Enid dunque rassettò per l'ultima volta la sua dimora, indossò degli abiti adatti al viaggio, tracciò alcune rune sulla porta di casa per chi fosse passato a cercarla, e rivolto un ultimo sguardo al suo villaggio se ne andò via, insieme al viaggiatore, verso casa.

Dopo tre giorni di cammino attraverso le foreste, scoprirono uno spiazzo dove dominava una piccola capanna dall'aspetto vetusto.
Enid aveva raccontato al suo compagno di viaggio molte delle sue esperienze più significative, e gli aveva confidato i suoi pensieri e i suoi stati d'animo più oscuri; Vegtamr si era rivelato un eccellente ascoltatore, ed era altrettanto abile nel rassicurare e incoraggiare, ma quanto a parlare di sé era stato meno generoso. In piedi davanti alla porta, il viandante chiese a colei che l'accompagnava se quel posto le sembrasse simile a casa.
Enid rispose: «Guardando le mura di questa capanna mi tornano in mente le fiabe che mia nonna mi raccontava quand'ero bambina, e toccandole sento su di loro il tempo che hanno attraversato. Quel tempo è il tempo che è trascorso tra il tempo che fu e il mio, ed è un aspetto di quello che mi manca. Forse la mia casa sarà un posto antico e bello come questa capanna. Ma qui nessuno ha combattuto, né si sono compiuti incantesimi, né questa capanna ha un nome che venga cantato dai bardi. Non credo che sia qui che devo fare ritorno».
Vegtamr le annuì, e tornato sul sentiero le tese la mano e disse «Vieni, cercheremo ancora finché non avremo trovato la tua casa». Ed Enid prese la sua mano e lo seguì.
Dopo quattro giorni di cammino sulle colline, trovarono un vasto campo desolato, con tronchi di alberi spezzati dove un tempo la foresta doveva continuare. Anche qui Vegtamr chiese a Enid se quel posto le ricordasse qualcosa.
Enid rispose: «Qui è dove venne combattuta la battaglia tra Gwydion e Math. È incredibile vederlo da vicino! Sentire delle loro imprese accende la mia fantasia da quando ho memoria. Forse anche la mia casa sarà legata a qualche evento storico come questo. Ma quello che vedo adesso è solo un campo desolato dove non resta nulla, né dove si possa vivere. Non credo che sia qui che devo fare ritorno».
Vegtamr le annuì, e inoltrandosi nel campo le tese la mano e disse «Vieni, cercheremo ancora finché non avremo trovato la tua casa». Ed Enid prese la sua mano e lo seguì.
Dopo sette giorni di cammino attraverso i boschi, trovarono un grande castello dalle mura merlate e le torri imponenti. Vedendo che il castello era vuoto, Vegtamr ne raggiunse l'arcata principale e chiese a Enid se quel posto le desse l'idea della sua casa.
Enid rispose: «Questo è il castello di Peredur, uno degli eroi più grandi che siano vissuti. È incredibile essere giunta fin qui! E senza di te non ci sarei mai arrivata. È un luogo antico e bello dove sono avvenuti scontri e principi e maghi sono entrati e sono usciti. Questo è un posto in cui vivere sarebbe splendido». E mentre lei si guardava intorno ammirata e sorrideva, Vegtamr, che poche volte l'aveva vista sorridere, rimase in silenzio, senza metterle fretta di rispondere, e la seguì nel suo incedere, quasi danzando, verso quel castello. Dopo che furono trascorse delle ore, Enid si rivolse a lui e disse:
«Non capisco. È un luogo splendido e che ho sognato a lungo, me è come se mancasse qualcosa. Anzi, forse ha qualcosa di troppo».
«Che cosa?» le chiese il viandante.
«È troppo...vero. È una cosa che esiste in maniera definita. La vediamo sia io che tu. E io non capisco che cosa mi succeda, ma è come se mi dispiacesse che sia così concreta. È diversa da come l'ho vista per anni nella mia mente. Vorrei che fosse in quel modo, ma non lo è. E a questo punto, realizzo che nessuno dei luoghi che troveremo sarà come l'avevo immaginato; dunque non sarò soddisfatta da nessuna parte»
Enid lo disse come se stesse cantilenando un lamento, ma con freddezza e rassegnazione. Vegtamr lo trovò triste, e se ne dispiacque. Così si fece più vicino e disse alla compagna di viaggio:
«Capisco come ti senti. Vorresti avere qualcosa di stabile in cui credere, e adesso senti di non poterlo avere. Cercherò comunque insieme a te un posto dove ti senta meglio che nel tuo villaggio, e finché non l'avremo trovato, potremo continuare la strada insieme».
Enid tacque per un po', poi si girò verso di lui e annuì, con gratitudine. Tornato sul sentiero, il viandante le tese ancora una volta la mano e disse «Vieni, cercheremo ancora finché non avremo trovato la tua casa». Ed Enid prese la sua mano e lo seguì.


II parte: Katàbasis

Dopo nove giorni di cammino verso le montagne, raggiunsero una grotta il cui fondo si perdeva sotto la terra.
Vegtamr si fermò davanti alla bocca che immetteva al suo interno e disse alla sua accompagnatrice: «Sono certo che nelle fiabe che conosci ci siano molte grotte. Forse qui troverai qualcosa che ti sarà d'aiuto». Enid annuì, ripensando alle storie in cui nelle grotte si nascondevano draghi o orchi, ma anche a quelle in cui erano dimora di fate e gnomi, e seguendo il suo accompagnatore entrò nella grotta. L'interno era freddo e buio come nelle storie, ma mentre lì riusciva a scorgere perfettamente le pareti e i crepacci della roccia, grazie al tessuto delle parole, adesso non vedeva affatto, e doveva affidarsi a Vegtamr, che col suo bastone sembrava avere dimestichezza nel percorrere sentieri invisibili. Dopo una marcia che le parve molto lunga, Enid domandò: «Sicuro di non esserti perso?».
Vegtamr le rispose con convinzione: «Sono sicuro. Stiamo scendendo sottoterra, è normale che ci voglia del tempo».
«Sottoterra, nelle storie, ci sono le anime dei morti, i nani e i demoni. Nulla di buono in qualunque caso. Perché dovremmo passare di qui?»
«Perché in quelle stesse storie gli eroi devono passare per questo mondo tenebroso per raggiungere il loro destino, e se non lo fanno, non possono compiere nulla»
«Non so se riuscirò a compiere qualcosa» disse Enid con voce più lieve «non so nemmeno dove sto andando, e il perché voglia andarci è così complicato che nemmeno io saprei spiegarlo. Gli eroi, con tutte le difficoltà, sapevano dove dovevano andare, e per questo riuscivano a uscire; mentre io non lo so, e potrei anche rimanere qui per sempre».
«È vero» Enid lo udì fermarsi, e si fermò a sua volta «ma se il tuo destino fosse sempre stato quello, poco potresti fare per cambiarlo. Inoltre io non credo che andrà così: anche se non sai dove vuoi andare, sai che da qualche parte vuoi andare, che la tua vita finora non ti basta, che hai un desiderio da far avverare, e quindi una volontà che ti muove verso quel desiderio. Chi erano gli eroi?»
Enid, come capita a tanti quando le domande sono molto semplici, e riguardano cose molto importanti, rimase stupita dalla domanda: «Beh, gli eroi erano...erano guerrieri. Alcuni erano maghi. Molti dèi, o loro simili. Altri umani. Per lo più uomini»
«Certo, ma perché raccontiamo ancora le loro storie?»
«Perché ci appartengono. Quando il bardo cantava quei racconti, ci ricordava sempre che quelli erano i nostri antenati, e la loro terra ancora la nostra, che non avremmo dovuto dimenticare quel passato perché ci rendeva noi stessi. E poi perché sono belle. A me basta questa sola ragione. Sono la cosa più bella che conosca, la più importante e la più nobile»
«È tutto vero, ma non c'è solo questo. Perché sulla terra e nella battaglia sono passati tanti altri di cui non parla nessuno, e di certo non erano meno nobili, né meno devoti alla loro causa. Ma degli eroi si continua a parlare perché loro non hanno vissuto soltanto una vita, ma l'hanno vissuta in modo da lasciare la propria traccia. Loro hanno impresso sé stessi nel tempo. E la loro traccia è lì in modo che tutti la possiamo vedere, e seguire, se ci impegniamo. E questo è il motivo per cui è giusto che tu, e anche io, passiamo di qui. Poiché anche tu hai una forte volontà e stai attraversando un percorso, non è detto che anche quello che farai tu non debba essere modello per qualcuno un giorno»
Enid, in cuor suo, aveva talvolta sognato di essere l'eroina del suo tempo, soprattutto da ragazzina, quando sognare era più facile; crescendo, quel pensiero l'aveva quasi dismesso, perché l'austerità del mondo della maturità sembrava suggerire che i sogni fossero ingenui. Si rese conto di non averlo abbandonato del tutto nel momento in cui, alle parole di Vegtamr, sentì una sensazione familiare e una scossa di ardimento pervaderle il corpo. Al contempo, l'idea che fosse un pensiero ingenuo era ancora salda.
«Mi hai fatto ricordare qualcosa che avevo quasi dimenticato» disse, nelle tenebre, dopo un po' «e convinta sia di cose in cui credevo già, che di altre cui non avevo mai pensato. Grazie» disse chinando il capo, anche se lui non poteva vederlo «grazie perché mi stai spingendo dove non sarei mai arrivata. E tu? Qual è il tuo esempio? Chi è che viaggiava così tanto da farti desiderare di fare altrettanto?»
«Te lo racconterò quando saremo usciti, promesso» rispose Vegtamr «Ma ora riprendiamo il cammino, abbiamo indugiato abbastanza»
Nelle profondità del buio, dopo un lungo tratto, scorsero un tenue bagliore, e questo li spinse a scendere più velocemente. Il fondo della grotta si apriva su un vasto spazio vuoto, sul quale cresceva un muschio che emetteva una luce soffusa. Enid trovò quel luogo veramente magico, e vide che anche Vegtamr, pur con tutte le meraviglie di cui era stato testimone, pareva compiaciuto per quella scoperta.
Grazie a quella luce, oltre a potersi finalmente guardare intorno, i viaggiatori scorsero un tunnel che passava dirimpetto a dov'erano loro.
«Incamminiamoci nel tunnel» disse Vegtamr a Enid «e vediamo dove ci porta».
Vi entrarono, e dopo alcuni passi tornarono a non vedere completamente niente. Poi le sue pareti si allargarono, e ai due si rivelò un ambiente più vasto, alle cui pareti, scoperta sconcertante, erano appese fiaccole accese. A destra e a sinistra il suolo era molto più in basso di loro: si trovavano, adesso, su un ponte di roccia che proseguiva fino ad entrare nella parete che avevano di fronte. Da quella parte, le torce erano spente.
Proprio da lì udirono avvicinarsi dei suoni. Si arrestarono per un momento, spaventati, ma poi ripresero ad avanzare, poiché se in quel luogo c'era qualcuno da incontrare, era ormai giunto il momento di incontrarlo.
I suoni divenivano più forti, più concitati man mano che i due compagni andavano loro incontro, ma non per questo più comprensibili. C'erano passi, i passi di molti piedi, ma c'erano anche rumori di oggetti e di voci. Forse sarebbe andata diversamente se Enid e Vegtamr fossero tornati indietro, ma poiché ciò non accadde, quando furono quasi arrivati alla fine del ponte, e la luce fu ormai lontana alle loro spalle, nella confusione di suoni una voce, più forte delle altre, prese parola e proruppe dal nulla con antica autorità:
«Perché, sconosciuti, percorrete questa via dove nessuno si avventura?»
«Chi sei, tu che parli, e per quali titoli dovremmo risponderti?» chiese Vegtamr.
Si udì l'intreccio di voci farsi più affollato, ed esse più acute.
«Sono Y Dwfn, "Il Profondo", l'antico, garante dell'ordine universale in questo luogo ipogeo. Sono quanto di più simile a un re possiate trovare a queste profondità. Rispondete e non sfidatemi»
«Non intendevamo» disse Enid «sfidarti in nessun modo, antico Dwfn. Sono Enid, della Brughiera, e lui è Vegtamr da nessun luogo. Siamo impegnati in una ricerca, e abbiamo pensato che entrare in questa grotta ci avrebbe aiutati a compierla. Vogliamo soltanto proseguire e scoprire cosa troveremo lungo la strada».
Le voci si fecero più quiete, ma il loro numero parve aumentare ancora.
«Oltre questo ponte, Enid della Brughiera, Vegtamr da nessun luogo» disse Y Dwfn «c'è il regno delle ombre. Tutto quello che trovereste lì sono tenebre, segreti e voci che bisbigliano senza che le si possa comprendere. Se mi diceste che cosa cercate, forse vi direi dove potreste trovarlo».
Enid volle prima guardare Vegtamr, ma la luce era così lontana che di lui scorse solo il profilo, non il volto. Tornò a rivolgersi all'oscurità davanti a sé.
«Saggio Dwfn, io sto cercando il luogo cui appartengo veramente, poiché per tutta la mia vita ho avuto il sentore di essere nel posto sbagliato, e solo nelle leggende e nelle storie del passato ho mai provato un senso di appartenenza e di casa».
Le voci ripresero a rumoreggiare.
«Cara ragazza, potresti avere trovato il luogo che cerchi, anche se potrebbe del pari non piacerti. Se coloro con i quali vorresti stabilirti sono gli antichi eroi e i loro compagni -morti, tutti loro, spesso ancora prima che le storie si diffondessero-, qui in questa sala nascosta, dove si accalcano le ombre dei morti, potresti risiedere alla loro nobile presenza».
Enid a quel punto tremò, e quel corridoio le parve molto più freddo, e le voci che udiva erano ora esalazioni di gole morte che la chiamavano a sé. Provò paura, ma solo per un momento. Poi si ricompose, guardandosi ancora intorno senza riuscire a vedere nulla, e disse:
«Saggio Dfwn, sono qui con te gli eroi del passato, delle cui gesta, nel mondo di sopra, si canta ancora?»
«Troveresti» e la voce divenne più cupa «che molti di essi si trovano nelle ombre. Ma non puoi parlare con loro, a meno di pagare il prezzo di sangue imposto dalle leggi sacre. Eppure» e la sua voce perse quell'ultima rudità che aveva assunto «questa è la risposta alla tua domanda. Gli eroi sono morti, e di loro, sulla terra, rimangono solo l'ombra e il ricordo. Il ricordo ce l'hai con te, nelle storie che ti sono così care; l'ombra, se la desideri, è qui, in questo luogo. Entra nel regno delle ombre, se le ombre sono quello che cerchi».
Enid adesso era raggelata, paralizzata da un brivido che nell'attraversarle la schiena gliel'aveva serrata, serrata in una morsa che aveva privato il suo spirito di qualunque calore avesse mai avuto. La sua mente era contesa tra due idee, ed entrambe incombevano sulla sua decisione, come visiere di ferro con occhi di brace che la osservassero, da dietro una parete di ghiaccio, una dal lato del suo passato, l'altra da quello del futuro. L'una le rimproverava di essersi ingenuamente ancorata a degli esseri morti, sapendo bene che erano morti, quasi come se avesse creduto che la sua fede bastasse a tenerli in vita. La seconda la ammoniva perché, anche se fosse riuscita ad abbandonare quel luogo oltremondano, sarebbe continuata a vivere sapendo che non avrebbe mai trovato ciò che cercava, e si sarebbe consumata nel dolore, a meno di separarsi dalla sua idea e vivere per qualcos'altro, rinunciando, in quel caso, ad essere sé stessa. A quel punto, restare con i morti sembrava quasi avere più senso.
Vegtamr le prese la mano, e in parte, in quel ghiaccio che l'aveva isolata dal resto del mondo, parve farsi strada un'apertura. Lui si accostò al suo orecchio e parlò a bassa voce:
«Scegli liberamente. Se è qui che vuoi restare, a me sta bene. Va' nella direzione verso la quale il tuo cuore batte più forte, e non tributare la tua devozione a nulla, se non a te stessa».
Enid allora pensò a sé, e a come era vissuta fino a quel momento, a quanto aveva creduto nel suo destino, a quanto, insperatamente, quella fede l'avesse condotta più lontano di quanto avrebbe mai immaginato. Pensò alle storie su cui quella fede si fondava, e si rese conto, solo allora, che nel momento in cui gli eroi erano giunti a quel punto, sul fondo dell'abisso e tra la vita e la morte, avevano scelto di risalire. Pensò anche a Vegtamr, al quale doveva essere giunta fin lì, e ripensò a quanto le aveva detto quello stesso giorno, durante la discesa; per quanto triste le sembrasse il suo futuro, non avrebbe rinunciato ad esso senza aver compiuto neppure un'impresa. E in quegli istanti il ghiaccio si sciolse.
Ricambiò la stretta di Vegtamr, si rivolse alle tenebre in ascolto e fece udire la sua risposta:
«Ti ringrazio, saggio Dwfn, perché mi hai offerto la tua casa tenebrosa e perché incontrarti mi è stato d'insegnamento. Scelgo di tornare nel mondo di sopra, e di cercare gli eroi in quanto di sé hanno lasciato, piuttosto che in quanto di loro è rimasto. La fatalità stabilisce cosa accade alle spoglie dei vivi quando sono morti, ma è con la loro volontà che essi costruiscono qualcosa da consegnare al mondo».
Le voci e i sibili aumentarono, molti spiriti vollero avvicinarsi ed osservare la mortale che aveva preso quella risoluzione. Per quanti fossero, la voce del loro signore li sovrastò:
«Possa la tua risoluzione esserti foriera di fortuna e di felicità, Enid della Brughiera, per quanto io possa vedere nel tuo futuro con la stessa chiarezza con cui vedo il tuo viso in questa oscurità, e dunque sappia già che cosa ti porterà. Prosegui la tua cerca con sempre maggiore determinazione, e andrai più vicina all'adempimento del tuo destino: poiché tutti coloro che vivono sono destinati a qualcosa, ma non tutti corrispondono al loro disegno con la medesima perfezione». Lei rimase attonita, e a porsi vicino a lei furono la sorpresa, poiché non si aspettava quella reazione, e la gioia e l'orgoglio, perché si rendeva conto di aver superato la prova più difficile fino a quel punto.
«Venite avanti, ora» riprese Y Dwfn «perché le ombre vi permettano di uscire da questo luogo».
Entrambi i compagni rimasero in silenzio stupiti, non comprendendo cosa Dwfn intendesse, ma seguirono le indicazioni. Non si resero conto di nulla finché non notarono che, dalla fittissima oscurità che li sovrastava, un sottile chiarore permetteva adesso loro di vedere le rocce sotterranee e le proprie mani, e quindi il volto l'una dell'altro, e che in alto si era formata una piccola apertura, da cui proveniva la luce, che si faceva sempre più grande e luminosa, mentre sotto i loro piedi erano comparsi e continuavano a comparire dei gradini, neri e simili al carbone, che si sommavano tra loro man mano che le ombre tutt'intorno si intrecciavano per formare una rampa, spettrale ma perfettamente solida e sicura, via via più alta mentre altre ombre, che forse prima, saldate insieme, avevano tenuto nascosto quello spiraglio, si allontanavano rendendo il varco sempre più largo. La scala continuava a crescere sotto i loro piedi come un lungo collo che si stiracchiasse, portando la sua sommità sempre più vicina alla luce.
Vegtamr si sporse oltre il bordo: «Dwfn, saggio signore, grazie per il tuo aiuto!» gridò nelle tenebre «Mi dirai se riuscirò mai a fermarmi nel corso dei miei viaggi? Cos'è che mi impedisce di essere pago ovunque vada?».
Se dal fondo della gola salì una risposta, la distanza o le ombre la nascosero. Poco dopo Enid e Vegtamr si ritrovarono in superficie, strofinandosi gli occhi mentre il contatto con la luce li infastidiva. Sembrò, a tutti e due, di sentire uscire un sussurro dall'apertura nel terreno:
"Sei tu stesso che impedisci a te stesso di essere pago ovunque tu vada".
Subito dopo l'apertura si chiuse, e non fu più possibile parlare alle ombre.

III parte: Hiraeth

Enid e Vegtamr non parlarono finché non fu notte, ciascuno perso nei propri pensieri. Poi lui si alzò per raccogliere della legna e accese un fuoco in silenzio. Consumarono parte delle provviste finché non fu lei a spezzare il silenzio:
«Cosa lasciano i guerrieri, dopo la morte?».
Vegtamr rispose dopo qualche momento «Conquiste. Terre. E tanti cadaveri. Oggi abbiamo scoperto che lasciano anche la loro ombra».
«E cosa accade alle conquiste e alle terre, dopo le battaglie?»
«A volte non succede nulla per tanti anni. Altre volte vengono conquistate da altre persone, e così via dicendo»
«Pensi che abbia sbagliato?»
«In cosa?»
«Nel non restare. E nel dire "cercare quanto gli eroi hanno lasciato". In quel momento ho pensato alle idee e ai valori, quelli trasmessi dalle storie. Ho pensato di cercare quelli. Ma non posso trovarli, perché quelle cose non sono luoghi, e quelli che sono luoghi non sono luoghi in cui andare»
«E sul non restare? Perché pensi di avere sbagliato?»
«Non sono rimasta perché ho pensato di poter vivere per vedere e per fare ancora tanto. Ma non posso farlo finché non avrò trovato la pace, e la pace non la troverò mai. Piuttosto che cercare di vivere per non vivere mai...forse sarebbe meglio sparire»
Vegtamr le prese ancora una volta la mano:
«Anch'io ho pensato che sarebbe meglio sparire, e l'ho pensato tante volte. C'è un mondo che vorrebbe altro da me e da te, che vorrebbe che la smettessimo e tornassimo indietro, che ci fermassimo in un posto solo, facendo quello che fanno gli altri, e pensando che, anche non piacendoci, accettarlo sia il prezzo da pagare per poter vivere bene. Ma vivere bene non è accettare che le cose restino come sono, né sacrificare la nostra vocazione per un'idea che non ci appartiene, né rifiutare di essere noi stessi. Essere sé stessi, sempre e in qualunque caso, è ciò che fanno gli eroi, e quello che permette loro di rimanere saldi anche attraverso il tempo, nelle storie. È quello che hai fatto tu oggi. Ho sperato, pur senza dirti cosa scegliere, che non terminassi il tuo viaggio in quel luogo tenebroso, perché in quel caso avresti rinunciato all'impresa, e di conseguenza a te stessa. Perché, quale che sia il senso e la soluzione del tuo sentimento, io credo tu esista per quello. Tu sei quel sentimento. Il tuo percorso per affrontarlo è quello che ti renderà, forse, un giorno, un'eroina, come tutti quelli di cui mi hai parlato.
«Mi hai chiesto, mentre scendevamo, quale sia il mio esempio, il viaggiatore che mi ha segnato. Non so se hai mai sentito parlare di lui: è Odino, il re dei miei dèi, che per quanto potente e saggio e signore di tutto, viaggia sulla terra e appare nelle circostanze più improbabili, per mettere alla prova i mortali e diffondere la sua conoscenza. La persona più potente di questo universo è un viaggiatore, e ovunque sia stato hanno udito le sue storie. Non bramo il suo potere o la sua regalità, e non diventerò mai l'uomo più sapiente del mondo. Ma voglio viaggiare come lui. Essere ovunque, vedere ogni cosa, sentirmi parte di tutto il mondo. Amo viaggiare, come ti ho detto, e ho nostalgia, come te, in un certo senso; ma non nostalgia del passato, o di un posto che ho visto: nostalgia dei posti dove non sono stato.
In tanti anni non ho ancora capito perché abbia bisogno di visitare nuove terre, e la frase che mi ha detto Y Dwfn mi rende inquieto; una cosa però la so, questa vita mi piace. Ogni volta che arrivo da qualche parte, sento che il mio spirito prende fuoco, che nient'altro mi emozionerebbe mai di più. Naturalmente, è la nostalgia di cui ti ho parlato a farmi cambiare sempre, dopo un po': il pensiero di avere ancora qualcosa da vedere, e l'impossibilità di legarmi a ciò che è stabile, al solo pensiero che il luogo più bello ai miei occhi non l'abbia ancora visto. Non sono sensazioni piacevoli, ma dolorose. A volte mi sembra di non aver nemmeno più la terra sotto i piedi, e che questi si muovano per conto loro perché ormai non sono più in grado di fermarsi. Ma su questo punto d'incontro tra insoddisfazione e appagamento, in questa ferita che taglia l'integrità della mia coscienza, io mi trovo bene. E credo che non sia sbagliato»
Enid lo guardò con ancora più ammirazione di prima, e con comprensione. Stringendogli di più la mano gli disse: «Credo lo stesso anch'io».
«Grazie. Ora di' tu a me, per quanto grande sia la sofferenza che porti con te, e la paura di non arrivare mai, non senti nulla di bello nella ricerca che stai facendo?»
«Sì, qualcosa sì. Ma il mio bisogno è diverso dal tuo, Vegtamr: qualunque sia il luogo in cui devi andare, è un luogo su questa terra, e anche se non lo trovassi mai, se non esistesse, sai che camminando sulla terra sei sul sentiero che ti ci porterà. E io? Percorro la terra con te perché è l'unico luogo che possa raggiungere, ma quello che cerco non è sulla terra. E neanche lo è mai stato. Cerco il passato, ma solo per come lo immagino; cerco sensazioni che mi sono state suggerite da cose che non sono le stesse che le hanno originate: le sensazioni delle storie, che conosco nel modo in cui le conosco perché le storie me le hanno raccontate determinate persone in determinate circostanze, e persino se dovessi vedere le battaglie e le magie compiersi davanti ai miei occhi, so che sarebbero diverse da come le ho sempre immaginate. Proprio come è stato per il castello di Peredur. Ahimè! Solo ora realizzo...» e si interruppe, e un groppo alla gola le impedì di dire quello che veniva dopo.
«Che cosa realizzi?» le chiese lui, con pazienza, dopo un po'.
Ansimò e terminò la frase «Solo ora realizzo che quella che cerco è un'immagine della mia anima al di fuori di me».
Vegtamr le sorrise: «Adesso però riesci a vedere meglio chi sei veramente. Comprendersi non è facile, ma è necessario. C'è una parola, nella tua lingua, per dire quello che provi. Non te l'ho mai sentita pronunciare, però».
«È una parola che non dico mai, anche se è sempre nei miei pensieri, poiché quella parola è come se fosse il mio vero nome. Quella parola è hiraeth. La nostalgia dei luoghi e dei tempi dell'anima».
«Quei luoghi e quei tempi non li troverai, probabilmente. Ma hai detto di voler trovare ciò che gli eroi hanno lasciato. Quello credo sia possibile»
«Non so dove cercarli, però»
«Nemmeno io. Dove andremo allora?»
«Dimmi tu dove vuoi andare. Ti accompagnerò per un po', come tu hai fatto con me»


Enid e Vegtamr ripresero il cammino il giorno dopo. Si fermarono presso un villaggio di pastori dove si procurarono delle provviste, pagandole col lavoro di alcuni giorni, e dopo una settimana raggiunsero le Montagne Nere, che ricordarono a Enid il villaggio che aveva lasciato. Vegtamr volle fermarsi lì, poiché quel luogo gli piaceva, e per qualche tempo visse insieme a Enid. Fu un periodo sereno.
I pastori chiedevano loro notizie sul mondo esterno e sulla loro storia, e sia lei che lui ne avvinsero le menti con le descrizioni dei luoghi che avevano visto. Vegtamr possedeva molta più conoscenza delle terre e dei popoli, tutti diversi, che aveva conosciuto, e stupiva con i miti e le leggende del paese da cui era venuto, al di là del mare; Enid, pur avendo viaggiato di meno, conosceva molte più storie legate alla stessa terra di quella gente, e le raccontava con arte. Vegtamr un giorno le disse «Racconti come se stessi cercando la tua anima alla fine della storia», e lei si rese conto che, mentre raccontava, era come se stesse affrontando le stesse prove delle persone di cui parlava. La sua cerca stava procedendo.
Un giorno, sentendo il richiamo della via, il viaggiatore volle ripartire, ed Enid lo seguì. Si fermarono lungo il corso di un lago, presso una piccola comunità di pescatori, e anche qui Vegtamr volle fermarsi, ed Enid rimase ancora con lui. In più di un'occasione i due litigarono, come sempre accade quando ci si trovi a passare molto tempo insieme; ma non si separarono mai, poiché il percorso e le esperienze che li legavano erano ormai troppo grandi. I pescatori chiesero loro chi fossero e che viaggio avessero fatto, e anche qui i due compagni stupirono ed emozionarono con le loro storie. Enid sentiva che il fatto stesso di poter raccontare quelle storie a così tante persone era parte di quello che le era stato lasciato, ma sentiva anche che la sua nostalgia non diminuiva, e anzi, diveniva più grave ogni volta che rievocava quelle immagini. E iniziava a mancarle anche il villaggio in cui era cresciuta.
Quando Vegtamr fu stanco di rimanere là, propose a Enid di raggiungere il mare, e lei fu d'accordo.
Si stabilirono lungo la costa nord-occidentale, la esplorarono a lungo, e trovarono una cittadina portuale dove si stabilirono nel tempo che seguì.
Enid amava il mare, ma poche volte l'aveva ammirato con i suoi occhi. Quel tratto di costa sconosciuto, nella sua mente, era il luogo dal quale erano venuti gli dèi e i conquistatori, mentre i gorghi davanti a lei erano tane di mostri marini. Il mare era fatto di storie, attirava la sua nostalgia e l'acuiva, come ormai ogni cosa.
In quella cittadina lei e Vegtamr trovarono un ambiente meno caloroso e compatto di quelli precedenti, ma ebbero occasione di raccontare qualcosa nelle locande o nelle piazze. Presso gli anziani del luogo, al contempo, ebbero occasione di scoprire altri racconti, che non conosceva nemmeno lei. Ed ebbe prova ulteriore di quanto fosse bello per lei raccontare agli altri, a chi non le conosceva, le storie che erano la sua vita.
Un giorno, mentre cenava con Vegtamr, gli disse di aver fatto una scoperta importante.
«Quale sarebbe?» le chiese.
«Ho scoperto che cosa hanno lasciato gli eroi»
«Che cosa hanno lasciato?»
«Le storie stesse. Hanno lasciato materia su cui cantare; hanno lasciato un focolare intorno al quale le persone possono riunirsi e scoprire o riscoprire sé stesse; hanno lasciato immagini nella nostra mente dalle quali possiamo trarre altre storie ancora»
«È vero. E riunendosi per ascoltarle sentiamo di essere profondamente simili, di possedere spiriti che si emozionano e turbano per le stesse cose. Ma come faremmo a trarre nuove storie ancora?»
«L'ho imparato scoprendo le storie degli altri, e in primo luogo quelle della tua terra: anche se con altri nomi e in altri luoghi, ci sono dèi, eroi e mostri comuni tra le mie e le tue. Molti di loro fanno le stesse cose, e altri ancora, nella stessa situazione, prendono una decisione diversa. Se dessi voce alle sensazioni che ho nel mio cuore, potrei raccontare le storie nel modo in cui le sento io, diverse da come sono state raccontate la prima volta; e potrei condividere la mia nostalgia.
«Non è vero, in ogni caso, che tutti si emozionano e turbano per le stesse cose. A molti piace udir parlare del corteo del dio cacciatore attraverso il cielo, ma molti altri non ci credono e sono disinteressati a ciò che non potrebbe accadere davvero. Le imprese degli eroi vengono trovate da alcuni eccessive, e sciocche da quanti ritengono l'onore e la vita degli altri meno importanti della propria soddisfazione. Il mondo sta cambiando, e il tempo per gli eroi è sempre di meno»
«Pensavi questo anche quando ci siamo incontrati la prima volta»
«È vero. Ma adesso ho visto molte più cose e conosciuto più persone. In alcuni rimane un'indole pronta a ispirarsi per queste storie, e a provarne nostalgia. Se non rimarremo soli, ma riusciremo a trovarci e a condividere le nostre storie, dureremo ancora quando saranno trascorsi altri secoli e quel tempo sarà più lontano. E porteremo le storie con noi.
«Se poi, per un cambiamento del mondo e del suo corso, fossero i più, anziché i meno, ad avere quell'indole, potremmo addirittura avviare un nuovo tempo degli eroi, con nuove magie, nuove imprese, e altre storie ancora»
«Sono felice che tu abbia trovato quello che cercavi. E di essere stato parte di questa storia. Ma stai bene, adesso? Non ti pesa più la tua nostalgia?»
Enid abbassò lo sguardo «No. Avevi ragione: io sono quella nostalgia. Io sono il mio hiraeth. E non potrei mai vivere senza; posso però condividerlo, e in quel modo, rendere partecipi anche le persone che sono insieme a me, così che da dolore solo mio esso diventi un legame per tanti altri. Se loro avessero il desiderio che ho io, anche senza realizzarlo potrebbero trasformarlo in qualcosa di bello».
«Da dove comincerai allora?»
«Tornerò al mio villaggio. Nonostante quanto ti dissi all'inizio, ho scoperto che mi manca. Sulla strada del ritorno mi fermerò dove ne avrò la possibilità, e racconterò a quelli che troverò. Verrai con me?»
«Vorrei» Vegtamr sospirò «ma ho preso una nuova risoluzione anch'io. Aspettavo di potertene parlare. Secondo alcune storie, all'estremo ovest di questa regione, oltre la costa, c'è un sentiero. Un sentiero che passa in mezzo ai flutti e conduce in un altro posto, dove nessuno è mai stato. Non so se sia vero, ma ci ho riflettuto per giorni, e dopo aver visto così tanti paesi ed essermene sempre andato, voglio provare a raggiungere questo mondo inesplorato. Chissà che non abbia più fortuna degli altri».
«Ho udito anch'io queste storie. Ma coloro che le raccontavano ne parlavano senza convinzione, come di una diceria in cui non crede più nessuno. Potresti non tornare mai più» disse lei, accigliandosi.
«Lo so. Ma ormai il bisogno di andarci è troppo forte. La mia nostalgia al contrario, la mia fernweh, è già rivolta a questo luogo. Vorrei che ci salutassimo come si deve, prima che parta»
«Ti accompagnerò fino all'estrema sponda occidentale, e ci saluteremo lì. Poi tornerò indietro, e racconterò tutte le storie come ho in mente di fare. E insieme ad esse, ne racconterò un'altra. La storia di un viandante che misurava la sua vita in leghe e la sua saggezza coi nomi delle regioni, che aveva su di sé affanni molto pesanti e ciononostante si assunse il peso di quelli di un'altra persona, e quando questi non gli bastarono più, partì per l'assoluto alla ricerca di una vita e di una saggezza più grandi. Pensi che piacerà?»
Vegtamr sorrise «Solo se la racconterai tu».

Lasciarono la città due giorni dopo. Camminarono fino alla punta più occidentale di quella terra, e vi rimasero insieme per ancora un giorno. Poi Vegtamr si mise alla ricerca del sentiero, ma non lo trovò né quel giorno né il seguente. Enid era sempre più convinta che non esistesse, e benché fosse in parte afflitta, poiché aveva compreso quanto lui ci tenesse e poiché pensava che sarebbe stata una storia meravigliosa da raccontare, per rendere onore alla persona che era stata la più importante della sua vita fino a quel punto, e far sì che fosse ricordata per sempre, si rese conto di esserne in parte felice, poiché il pensiero di separarsi da lui le metteva addosso una tristezza indicibile.
Il terzo giorno, Vegtamr gridò di gioia: l'aveva trovato. Una lunga fila di gradini scendeva fin sotto il livello del mare, e proseguiva in un lungo percorso; ancora più incredibile era che i gradini e il sentiero fossero all'asciutto, mentre il mare, a destra e a sinistra, scorresse su sé stesso formando delle pareti che divenivano via via più alte, man mano che il fondale si abbassava. Nessuno dei due compagni aveva mai visto nulla del genere, e il desiderio di andare attraverso quel sentiero raggiunse il cuore di Enid. Si avvicinò a Vegtamr. Lui, che aveva perso la percezione di ogni cosa che non fosse il prodigio davanti a lui, la guardò e annunciò, felice:
«A quanto pare, anche questa storia era vera. Forse la strada non esiste per coloro che non ci credono, ma si è aperta per me».
«Voglio venire con te» sussurrò Enid «anche al prezzo di lasciar stare tutto. Fammi restare con te, perché il fardello che ho davanti mi sembra troppo pesante, adesso che so che tu non lo reggerai insieme a me».
«Sono certo che sia così pesante. E non ti impedirei di venire con me. Ancora una volta non voglio forzare il tuo giudizio. Ma ricorda che hai formulato una decisione, l'altro giorno. Devi compiere la tua impresa perché ce n'è bisogno, e raccontare, raccontare tutto, tutto, ogni cosa, a tutti coloro che incontrerai. Raccontare anche di me, se pensi ancora sia un bel racconto. E nelle storie che racconterai, io, come tutte le persone che hai conosciuto, come gli eroi alla cui ricerca ci siamo messi in viaggio insieme tanto tempo fa, sarò sempre vicino a te».
Davanti a quella prova, per la prima volta da quando era partita, Enid pianse. E anche Vegtamr pianse, per quanto lo celasse. Il mare rumoreggiava davanti a loro.
Fu allora che Enid realizzò che da quel momento in poi avrebbe provato un nuovo genere di nostalgia, cui non era preparata: la nostalgia per una persona che amava. E si domandava, disperatamente, cosa potesse fare contro questa nuova sofferenza. Forse sarebbe stato davvero meglio non lasciarlo andare. Ma la sua ricerca? A cosa sarebbe servito tutto quello che aveva fatto fino a quel momento?
Allora Vegtamr le tese il bastone con cui aveva sempre viaggiato, e le disse: «Questo bastone è stato sempre con me, fin dal primo viaggio. Ci tengo molto. Ma per questa volta posso anche farne a meno. Tienilo tu, ora che hai davanti a te un viaggio ancora più importante. Ti sosterrà come ha sostenuto me, e come io ho sostenuto te. E guardandolo saprai che quello che abbiamo fatto è avvenuto davvero».
Enid lo prese, il suo volto era completamente arrossato dal pianto. Si tolse il nastro dai capelli, il nastro con cui li legava, e lo tese a Vegtamr dicendo «Questo nastro me lo diede mia nonna, colei che mi raccontava le storie, quand'ero molto piccola. È un ricordo, l'oggetto più caro che possieda. Portalo con te come io porterò il tuo bastone, perché ricordi anche a te il nostro viaggio e per non dimenticare neanche tu che è avvenuto davvero».
Vegtamr ringraziò con un cenno, quindi legò il nastro intorno ai propri capelli.
Infine, senza mai mollare il bastone, Enid lo abbracciò, e lo ringraziò per tutto quello che aveva fatto per lei. E Vegtamr l'abbracciò a sua volta, e la ringraziò per tutto quello che aveva fatto lei per lui. Così lei si fece indietro e rimase a guardare, e il viandante da nessun luogo, rivoltosi all'orizzonte, entrò nel sentiero attraverso il mare e si incamminò verso l'ignoto.
Enid restò a guardare finché non fu più possibile distinguere la sua figura, dopodiché si piegò sulle ginocchia e pianse ancora, per l'ultima volta. Quindi, puntando il bastone per terra, si risollevò e guardò verso l'entroterra: la vita che vedeva davanti a sé, cui così difficilmente era riuscita a trovare un senso, le sembrava adesso ancora più vuota e più triste. Lei stessa era molto più triste di prima; ma anche più saggia. Avrebbe fatto quello che aveva deciso di fare, perché voleva farlo e perché era quanto Vegtamr desiderava che facesse. Così, con la vista che tornava chiara attraverso le lacrime, una parte del viandante che l'aveva aiutata stretta nella sua mano, e una parte di lei lontana insieme a quel viandante, la donna della Brughiera che aveva l'hiraeth nel cuore si rivolse al mondo e si mise in marcia, per raccontare a tutti quanti le sue storie.