giovedì 29 dicembre 2016

Seduto accanto al fuoco - Tolkien, il signore della mitopoiesi III

Sto leggendo Lo Hobbit. Dovrei parlare di rilettura, ma si tratta di una lettura diversa da quella che ho già fatto, primo perché lo sto leggendo in inglese, e secondo, perché sto leggendo la prima versione, quella pubblicata nel 1937 come primo romanzo di Tolkien, diversa da quella che si trova comunemente nelle librerie, con delle modifiche e delle aggiunte per congiungersi al legendarium della Terra di Mezzo, rispetto al quale Lo Hobbit era stato inizialmente concepito come indipendente.
Oltre che una storia di nani e di orchi, una caccia al tesoro, un racconto per i più piccoli, un maturo esempio di narrativa fantastica e un tassello del mosaico tolkieniano, Lo Hobbit è una storia di formazione, anzi, di riformazione: la storia di una persona che ha imparato a vivere in un modo, e che di punto in bianco si trova a vivere in un modo diverso, rendendosi conto di preferirlo. Ed è su questo che batteremo adesso.
Copertina integrale dell'edizione del 1937 de Lo Hobbit
della George Allen & Undwin, di cui la Harper Collins ha fatto
stampare un facsimile proprio quest'anno.

Il signor Baggins viene dovutamente descritto come un Hobbit che rientra perfettamente nei canoni della società cui appartiene; una società che si presenta simile a quella di un moderno stato borghese, modellata su quella inglese del primo Novecento, tanto che, per questo e altri motivi, Lo Hobbit è stato associato spesso all'Alice di Lewis Carroll; si potrebbe, semplicisticamente, dire che, se Carroll mette in ridicolo quella società e quel modo di vivere con un mondo di personaggi e situazioni paradossali e caricaturali, Tolkien -il cui intento satirico è comunque secondario- lo pone a confronto del mondo antico degli eroi e delle leggende. Bilbo ha bisogno di ordine, precisione, eleganza, formalità, tutti requisiti su cui reggere l'idea di "rispettabilità", vale a dire, integrazione con la propria società. I nani che Gandalf gli porta in casa, al contrario, vivono all'aperto, sono rumorosi, sporchi, armati, e il loro fine è quello di raggiungere una terra lontana, uccidere un drago e possedere quella terra e il suo tesoro. Un mondo statico, quello degli Hobbit, per il quale si nasce entro dei parametri e si rimane entro quei parametri, contro un mondo in cui, se all'inizio non si ha molto, la vita e la sua condotta possono portare a prendere molto di più.

Vanno rilevate delle circostanze che fanno una differenza: innazitutto, i Nani che si uniscono a Bilbo, non sono i primi straccioni trovati nel quartiere: Thorin stesso -che meriterebbe un discorso a parte in quanto re decaduto- spiega che tutti loro, grazie al lavoro e all'adattabilità, sono riusciti a trovare un profitto e ritagliarsi una vita rispettabile -anche loro- anche in terra straniera, lontano dalla Montagna Solitaria che è stata loro sottratta dal drago. Inoltre, gli Hobbit sono quasi esplicitamente definiti come migliori rispetto agli esseri umani, dato che hanno un rapporto molto intenso con la natura -basti pensare che vivono in buche nel terreno e camminano a piedi scalzi- hanno una saggezza che, è l'autore stesso a dirlo, "gli Uomini non hanno mai avuto o hanno dimenticato", e non fanno rumore. Una comunità di Hobbit dediti a lavorare la terra, fumare placidamente, preparare e consumare il cibo in grandi quantità e accogliere rispettosamente qualunque ospite -anche sospetti vecchi erranti con la barba, se occorre- è sacra e pura come poche comunità di Uomini.

"One Morning Long Ago", l'espressione che indica il tempo de Lo Hobbit,
il giorno in cui Gandalf si reca a casa di Bilbo per condividere con lui la sua avventura.
Illustrazione di Ted Nasmith, il più illustre insieme a John Howe e Alan Lee.

D'altra parte, l'utilizzo di uno stile ricco di ironia e che tende a filtrare il viaggio e l'avventura attraverso termini e attitudini vicine a quella della succitata, archetipica società benpensante, può smussare e appianare questo contrasto tra i due mondi.
Nel Signore degli Anelli, che rispetto a Lo Hobbit descrive molto più dettagliatamente gli usi degli Hobbit, le dimensioni che si contrappongono sono quella intima e familiare della Contea e quella smisurata e assoluta del mondo degli Uomini. La Contea è una comunità di persone che vivono secondo una ben determinata divisione ed amministrazione, molto legate alle loro tradizioni e a quell'idea di rispettabilità di cui sopra. Al tempo in cui inizia la narrazione del romanzo, ricordiamo, i Baggins -Bilbo e Frodo- sono visti quasi come dei "diversi", perché Bilbo, cosa assurda per un Baggins, ha vissuto qualcosa di "inaspettato", e, assurdo per qualsiasi Hobbit, è partito per un'avventura; Frodo, data la mentalità "paesana" degli Hobbit, è visto come un po' strano a sua volta, in quanto parente di Bilbo, nonché per il ben noto interesse che ha maturato verso i racconti dello zio sul mondo esterno, le storie antiche e materie affini. Non si dimentichi, comunque, che ciò non pregiudica il rispetto che gli Hobbit della Contea hanno per loro, semplicemente sono considerati pittoreschi, e questa caratteristica è per loro inusuale.
"The anger of the Mountain", illustrazione di Ted
Nasmith che raffigura l'episodio del passo di Caradhras.

Se solo si pensa -questo il potere visivo del film lo facilita- alla differenza fra gli indumenti dei Mezzuomini, con giacche, camicie e panciotti, e gli Uomini delle Terre Libere nelle loro tuniche e mantelli, l'idea che ci si fa è che gli Hobbit sono più vicini al mondo dei lettori rispetto agli stessi Uomini. Certo, la nostra è una società dall'impronta innanzitutto urbanistica, mentre gli Hobbit incarnano il paradigma della vita rurale, ma le loro abitudini (salvo qualche colazione di troppo) le ritroviamo più o meno simili nelle usanze odierne, come le ritrovava Tolkien sessant'anni fa; del pari, più lontana da noi è la società dei Rohirrim, con la "sala dell'idromele", il comitatus del re e dei suoi feudatari più devoti e tutte quelle usanze anglosassoni che il Professore ha rinarrato per parlare di loro; lo è anche Minas Tirith, che vive del culto dei re del passato e dell'annalistica. La finestra che apre l'autore dà sui re, i principi e i nobili di questi paesi, non ci viene detto granché sul popolo e sulle "persone comuni", ma possiamo bene intendere che il popolo di Rohan, quello di Gondor, quello di Esgaroth e tutti gli altri, vivevano press'a poco nello stesso modo in cui vivevano i popoli dell'Europa medievale.

Perché questo Medioevo? Detta così questa domanda dovrebbe contenere tutto quello che ho scritto finora in questo sito, e non le potrei neanche rispondere. Riformuliamo: perché Tolkien (e prima e dopo di lui, tantissimi narratori, poeti ed artisti) sceglie il Medioevo come base storica -cioè in termini di strutture politiche, rapporti sociali, usanze, tecnologia e costumi- su cui edificare una storia di popoli che esprimono la libertà?
Perché è Tolkien per primo ad essere insofferente ai vincoli del mondo moderno. Non in maniera passatistica o per l'idea di passato in sé, ma per dati che, condivisibili o meno, non si possono non vedere: la macchina, l'industria, i processi automatizzati che violano il rapporto dell'uomo e della natura, l'atto creativo dell'artigiano sostituito da quello sprovvisto di anima della catena di montaggio. I vincoli degli assetti burocratici e istituzionali moderni, il controllo di grandi entità -individuali o meno- sulla vita dei singoli fin nella sua dimensione più privata. La logica dell'acquisto e della concretezza che getta la sua ombra su tutto quello che è astratto. Sono questi, i grandi sconvolgimenti della modernità, il male che si sta insinuando nella Terra di Mezzo, l'antagonista del romanzo di Tolkien, Sauron "che offre doni". La risposta è l'affresco di un mondo senza tutto ciò, un mondo che appartiene, vorrei ricordare il sito dove ho visto questa definizione, a persone che amano la poesia, la musica, la natura, nonché il buon cibo, e aggiungerei l'amicizia e la comunione delle esperienze e dei sentimenti; e un mondo in cui, quando esso viene minacciato, queste persone possono partire per salvarlo e cambiarne le sorti senza avere vincoli a limitare le loro azioni, vincoli di stati, di leggi e di cose scritte da sconosciuti. Il nome "Popoli Liberi" indica solo il loro non asservimento a Sauron e all'Anello, ma in quest'ottica sembra ancora più azzeccato.

La cavalcata dei Rohirrim in uno dei momenti più emblematici della battaglia dei Campi del Pelennor.

Diviene chiaro a questo punto che vi sia un cambiamento di prospettiva fra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, tanto più che il primo è un romanzo d'avventura incentrato su un solo (anti)eroe, mentre il secondo è un grande èpos moderno, non esattamente corale, ma incentrato sulle sorti di interi popoli molto lontani fra loro.
La società degli Hobbit non solo non è minimamente intesa come negativa, ma, semmai, portatrice di valori fra i più positivi, risolutivi per tutte le storie che vedono Mezzuomini tra i protagonisti: è la loro umiltà, semplicità, unita alla loro tenacia e determinazione, a permettere ai Nani di Thorin Scudodiquercia e ai Popoli Liberi di trionfare contro i loro nemici. Nella Terra di Mezzo i mali sono l'avidità, la prepotenza (Smaug), la volontà di dominio (Saruman), e tutte quelle altre brame egoistiche -perché il male, nella maggior parte dei casi, deriva da là- che, insieme a quelle già dette, sono prerogative di Sauron, nonché di Morgoth prima di lui.
"Dol Amroth", di John Howe.
La società degli Hobbit, però, non è conciliabile con quella degli Uomini. L'avventura e la battaglia affascinano alcuni Hobbit, un po' strani e diversi dagli altri, ma per la maggior parte degli abitanti della Contea non avrebbero nessuna attrattiva. Ed è giusto così: se la guerra e la violenza degli uomini contagiassero la Contea, essa cesserebbe di essere quello che è. Alla fine del Signore degli Anelli, del resto, la Contea cambia e non tornerà mai più quella di un tempo.
Se l'idea iniziale, dunque, era dimostrare come il mondo da saga norrena di Gandalf e Aragorn sia un mondo irresistibile che scalda il sangue finché qualunque piccolo Mezzuomo provinciale non trattiene il desiderio di partire, è stata mitigata da un accorgimento che mi hanno insegnato questi ultimi mesi, e cioè che nella grande diversità che esiste fra gli uomini ve ne sono molti che bramano due tipi diversi di fuoco, alcuni il grande braciere del furore e dell'avventura, altri il caldo focolare che raduna intorno a sé i membri di un gruppo e rinforza il loro vincolo. La vita è fatta di un tempo per riposare e un tempo per agire, di azioni pacifiche e azioni intensive, e molti alternano l'un fuoco all'altro; l'animo che desidera l'ardore non può essere forzato alla pace e alla quiete, e così, l'animo mite non dovrebbe mai, per nessun motivo, essere costretto alla forza.
Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli sono così, raccontano tempi di pace e tempi di guerra e fanno respirare l'aria dell'uno e l'aria dell'altro. Per quelli che, insofferenti come Tolkien ai ritmi di un mondo che non sentono più come il loro, laddove, nelle pagine dei suoi romanzi, con altri nomi e altre lingue, scorgono quello stesso mondo risplendere di gloria e di bellezza, i due romanzi sono una campana che chiama i guerrieri alle armi per riprenderselo.

Giunge così alla fine l'ultimo post dell'anno, iniziato pensando a una canzone di Bilbo, che ricorda il passato e si proietta sul futuro "seduto accanto al fuoco". Anche se la mia presente contingenza non mi permette di stare seduto accanto al fuoco, a meno di uscire di casa e cercare un posto dove ci sia un camino, l'atmosfera invernale, o l'idea che ne ho, mi ispira un momento del genere. Così, pensando a quanto fatto quest'anno, a quanto ancora da fare, e soprattutto alla storia di Bilbo e di Frodo, chiudiamo il discorso con i versi della poesia e la sua splendida versione musicale a opera degli italianissimi Lingalad. Namárië!

"Seduto accanto al fuoco, rifletto 
Su tutto quel che ho visto 
Sulle farfalle ed i fiori dei campi 
In estati ormai da me distanti


Penso a foglie gialle e a tele di ragno 
In autunni che più non torneranno 
Alle nebbiose mattine, e al sole d'argento, 
E ai miei capelli agitati dal vento.

Seduto accanto al fuoco, rifletto 
Al mondo che sarà, 
Quando l'inverno un giorno giungerà, 
Ma della primavera io non vedrò l'aspetto.

Vi sono infatti tante e tante cose 
Che io purtroppo ancora non conosco: 
Diversi in ogni prato ed in ogni bosco 
Il verde ed il profumo delle rose.

Seduto accanto al fuoco, rifletto 
Ai popoli vissuti tanto tempo fa, 
Ed a coloro che vedranno un mondo 
Che a me per sempre ignoto resterà

Ma mentre lì seduto rifletto 
Sui tempi che fuggiron veloci 
Ascolto in ansia ed aspetto 
Il ritorno di passi e di voci."

Bilbo a Gran Burrone
Fonte: http://cg-warrior.deviantart.com/art/Bilbo-in-Rivendell-333595026

giovedì 22 dicembre 2016

Cavalcata in ascesa verso l'inverno

Il ritorno dell'Anima del Mostro avviene oggi, all'indomani del solstizio d'inverno. Questo segna l'inizio della mia stagione preferita, che porta con sé così tante suggestioni, immagini, sensazioni, e storie, più di ogni altra cosa, che è davvero difficile scegliere di cosa parlare. Dev'essere nella natura dell'inverno essere così fecondo, anche e forse proprio perché sembra così morto: l'inverno, stagione del freddo, porta gli uomini ad accendere il fuoco per riscaldarsi, provocando questo contrasto fra calore e gelo, fra interno ed esterno, protezione e minaccia, vita e morte, luce e tenebra, e potremmo continuare ancora, che sono quelle coppie di opposti alla base del cosmo e della vita (o almeno, di come li vediamo io e gli antichi). È così che tutto ha inizio secondo l'Edda, con il contatto tra le scintille del Müspellheimr e il vento freddo del Niflheimr nel vuoto cosmico di Ginnungagap (qualche dettaglio in più in uno dei post più vecchi) che danno origine a tutte le cose.

Il solstizio d'inverno è uno dei giorni con maggior rilevanza spirituale presso tutte le culture. Presso la religione dei Celti e quella germanica si chiama Yule, e è il momento in cui la ruota dell'anno, il corso del quale è scandito dal movimento di tale ruota, raggiunge il punto più basso e inizia la risalita (il nome potrebbe dunque derivare dal norreno Hjól, cioè ruota), visione metaforica del percorso per il quale, dopo che le ore di buio diventano sempre di più, iniziano a diminuire.
Ecco, questa della salita, dell'ascesa, è un'idea che mi rincuora ritrovare nelle credenze antiche, dato che è una scoperta che ho fatto quest'anno. L'autunno, che mi ha visto dedito a studiare prima i mostri (a ottobre, sul mio profilo di Facebook) e poi il mondo dei morti (a novembre, con i post sulla Danza), è stato come un percorso in discesa (un bel percorso, peraltro, questi sono stati mesi felici), e quando dicembre è arrivato, portando nella mia mente immagini di distese innevate e storie vicino al fuoco, insieme a visioni di leggende come quelle di cui parlerò tra poco, si è costituito come idea di salita, moto -obliquo, non verticale, quindi graduale e ripido- verso l'alto, una meta che, quale che sia, è nobile e rifulge di bellezza come il ghiaccio.

Ora, dalle saghe islandesi sappiamo che, in occasione di Yule, i popoli nordici sacrificavano un maiale a Freyr, dio della fertilità (e tuttora, nei paesi scandinavi, si mangia carne di maiale a Natale). Anche la capra è associata allo Yule nordico: la capra è l'animale sacro di Thorr, e alcune leggende descrivono la corsa in cielo di Þórr (Thor) sul suo carro trainato dalle sue capre Tanngnjóstr e Tanngrisnir. Il che non è che una variante della Caccia Selvaggia.
La Caccia Selvaggia (Wild Hunt in inglese, Wutende heer in tedesco), anche detta Caccia infernale, o Caccia morta in Lombardia, è il nome con cui ci si riferisce a numerose storie, che traggono origine dal mito e abbondano nelle leggende del Nord Europa, come della Francia, della Spagna e dell'Italia settentrionale, riguardanti processioni di esseri animati, animali e/o umani, di natura sovrannaturale, ultraterrena o demoniaca, che avvengono di notte e sono cariche di segni e di presagi. È uno dei tòpoi imitologici che preferisco, e che abbonda in letteratura, non solo nelle saghe o nell'Edda (Secondo carme di Helgi uccisore di Hundingr), ma anche in opere italiane, prime fra tutte la Commedia, il Decameron (Nastagio degli Onesti) e la Gerusalemme Liberata, fino a permanere, com'è dovuto, nel fantasy, assumendo particolare rilevanza nella saga di Andrzej Sapkowski e dando il titolo al terzo dei videogiochi tratti da essa, intitolato appunto "The Witcher 3: Wild Hunt". Per chi non è pratico dell'ambiente è un nome come tanti, ma avere un minimo di cultura videoludica farà squillare un campanello.
"La caccia selvaggia" di Johann Wilhelm Cordes (1856, 1857)

È un tòpos che abbonda e che adoro, come dicevo, e uno degli argomenti cui intendo dedicare un post da prima di iniziare il blog: ma poiché esso merita uno spazio esclusivo, e devo ancora raccogliere più materiale di quello che ho a riguardo -nonché finire The Witcher 3!- questo post è preannunciato ma ancora da realizzarsi. In questa sede mi accontenterò di un paio di nozioni.
La prima è che il prototipo della Caccia Selvaggia va ricercato nella mitologia nordica, dove il suo protagonista è Odino. La leggenda vuole che il Padre di Tutto, durante le dodici notti che seguono il solstizio d'inverno, cavalchi sul suo destriero a otto zampe, Sleipnir, alla testa di un corteo di anime di guerrieri chiamati Einherjar, cioè "soldati in armatura", tutti i morti in battaglia degni di accedere al Valhalla, che, divisi in vita sotto schieramenti diversi, sono ora uniti in un'unica armata che si prepara alla battaglia finale il giorno del Ragnarök. Il contatto fra popoli e la trasmissione delle storie ha causato molte varianti geografiche della Caccia, che di volta in volta è capeggiata dalla più illustre figura della cultura locale, fra Re Artù, Carlo Magno, Nuada (leggendario re dell'Irlanda); in alcune storie del folklore italiano, il capo della Caccia ha nome Beatrik ed è un alter ego del re Teodorico. E naturalmente, in molte altre versioni il capo della Caccia è il Diavolo, al quale gli dèi pagani sono frequentemente assimilati.

Tornando a parlare di Odino, è davvero straordinario come questo grande dio riesca ancora a farsi sentire, laddove altri non ne sono in grado. Già nel post sull'elegia anglosassone consideravo come nella voce di Gandalf riecheggi ancora la sua grande saggezza, ma in questo caso si va oltre la letteratura e la narrazione, si parla di qualcosa che si avverte più concretamente. Perché un vecchio con la barba che solca il cielo invernale insieme ad animali volanti è qualcosa di molto, molto familiare.
Con questo non voglio sostenere che Babbo Natale si possa identificare col Padre dei Caduti, perché intercorre una differenza di epoca, di valore, di credenza e tanto altro. Ma proprio questa impalpabilità, questo margine di inesattezza che non si può mai correggere, questo profilo sfocato che non si stabilizza, è ciò che caratterizza le idee. E Babbo Natale, sempre attorniato da folletti, o magari "elfi" (vale la pena ricordare che elfo deriva proprio dal norreno alf, e che gli alfar nella mitologia sono esseri superiori, in uno stato d'esistenza a metà fra quello umano e quello divino, che, come i Nani, sono in parte collegati al mondo dei morti), che solca il cielo su una slitta trainata da renne volanti e che sa sempre come si sono comportati i bambini durante l'anno, quasi avesse, come Odino, due corvi che volano per il mondo e gli riferiscono ogni giorno tutto ciò che hanno scoperto, non può non avere, all'origine della sua storia, accanto a storie cristiane come quella di San Nicola, un'idea antica e archetipica come quella di Odino, che, scavando ancora, ci porterebbe a parlare dei più antichi dèi legati al cielo, alla saggezza e all'eternità.

Chi conosce, poi, la leggenda di San Nicola? Abbondano i riferimenti nei libri di scuola e nei post sui social ricondivisi ogni volta durante le feste, e forse è per questo che non la prendevo abbastanza in considerazione. E invece, anche qui, si tratta di qualcosa di molto interessante.
Tanto per cominciare, il vescovo San Nicola di Myra vive nel IV secolo, le sue reliquie vengono traslate e sono oggetto di culto nel Medioevo. È protettore di molte categorie di persone, come i marinai, i mercanti, anche le prostitute e gli usurai, a seconda di dove si va; in ogni caso, è il santo patrono di Bari, e lo è dei bambini. La storia di come salvò alcuni bambini dalla miseria colmandoli di doni è un altro dei motivi originari del Natale. Oltre a questo, San Nicola è legato a un'altra leggenda legata al Natale, una leggenda cui ho visto acquisire maggiore notorietà quest'ultimo anno, probabilmente grazie anche a un paio di film usciti nel 2015, e che è molto adatta alle pagine di questo blog: la leggenda del Krampus.
Il Krampus è una via di mezzo fra il diavolo, l'uomo nero e Babbo Natale. Nelle sue numerose raffigurazioni mantiene sempre una folta pelliccia, due lunghe corna caprine e un volto crudele, e si occupa di punire i bambini che si comportano male, in maniera decisamente più severa rispetto alla sua più nota controparte, che in queste storie ha la sola valenza positiva: può portare loro il carbone, colpirli, o condurli via con sé. La storia che lo lega al santo parla di un gruppo di giovani, camuffati con corna e pellicce per spaventare i vicini, che si rendono conto che uno di loro è il diavolo in persona, indistinguibile se non per gli zoccoli al posto dei piedi, e vengono salvati da Nicola di Myra che scaccia  il maligno; altre storie, appartenenti al folklore germanico, raccontano invece di un mostro che si intrufolava nelle case per uccidere e mangiare i bambini, finché gli abitanti del villaggio non riescono a chiamare un religioso o un santo, che riesce a imprigionare la creatura usando dei ferri benedetti, costringendola, da allora, a usare la sua abilità di passare attraverso i camini per portare doni a coloro che abitano nella casa.

Ci sarebbero molte altre storie, tra i vari miti, le leggende e le credenze d'Europa, poi evolutesi anche attraverso la loro importazione in America, in cui ritrovare le basi della moderna iconografia di Babbo Natale, nonché del Krampus, della Befana, di storie legate al Natale e all'inverno. Questa è solo una base da cui partire, tanto io quanto chi leggerà, per apprendere e ricercare quanto si può scoprire sui mondi e le storie messe a punto dall'uomo, e sul potere della sua intelligenza creativa, della sua fantasia, della sua parola e della sua arte.
Ora che il solstizio è passato, una di queste notti potrebbe capitare di vedere i cavalieri ultraterreni avanzare furenti attraverso il cielo notturno; oppure, la notte del 24, di scorgere Babbo Natale sulla sua slitta; in casi meno fortunati -a seconda dei punti di vista- di ritrovarsi faccia a faccia con un Krampus mentre si sgranocchia del torrone su una sedia a dondolo accanto al camino. Comunque vada, questo è l'inverno. È il tempo dell'anima, dell'estasi poetica -tale è il significato del nome di Odino- il palco dello spirito dionisiaco che si agita in ogni uomo, la fredda notte in cui non si può uscire di casa, pena l'essere rapiti nel mondo infernale da cavalieri spettrali, e si attende, accanto al focolare, che passi, raccontando storie durante l'attesa e rendendosi conto, perché forse lo si era dimenticato, che oltre l'ingannevole danza di luci c'è una bocca tenebrosa che chiede di essere riempita, un'anima che ha bisogno dei mostri.
Un buon inverno, un buon Yule, e un gioioso e santo Natale, tutti e tre insieme, a chi legge l'Anima del Mostro.

giovedì 1 dicembre 2016

Il settimo sigillo - La cerca cavalleresca di Dio (Danza di ossa autunnali, parte IV)

Questo post, che conclude la nostra danza, è quello da cui è cominciato tutto.
Un anno fa ho visto per la prima volta, credo ad ottobre, "Il settimo sigillo" (Det sjunde inseglet) di Ingmar Bergman (1957), che da allora è uno dei miei film preferiti; certamente era mio intendimento parlare di cosa mi avesse lasciato questo film, ma c'erano tanti altri argomenti su cui scrivere allora, e il blog era appena nato, così ho rimandato a quando fosse stato il momento più adatto.
A un anno di distanza, ricordando le sensazioni di quel periodo (che era anche quello in cui andavo scoprendo la bellezza dello studio del Medioevo e delle sue atmosfere caratteristiche, sia quelle ricostruite dalla storia che quelle suggerite dall'arte) mentre vivevo un altro autunno, ho deciso di scrivere le mie osservazioni su questo film per la prima settimana di novembre, in modo da pubblicarlo all'indomani del giorno dei morti. E invece?
Invece, pensando di dover leggere un po' quello che c'è a monte del film, e quindi anche le raffigurazioni della morte nel Medioevo, ho finito non solo per studiare l'argomento come attività principale dell'intero novembre, o prendere in prestito un intero saggio, ma di scrivere una serie di post che mi ha occupato per tutto il mese. Dopo aver rivisto il film, e scritto quella che doveva essere una premessa o un contenuto in più, la storia delle danze macabre, e che è invece diventata il nucleo, adesso scriverò di quello che ho visto nel Settimo sigillo, che da nucleo è diventato un elegante epilogo.
Per proseguire con la lettura del post, occorre aver visto il film. Cosa, non l'hai visto? Vedilo adesso, lo trovi anche in streaming, quando hai finito torna qui, il post non si muoverà.

Fatto? Bene, cominciamo.

La partita a scacchi con la Morte
Prima di dirigere il film, Ingmar Bergman, nel 1955, scrive un dramma dal titolo "Pittura su legno" (Trämålning), in cui figurano già i protagonisti del film, il cavaliere Antonius Block (che nel dramma però è muto) con lo scuderio Jons, i quali, di ritorno da una crociata, viaggiano per la Svezia di fine XIV secolo, vessata dalla peste, facendo la conoscenza di diversi personaggi che manifestano varie condizioni dell'umanità. Il buon riscontro del testo tra gli allievi dell'Accademia di Malmö porta Bergman a pubblicarlo, e quindi a rimaneggiarlo e ampliarlo fino a trarne il film.
Le fonti di ispirazione, fondamentalmente, sono legate all'arte del Medioevo, nella forma cui è pervenuta a noi moderni: le pitture e gli affreschi nelle chiese, i Carmina Burana, le leggende popolari. Tra le pitture, come mostrato anche nel film, figura anche il genere della nostra danza, con quadri in cui la morte incoronata rapisce gli uomini alla vita, e scheletri si mescolano ai vivi in suggestioni apocalittiche. E naturalmente, anche l'Apocalisse, da cui il film trae il titolo: proprio una frase dell'Apocalisse apre la pellicola su un'emblematica inquadratura, e la sua continuazione chiude la storia in una delle ultime scene.
« Quando l'agnello aprì il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe » (Apocalisse, 8, 1)
 La vicenda, divenuta ormai mito, del cavaliere che gioca a scacchi con la morte, si palesa fin quasi subito. Dopo alcune inquadrature sul paesaggio e sul cavaliere Antonius Block, Max Von Sydow al suo esordio, compare la Morte (Bengt Ekerot), subitanea come nelle leggende.
«Tu chi sei?
«Sono la Morte.»
«Sei venuta a prendermi?»
«È già da molto che ti cammino a fianco.»
«Me n'ero accorto.»
Il cavaliere non vuole seguire il tristo mietitore perché, anche se il suo spirito è pronto -forse per le crociate cui ha preso parte-, il suo corpo non lo è. Per resistere, sfida dunque la Morte a scacchi, dato che è a conoscenza delle leggende e degli affreschi che fanno menzione dell'inclinazione al gioco del sinistro agente, che a sua volta accetta incuriosito. La partita non si svolge tutta in una volta, ma i due sfidanti si danno appuntamento, via via in luoghi diversi, man mano che i loro viaggi proseguono. Al cavaliere, in ogni caso, la partita dà una proroga sul tempo da vivere.
Il cavaliere e lo scudiero in viaggio
Antonius Block è dunque un uomo audace, intelligente e curioso, e come ogni cavaliere che si rispetti, è impegnato in una quest, una cerca: vuole trovare Dio.
Come in altri film bergmaniani, la ricerca di Dio è al centro della storia, e la risposta alle grandi domande è delineata da un quadro della cultura e del pensiero medievale, presentato nelle sue forme più archetipiche e più vicine all'idea popolare che si ha del Medioevo, ma non per questo approssimative, anzi: il Medioevo qui è un luogo dell'immaginario, nel quale i personaggi possono muoversi e agire in maniera sincera, leggera e paradigmatica, nella profondità e complessità del dramma che viene raccontato.
Con lui il suo scuderio, Jöns (Gunnar Björnstand), un personaggio indimenticabile anche se tutto di un'altra stoffa, che sta lì a incarnare l'ateismo e il pragmatismo che, in particolare nel periodo della peste, andavano diffondendosi verso la fine del Medioevo. Jöns si presenta così:
«Io sono lo scudiero Jöns, che si beffa della morte e del Signore, che ride di se stesso, ma sorride alle ragazze. Ho un mondo che è soltanto mio, di cui tutti si burlano, io compreso. Un mondo senza senso e senza scopo. Ma quando come te si è indifferenti al cielo e all’inferno…»
 Jöns non è una spalla comica, anche se a volte le sue osservazioni sono ilari, ma è innanzitutto un personaggio che vede le cose per come sono, un punto di vista più facile per lo spettatore moderno, e che coglie l'ironia, il sarcasmo, ma anche l'errore e l'ingiustizia. Compiace perché è anche un personaggio forte, che è rimasto con il cavaliere dieci anni in Terra Santa, e che interviene per riparare ciò che trova sbagliato, come nell'episodio in cui salva una ragazza dallo sciacallo che sta derubando in casa sua. Ragazza che è la prima di una serie di altri incontri che si uniscono ai due nel viaggio.
Lo sfondo in cui i due compagni si muovono, introdotto man mano nelle prime scene, è, come dicevo, ricco di suggestioni che rimandano immediatamente al Medioevo per come lo si immagina, a cominciare dalla fantomatica abbondanza di superstizioni: Jöns racconta al cavaliere:
«A Fargestaad non facevano che parlare di orribili portenti. Due cavalli si son divorati l’un l’altro e nella notte le tombe si sono aperte. Le ossa dei sepolti sono state sparse ovunque e al tramonto si son visti quattro soli nel cielo.»
Si tratta del millenarismo caratteristico della cultura del tempo: derivante dalla credenza cristiana della seconda venuta di Cristo sulla Terra, sostenuta dall'Apocalisse stesso, che dovrebbe avvenire dopo un tempo di mille anni, caratterizza l'interezza del periodo medievale (la cui durata, a seconda delle dottrine storiografiche, si aggira anch'essa intorno a un millennio. Verrebbe quasi da dire che i mille anni prima della fine del mondo fossero quelli del Medioevo, se i secoli successivi, e il nostro in particolare, non fossero così prosperi e felici da rassicurarci che il mondo non è finito), ed è il sostrato su cui si costituiscono le numerose leggende e le testimonianze, raccolte secoli più tardi, di numerosi fenomeni sovrannaturali come comete a due code, esseri mostruosi e altri di cui la citazione del film costituisce un esempio.
La peste circola lasciando innumerevoli vittime, come il cadavere solitario cui Jöns si ferma a chiedere informazioni, scoprendone le condizioni, per poi riferire al cavaliere, che gli domanda se l'uomo fosse muto, che egli «a modo suo era estremamente eloquente», ma «di un'eloquenza piuttosto funebre.» E vediamo anche una ragazza accusata di essere una strega, la cui trama viene sviluppata più avanti nel film.

La scena ambientata in chiesa, una delle mie preferite, chiarisce il carattere di entrambi i personaggi principali, soprattutto del cavaliere: questi si confessa con un prete, e gli espone i suoi turbamenti.

«Che sia impossibile sapere? Ma perché? Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Mi ascolti?»
La confessione del cavaliere
«Certo.»
«Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza. Voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli.»
La scena ha un netto capovolgimento quando il prete rivela di essere la Morte; Morte che dunque non dà risposte, ma sfugge alle domande di Antonius replicando con quello che l'umanità fa, mai su quello che è.
Jöns invece incontra un pittore intento a dipingere, indovinate un po', una danza macabra. Il dialogo fra i due mette in luce alcune semplici dinamiche che riguardano questo genere artistico.
Jöns: «Che cosa dipingi?»
Pittore: «La danza della morte.»
Jöns: «E quella è la morte?»
Pittore: «Sì. Che prima o dopo danza con tutti.»
Jöns: «Che argomento triste hai scelto.»
Pittore: «Voglio ricordare alla gente che tutti quanti dobbiamo morire.»
Jöns: «Non servirà a rallegrarla...»
Pittore: «E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente? Che guardino e piangano.»
Jöns: «Ah, invece di guardare chiuderanno gli occhi...»
Pittore: «E io dico che li apriranno. Un teschio spesso interessa molto di più di una donna nuda.»
Jöns: «Se li spaventi, però...»
Pittore: «Li fai pensare...»
Jöns: «E se pensano...»
Il pittore e il suo quadro, che mostra anche la folla dei flagellanti
Pittore: «Si spaventano ancora di più.»
Jöns: «E corrono a buttarsi in braccio ai preti!»
Pittore: «Oh… Questo non mi riguarda.»
Jöns: «Tu non pensi che al tuo lavoro, eh?»
Pittore: «Faccio vedere come stanno le cose, e poi che ognuno decida.»
Jöns: «Molti però ti copriranno di maledizioni.»
Pittore: «Sicuro. E se saranno in troppi, io passerò a un argomento divertente. Devo pur vivere, fino a che non mi uccide la peste.» 
 Questo porta a discutere il senso delle nostre danze, perché mette in luce il fatto che esse non sono date all'umanità dall'alto, quasi un monito della Morte stessa, ma vengono dipinte da pittori con motivazioni, e che i pittori stessi non sempre dovevano essere così intimoriti dalla loro stessa arte. In questo approccio pragmatico e a metà fra il critico e il divertito, anche il timor sacro della morte viene visto per quello che è.
D'altra parte, non è casuale il momento del Medioevo scelto per ambientare la vicenda: il Trecento squassato dalla peste che riduce di un terzo la popolazione europea, oltre che da guerre e crisi varie, è un periodo complesso in cui le certezze del fiorente Basso Medioevo di XII e XIII secolo vengono meno, e anche la religione non è vissuta più sulla base di certezze, ma di dubbi che rendono più tormentato, ma anche più intenso, il rapporto fra l'uomo e la fede.

Alcune scene, le più delicate del film, sono affidate alla famigliola di attori, Jof, Mia e il loro figlioletto Mikael. Jof rappresenta lo spirito più delicato, leggero, puro dell'uomo medievale, che assiste a visioni cui crede e che racconta in giro, finendo spesso malmenato per questo, e che vive innanzitutto per la sua arte, l'arte semplice del comporre canzoni in mezzo alla natura, descrivere le sue visioni, recitare e danzare; oltre che per la sua famiglia, la cui semplicità e tenerezza addolciscono anche ser Antonius quando si trova insieme a loro. Mia, la moglie che di lui si prende cura, ammonendolo e rimbrottandolo, ma anche sostenendolo, quasi una madre insomma, è la stabilità senza la quale le danze e i voli di Jof non potrebbero levarsi; e Mikael, il figlioletto, in un certo senso concretizza la loro famiglia, il loro amore, la loro unione.
La scena in cui Antonius incontra la famigliola e si intrattiene con loro è delicato e sereno, perché anche se animati da pensieri e incombenze molto diverse, e anche se l'uno è un nobile e gli altri non lo sono, possono trascorrere del tempo piacevole insieme in virtù della loro comune umanità. Antonius ascolta Mia che parla di lei e Jof, del bambino, della loro vita e del loro futuro, e parla di sé, del suo viaggio con "una compagnia sgradevole: me stesso", e anche del suo passato, di una giovinezza trascorsa come un sogno accanto alla moglie, che lo sta ancora aspettando.
Al termine dell'incontro Antonius dice:
Antonius con Jof e Mia
«Lo ricorderò questo momento. Il silenzio del crepuscolo. Il profumo delle fragole. La ciotola del latte. I vostri volti su cui discende la sera. Mikael che dorme sul carro. Jof e la sua lira. Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. E sarà per me un conforto. Qualcosa in cui credere.»
Insieme a loro viaggia Jonas Skat, il capo della compagnia teatrale, che ha in mente di recitare un dramma sulla morte, anch'egli per adattarsi ai tempi che corrono: si arriva così ad una scena che ruota sulla forte contrapposizione fra due toni diversi, quella dello spettacolo dei saltimbanchi, in cui Jof e Mia ballano cantano in lingua popolare, con azioni licenziose e argomenti disimpegnati, e vengono interrotti dall'arrivo di una marcia di flagellanti; intonando il Dies Irae, canto gregoriano incentrato sul giudizio universale, la fine dei tempi e il castigo dell'ira di Dio, i flagellanti si arrestano in mezzo alla piazza, e un monaco dallo sguardo arcigno ammonisce con parole sprezzanti tutti i presenti sull'ineluttabilità della loro fine, senza nemmeno fare menzione del Paradiso e della vita beata, solo della morte e del peccato che avvelena la vita degli uomini. È significativo come Antonius rimanga in parte turbato, mentre Jöns non sia sfiorato dalle minacce e anzi irritato per i toni del monaco, oltre che per il fatto che non crede nelle sue parole.

Si inserisce poi un'altra vicenda, quella del fabbro Plug, grosso e manesco ma sostanzialmente un bonaccione, che non trova più la moglie, fuggita con quello Skat della compagnia teatrale, e gira chiedendo prima a Jöns e poi agli avventori di una locanda dove poter trovare la moglie. Qui Raval, lo sciacallo già citato, omuncolo incline a far male agli altri per il puro piacere di farlo, prova a scatenare le ire del fabbro su un povero Jof capitato nel momento sbagliato, ma viene fermato da Jöns, che, per l'appunto, lo marchia come aveva promesso di fare. La vicenda di Plug permette un dialogo sulle donne e sull'amore fra lui e Jöns, quali uomini del popolo attenti alle perdite che la vita di coppia comporta, una sequenza divertente in cui lui e l'attore Skat si confrontano in una gara di insulti che vede il primo vincitore, e un incontro fra Skat e la Morte, che per prenderlo abbatte l'albero su cui intendeva dormire. «Ma se ho un contratto?» «Annullato.» «Ma non c'è qualche scusa, qualche particolare eccezione per gli attori?» «No, no, niente. Nessuna eccezione.» È come aver visto un'altra di quelle danze macabre o un altro di quei trionfi della morte, ma su pellicola. Lo spirito è lo stesso.

La strega, interpretata da Maud Hansson
La storia del fabbro porta il gruppo di viaggiatori ad addentrarsi nel bosco, luogo per eccellenza dell'avventura, della ricerca cavalleresca, del pericolo e del male. Qui si assiste a un episodio molto più serio, quella della strega: una ragazza che ha affermato di aver avuto intrallazzi col demonio, e la cui eliminazione, specie in un momento di grande incombenza come quello della peste, è prioritaria. I soldati portano il carretto in cui è imprigionata, perché, anche se solo a guardarla si rischia la dannazione, "ci hanno pagato bene e val la pena rischiare". Questa vicenda era stata introdotta fin dalle prime scene, e il fato spaventoso della strega era rimasto sospeso fino a questo momento.
Si ha qui la scena che più mi ha colpito la prima volta: Antonius, durante la notte, si avvicina alla gabbia in cui è tenuta la ragazza e le domanda come fare a parlare con il Diavolo: «Voglio domandargli di Dio. Lui sicuramente deve saperne più di ogni altro.» Ho provato il senso di brama e di ricerca tra la determinazione e l'ossessione che guida questo eroe intellettuale, ho sentito che, qualunque fosse stato il prezzo per ottenere risposte su Dio, lui l'avrebbe pagato. E quando la ragazza gli dice di guardarla negli occhi, perché è lì che troverà il Diavolo, domandando poi «Lo vedi?» lui replica «Vedo solo il tuo disperato terrore. E nient'altro. Ecco ciò che vedo.» con una misericordia agghiacciante. Specie perché, diversamente, tutti i preti e i soldati che l'hanno vista non hanno avuto dubbi sulla presenza del maligno dentro di lei. Il cavaliere non ha il potere di salvarla, ma le dà una droga con la quale perdere coscienza mentre viene arsa viva, senza pietà da altri se non da lui e da Jöns, che sconvolto e furioso esclama: «Che cosa vede? Questo vorrei sapere.»
Antonius: «Ormai non vede più.»
Jöns: «Non avete risposto alla mia domanda. Chi veglia su di lei? Gli angeli, o Dio, o Satana, oppure… oppure il nulla. Il nulla, ve lo dico io.»
Antonius non può accettare l'idea e si oppone: «No, no, no, non può essere.»
Jöns: «Guardate i suoi occhi. La sua torbida coscienza si sta accorgendo del nulla. Del nulla che ormai la sommerge.»
Antonius: «No.»
Jöns: «E noi siamo qui incapaci di fare qualcosa. Perché vediamo ciò che vede lei, e il nostro terrore è uguale al suo. E nessuno l’aiuta. No! Non posso guardarla.»
Ormai addentratisi nel bosco, i compagni incontrano ancora una volta Raval, ormai appestato, che chiede aiuto e conforto mentre la peste lo consuma, ma non ne riceve, perché per lui non si può più far nulla. Prima di morire, il disgraziato urla tutta la sua umanità nelle frasi: «Ho paura di morire! Non voglio morire! Non voglio! Non voglio!» «Che cosa accadrà di me? Ditemi qualcosa, confortatemi! Abbiate un po' di misericordia! Non vedete che muoio?»
Frasi che sono quelle che animano il film stesso, che in parte guidano il cavaliere, perché anche in lui l'inquietudine non potrebbe aversi se non fosse per la paura della morte, e che sono la domanda, "cosa accadrà?" cui si continua a cercare risposta.
 Il senso risolutivo, forse, si ha alla fine della partita a scacchi. Durante uno degli incontri, la Morte è sembrata esprimere interesse per la famigliola di saltimbanchi, il che ha preoccupato Antonius. Per questo motivo, mentre il visionario Jof vede la Morte che gioca con il cavaliere e si affretta ad allontanarsi con Mia e Mikael sul carro, Antonius guadagna del tempo per loro rovesciando i pezzi della scacchiera con il suo mantello, il che segna la sua sconfitta, perché, con la mossa successiva, la Morte gli dà scacco matto. Dopo avergli chiesto se abbia trovato utile il rinvio della sua fine, il mietitore dichiara che il loro ultimo incontro sarà nel castello, dove mieterà lui e tutti i suoi compagni di viaggio.
«E tu ci svelerai i tuoi segreti?»
«Non ho alcun segreto da svelare.»
«Allora non sai niente?»
«Non mi serve sapere.»

Il gruppo riunito al castello che vede la Morte arrivare.
Da sinistra verso destra, Lisa, Plug, la ragazza, Karin, Antonius, Jöns.
Al castello, Antonius rincontra finalmente la moglie, Karin, una dama compunta, la cui anima è come smagrita per l'attesa. Karin riceve lo sposo, Jöns, Plug, Lisa sua moglie, e quella ragazza che Jöns ha salvato da Raval. Come dei novelli discepoli intorno a un messia, i compagni mangiano insieme mentre Karin legge la Bibbia, il passo dell'Apocalisse citato all'inizio e proseguito con la descrizione degli effetti dei primi tre angeli che suonano le trombe. Quindi, la Morte fa il suo ingresso. Come se l'avessero aspettata, e in un certo senso è dall'inizio che la si attende, i personaggi si alzano e si presentano. Si presenta Karin, moglie del cavaliere; si presenta Plog insieme a Lisa, quasi facendo una summa della sua vita, del suo mestiere di fabbro e delle vicissitudini con la moglie. La ragazza è in silenzio, ma il suo sguardo pare adorante. Antonius invoca, un ultima volta, il Signore, come Jöns invoca, un'ultima volta, il nulla cui crede lui. 
Antonius: «Dall’oscurità che tutti ci attornia mi rivolgo a te, o signore Iddio. Abbi misericordia, che siamo inetti, e sgomenti, e ignari.»
Jöns: «Nell’oscurità in cui dite che siamo avvolti, e probabilmente è proprio così, non c’è nessuno che ascolti i vostri lamenti o lenisca le vostre sofferenze. Asciugate le lacrime e specchiatevi nella vostra indifferenza.»
Antonius Block: Dio, tu che in qualche luogo esisti, che devi certamente esistere, abbi misericordia di noi.»
Jöns: «Forse avrei potuto liberarmi da questa angoscia dell’eternità che vi tormenta. Ma ormai è troppo tardi per insegnarvi la gioia smisurata di una mano che si muove e di un cuore che pulsa.»
Karin: «Silenzio. Silenzio...»
Jöns: «Sì, farò silenzio, ma mi ribello.»
Infine, la ragazza parla, e dice: «L'ora è giunta.»
La scena precedente è il trionfo della morte, la sua maestà oltrepassa il castello, surclassa la protezione delle sue mura, gli stessi presenti la chiamano "nobile signore", nessuno di loro può sfuggire in qualche modo, e neanche Antonius avrebbe potuto.
Non ho detto in cosa consistesse quel "senso risolutivo". Antonius si è impegnato per rallentare la sua fine e avere, almeno, il tempo di trovare le sue risposte esistenziali. Quel tempo non ha potuto impiegarlo in quanto uomo, soggetto alla contingenza: davanti al pensiero che la Morte portasse via insieme a lui anche Jof, Mia e Mikael, dovendo scegliere tra loro e la sua potenziale vittoria sulla Morte, ha scelto loro. E in una certa accezione, non ha perso, perché loro vivono grazie a lui, e nel fatto che loro vivano riecheggia la vita di lui: si ottiene veramente qualcosa cui si tiene, io credo -non significa lo credano il regista o i personaggi-, nel momento in cui si è disposti a sacrificarla.
Davanti alla morte, comunque, ha perso.
Il film poteva concludersi così, oppure limitarsi a mostrare, dopo questa scena, Jof e la sua famiglia che vanno per la loro strada, come appunto fa, ma ecco, prima della fine del film, Jof ha un'altra visione:
«Mia! Li vedo, Mia. Li vedo. Laggiù, contro quelle nuvole scure. Sono tutti assieme. Il fabbro e Lisa, il cavaliere, Raval e Jöns e Skat. E la Morte austera li invita a danzare. Vuole che si tengano per mano e che danzino in una lunga fila. In testa a tutti è la Morte. Con la falce e la clessidra. E Skat è l’ultimo e ha la lira sotto il braccio. Danzano solenni, allontanandosi lentamente nel chiarore dell’alba. Verso un altro mondo ignoto, mentre la pioggia lava quieta i loro volti. E terge le loro guance dal sale delle lacrime.»
La danza macabra

Indovina un po', il film si conclude con questa, un'altra danza macabra. L'arte cinematografica impiega il suo linguaggio nell'esprimere questo antico soggetto, mostrando i personaggi in fila, mano nella mano, in una danza sospinta dalla Morte,  una danza che accomuna, che livella, che porta "verso un altro mondo ignoto"; un passaggio che non deve per forza provocare sgomento, che Bergman qui mostra in chiave poetica e simbolica, ma non per questo falsa.
Nessuna risposta, in conclusione, dal film, su Dio, sull'aldilà. Che la Morte risponda "non mi serve sapere" non è una mancanza, si sposa perfettamente con l'idea del film e con l'idea delle danze macabre, l'idea della morte svincolata da quadri di sorti ultraterrene e di retribuzione; un'arte che parli della morte su questa terra, della vita che finisce.
La risposta non viene data, ma la via per intraprenderla conduce da qualche parte: nel corso del viaggio il cavaliere fa esperienza di molteplici situazioni, sentimenti, persone, della morte in diverse forme, e della vita, nelle sue forme ancora più numerose. È anche questo il senso della cerca, apprendere e migliorare mentre si perviene all'oggetto della ricerca; certamente ser Antonius Block, uomo formato da dieci anni di crociate, è a un livello di esperienza e di conoscenza più avanzato rispetto a quello di qualunque giovane eroe in viaggio in un poema o romanzo d'avventura, ma per trovare ciò che cerca, la somma esperienza e conoscenza, deve ugualmente ricercare e cogliere ciò che si presenta ai suoi occhi. E l'oggetto della cerca, non lo trova? Non ha una visione totale né una risposta assoluta, ma qualcosa di Dio, forse, la coglie, la coglie in compagnia degli attori, il cui ricordo diviene "qualcosa in cui credere", nella misericordia e umanità sofferente della strega e di Raval, nella moglie che è rimasta, novella Penelope, ad attendere il suo ritorno anche dopo che tutti se ne sono andati, nello stesso percorso di miglioramento. Se i sentimenti umani e l'accalcarsi delle loro voci parlano di Dio, il cavaliere, a tratti, lo raggiunge.
Questa interpretazione, in qualunque caso, è una delle tante. Volutamente il regista non dà risposta alle molte domande poste dal film. Non c'è mai nulla di sicuro e di certo quando si parla di spirito, di Dio, di anima, si entra nel mondo della filosofia e dell'arte che sono come infinite danze, vive, libere, rispetto alle quali la Morte, tenendo chi conduce la danza, è l'unica cosa certa, grazie alla quale quei passi e quell'arte sono possibili.

giovedì 24 novembre 2016

Danza di ossa novembrine (parte III) - Romanticismo macabro

Novembre è inoltrato e quasi alle battute finali, e così è la nostra danza. Gli scheletri si agitano senza contenimento, e in mezzo a loro, la Morte suona un violino virtuosamente, con una bravura acquisita in millenni di pratica.  Il vento ulula sempre più forte, il gufo segna gli intervalli col suo verso spettrale, e chi fra i vivi sentirà questa litania sinistra, nasconderà la testa sotto il cuscino e cercherà affannosamente di tornare a dormire, sapendo che nulla di buono potrà trarre dal suo ascolto, e che avrà un'eternità per ascoltarla, quando ballerà anche lui.
Thomas Rowlandson - The English Dance of Death, 1815-1816

C'è molto ancora da dire sulla Danza nelle arti, ci sarà dopo questo post e ci sarebbe se ne scrivessi altri ancora. Man mano che ricerco e che mi informo ne saltano fuori altri, come scheletri dalla fossa, che prendendomi per mano e indicandomi la distesa del cimitero, mi ricordano che le fosse sono tante, quelle con i nomi, quelle senza, si perdono a vista d'occhio e sarebbe arrogante provare a conoscerle tutte.
Infatti ci proverò, nel futuro. In tempi molto più estesi di qualche settimana studierò il materiale, approfondirò, confronterò, e a meno di stancarmi o cambiare idea in corso d'opera, avrò una conoscenza sull'argomento che si possa definire vasta.
Nel frattempo, questo post segnerà il punto cui sono arrivato, e darà tanti spunti, spero interessanti, a chi lo leggerà, e magari, incuriosito, mi seguirà nella mia ricerca.
Terminata la premessa, parliamo dell'argomento di oggi, e cioè, di come, più tardi rispetto all'era delle danze macabre (di cui si hanno esempi ancora nel Seicento), l'arte abbia riscoperto e reinterpretato questo soggetto, con delle creazioni che, anche perché più vicine cronologicamente, sono meglio note alla modernità.

Il discorso parte dal Romanticismo (fine Settecento/inizio Ottocento), quando le suggestioni del Medioevo, declassate dalla riscoperta del classicismo e dal recente Neoclassicismo, acquisiscono un nuovo valore artistico ed estetico, derivante da una rilettura di quel mondo e delle sue forme, e della sua assimilazione nella cultura come base su cui proiettare le istanze della modernità. Leggende, folklore, racconti popolari prendono il posto, anzi, affiancano, i miti classici come soggetti da rielaborare nella creazione di nuove opere. Fra questi, le storie dalla componente oscura, talvolta torbida, sono di particolare interesse per un gusto in particolare, quello per il macabro appunto, da cui derivano la poesia cimiteriale, certe ballate moderne, il romanzo gotico, e da esso, quello che noi oggi chiamiamo horror, che in forme diverse da quelle odierne era sempre esistito. In particolare, questa tendenza è sentita nell'Europa settentrionale, in Germania, in Francia e in Inghilterra, gli stessi paesi in cui l'arte macabra era fiorita maggiormente nel Medioevo, perché meno legati al culto del bello del classicismo e magari per una natura diversa da quella mediterranea.
Fra coloro che, nell'ambito della letteratura, incarnano meglio questo spirito di ricerca del folklore del passato da vestire ad una sensibilità nuova, sta il maggiore poeta tedesco, Goethe, autore di una ballata del 1813 intitolata proprio "Totentanz".

"Il campanaro, lui a mezzanotte
sulla fila di tombe china lo sguardo:
la luna ha diffuso dovunque il chiarore,
è come se fosse giorno nel camposanto.
Si muove una tomba, un'altra, e dopo
vengono fuori, una donna, ecco, un uomo,
in candidi sudari con lo strascico.

Si stira i malleoli – vogliono divertirsi
subito – per il girotondo quella brigata
di poveri e di giovani, di vecchi e di ricchi;
ma gli strascichi sono di inciampo alla danza.
E poiché qui il pudore non ha più da dare
ordini, tutti si scuotono: sparse
giacciono sui tumuli le camiciole.

Ora il femore salta, la gamba si scrolla,
si danno contorte movenze, e frammezzo
ogni tanto si scricchia e si crocchia,
come se le bacchette battessero il tempo.
Per il campanaro la scena è così comica!
E il tentatore, il burlone, gli mormora:
"Vai a prenderti uno dei lenzuoli funebri!".

Detto fatto! E lui in fretta si rifugia
dietro porte consacrate. Limpido
è sempre il chiarore della luna
sulla danza che fa raccapriccio.
Ma alfine si dilegua uno dopo l'altro,
se ne va ravvolto nel suo sudario,
ed ecco, è sotto la zolla erbosa.


In coda sgambetta e inciampa uno soltanto
e brancola vicino alle tombe e le aggraffa;
ma la grave offesa non è di un compagno,
lui fiuta il panno per aria.
Lo ricaccia la porta della torre, che scuote,
adorna e benedetta, per la buona sorte
del campanaro: riluce di croci metalliche.

Deve avere la camicia, ma non si ferma,
pensarci a lungo non è necessario;
ora quel coso il fregio gotico afferra
e s'arrampica di pinnacolo in pinnacolo.
Per il poveretto, per il campanaro è finita!
Lui s'inerpica, di voluta in voluta,
simile a un ragno dalle lunghe zampe.

Il campanaro sbianca, il campanaro trema,
ora vorrebbe rendergli il lenzuolo.
Adesso – per lui è l'ora estrema –
un uncino di ferro aggranfia l'orlo.
Si dilegua la luce, s'intorbida la luna,
la campana tuona un possente tocco dell'una,

e lo scheletro in basso si sfracella."

Ironica, grottesca e inquietante al contempo, la danza di Goethe è macabra fino all'osso, che è una delle battute più sciocche che abbia mai fatto. Fissando i termini della vicenda in una situazione archetipica, il cimitero a mezzanotte, ci ri-narra una storia legata al folklore europeo, quella di un uomo che ha la sventura di assistere al risveglio dei morti e alla loro danza, e che di solito soccombe a tale visione, con grande sapienza poetica, insistendo, oltre che sui termini che rimandano alla sfera del notturno e del macabro, su onomatopee e verbi che trasmettono l'idea di ossa che si agitano e si scontrano (motivo per cui è doppiamente consigliata la lettura dell'originale in tedesco). Goethe mette inquietudine con il dettaglio del campanaro che, seguendo il consiglio di un non meglio identificato "burlone", ruba il sudario ad uno degli scheletri e si vede da questo inseguito quando la danza finisce e lui non può tornare nella tomba (il che è sottilmente ironico), e rovescia il sentimento nell'ultimo verso, allorché lo scheletro si sfracella in mille pezzi: un contrasto, quello tra orrore e umorismo, in cui alcuni vedono un esempio di genere grottesco.

"The Masque of the Red Death" di Harry Clarke, 1919.
Questa presenza del campanaro non fa che ricordarmi una poesia, a mio avviso davvero spaventosa, di un altro grande autore che va inserito in questa trattazione.
Edgar Allan Poe (non europeo, ma esperto quanto gli altri nell'interpretare antiche tradizioni) è probabilmente il primo nome che ci viene in mente quando parliamo di macabro in letteratura. Poe, di cui vi invito a leggere la succitata poesia "Le campane", partecipa a questa rassegna con un racconto che ha qualcosa del trionfo, ma che non posso non riportare qui in quanto procede attraverso una danza. Si tratta del celebre "La maschera della morte rossa", pubblicato nel 1842 e legato al mondo medievale già a partire dall'antefatto della vicenda, il dilagare della peste chiamata "morte rossa" che miete infinite vittime, e alla quale il principe Prospero pensa di poter sfuggire rinchiudendosi, insieme a mille amici e vari servitori, in un palazzo completamente chiuso al mondo esterno, decorato secondo il suo stravagante gusto estetico e in cui gli ospiti si dedicano a giochi e diletti. Allorché il principe organizza una festa in maschera per celebrare il successo della sua iniziativa, tutti i presenti, durante la danza, sono stupiti e intimiditi dinanzi all'avanzare attraverso le sale di una misteriosa figura avvolta in un sudario macchiato di sangue e con una maschera dalle sembianze di un teschio: questa presenza, come diviene chiaro quando Prospero, dopo aver toccato quel sudario sotto il quale si vede non esserci alcun corpo, cade a terra senza vita, è la morte rossa, che introdottasi nel palazzo miete tutti gli uomini all'interno, rivelando che alla morte non si scappa. Uno dei capolavori di Poe, dove si colgono, oltre al gusto estetico pieno di simboli e a quello per l'orrido e il sovrannaturale, una grande poesia e una sapiente riproposizione dei modelli, in questo caso l'imperversare della peste, l'altezzoso estraniamento dell'aristocrazia dai mali del popolo, il trionfo della morte e la sua ineluttabilità, sempre con il motivo della danza. 

Baudelaire apprese molto da Poe, di cui fu l'entusiasta importatore in Europa. La sua Danse Macabre, che fa parte del gruppo Quadri di Parigi (Tablieaux de Paris) pubblicata nei Fleurs du mal nel 1857, è una delle più rilevanti di tutta la letteratura.

"Fiera della sua nobile statura, come una persona viva,
col suo gran mazzo di fiori, il fazzoletto e i guanti,
lei ha la noncuranza e la disinvoltura
d'una civetta magra dall'aria stravagante.

Hai visto mai al ballo una vita più sottile?
La sua veste esagerata, nella sua ampiezza regale,
ricade abbondante sopra un piede magro, stretto
nella scarpina infiocchettata, graziosa come un fiore.

Il collarino che le scherza intorno alle clavicole,
come un ruscello lascivo strisciante contro la roccia,
difende pudico dai lazzi ridicoli
le funebri grazie che vuole nascondere.

Che occhi profondi di vuoto e di tenebre!
Come oscilla mollemente sulle fragili vertebre
il suo cranio acconciato di fiori con arte!
Oh, fascino d'un nulla follemente agghindato!

Alcuni diranno che tu sei una caricatura;
amanti ebbri di carne, non capiscono
l'eleganza senza nome dell'umana armatura.
Ma tu rispondi, grande scheletro, al mio gusto più caro!

Vieni forse a tubare, con la tua possente smorfia,
le feste della Vita? O ti spinge credula
al sabba del Piacere qualche antica voglia
speronando ancora la tua vivente carcassa?

Speri dunque di cacciare il tuo incubo beffardo
al canto dei violini, alla fiamma delle candele?
Vieni a chiedere che il torrente delle orge
rinfreschi l'inferno acceso nel tuo cuore?

Inesauribile pozzo di stoltezza e di colpe!
Eterno alambicco dell'antico dolore!
Come vedo ancora errante l'insaziabile aspide
il traliccio curvo delle tue costole!

Temo che tutta la tua civetteria
non troverà un compenso degno dei tuoi sforzi:
quale cuore mortale capirà lo scherzo?
L'incanto dell'orrore inebria solo i forti.

L'abisso dei tuoi occhi, pieno d'orribili pensieri,
esala vertigine, e i cauti ballerini
non contempleranno senza nausee amare
il sorriso eterno dei suoi trentadue denti.

Eppure, chi non ha stretto fra le sue braccia uno scheletro?
Chi non s'è nutrito con le cose della tomba?
Che importano profumo, abito, toletta?
Chi fa il disgustato, mostra di credersi bello.

Baiadera senza naso, irresistibile baldracca!
di' dunque a questi ballerini che fanno i contrariati:
"Malgrado cipria e rossetto, puzzate tutti di morte.
ballerini che vi volete fieri, scheletri muschiati,

Antinoi sfioriti, dandy glabri,
cadaveri verniciati, vitaioli canuti?
Nel gioco universale della danza macabra,
siete trascinati, verso luoghi sconosciuti!

Dai freddi lungo-Senna alle rive brucianti del Gange
la mandria dei mortali salta e s'inebriasenza vedere
la tromba dell'Angelo, da un buco del soffitto,
sinistra, spalancata come un nero schioppo.

Ridicola Umanità, la Morte mira in ogni clima,
sotto qualsiasi sole, le tue contorsioni,
e sovente, come fai tu, profumandosi di mirra come te,
mischia la sua ironia alla tua insania!"

A sua volta, il ballo dell'artista con la morte non può
non farmi pensare a questa pagina visionaria de Il Corvo di James O'Barr.
Con Baudelaire si ha un cambio di prospettiva: quella morte che ripugnava ora attrae, quelle orbite vuote senza un senso sono abissi in cui bisogna discendere, e le ossa e il teschio della ballerina trasmettono fascino. Non è cambiata la morte, e nemmeno l'uomo, ma è diverso l'artista, e il nuovo artista coglie la bellezza del macabro, e i sottili fili attraverso i quali si dirama, da esso, una rete che conduce alla Bellezza.

Affine alla Danza, come affini sono i due autori, è Il Ballo degli Impiccati di Rimbaud.

"Alla nera forca, amabile moncone,
danzano, danzano i paladini,
i magri paladini del demonio,
gli scheletri dei Saladini!
Messer Belzebù tira per la cravatta
i suoi piccoli neri fantocci che fan smorfie al cielo,
e picchiandoli in fronte con la ciabatta
li fa danzare sulle note d'un vecchio Natale!
E i fantocci scioccati intrecciano i loro gracili braccini,
come neri organi i petti squarciati
che un tempo stringevano dolci donzelle
cozzano a lungo in un amore immondo.
Urrà per i gai danzatori che non hanno più pancia!
Possono fare giravolte, perché il palco è così grande!
Op! Che non si sappia se è danza o battaglia!
Belzebù irato coi suoi violini raglia!
O duri talloni, non usate mai sandali!
Quasi tutti han tolto la camicia di pelle!
Il resto non impaccia si guarda senza schifo.
Sui crani la neve posa un candido cappello:
la cornacchia è un pennacchio sulle incrinate teste,
un brano di carne trema sul mento scarno:
si direbbe vorticante nelle oscure resse
di prodi, rigide armature di cartone.
Urrà! La tramontana soffia al gran ballo degli scheletri!
La forca nera mugola come un organo di ferro!
E i lupi rispondono da foreste violette:
all'orizzonte il cielo è d'un rosso inferno...
Olà, scuotete quei funebri capitani
che sgranano sornioni tra le dita spezzate
un rosario d'amore sulle vertebre pallide:
questo non è un monastero, o trapassati!
Oh! Ecco, nel mezzo della danza macabra
nel cielo rosso un folle scheletro avanza
di slancio, e come un cavallo impenna:
e, poiché al collo la corda è stretta,
raggrinza le dita sul femore che scricchiola
con grida simili a ghigni
e come un acrobata che rientra nella sua baracca
rimbalza nel ballo al canto delle ossa.
Alla nera forca, amabile moncone,
danzano, danzano i paladini,
i magri paladini del demonio,
gli scheletri dei Saladini!"

Ora, non si può avere danza senza che si abbia la musica, e a partire dall'Ottocento, i compositori non sono andati per nulla leggeri con il macabro.
In ordine cronologico, troviamo per primo Liszt, che compone la sua Totentanz per pianoforte e orchestra tra il 1834 e il 1859. Si tratta della rieleborazione di una sequenza del Dies Irae, con grande enfasi negli aspetti più drammatici, dovuta all'ascolto della Sinfonia fantastica di Hector Berlioz, derivante dalla medesima ispirazione; accanto ad essa, la suggestione tratta dal Trionfo della Morte del Campo Santo di Pisa. Più che una danza, questo è veramente un trionfo, smisurato, epico.


Segue la celeberrima Danse Macabre di Saint-Saëns, che si ispira a un poemetto di Henri Cazalis, che, a sua volta, si rifà a Goethe. Egli, in particolare, idea l'immagine della Morte che suona un violino, alla base della composizione di Saint-Saëns.

«Zig et zig et zig», la mort en cadence
Frappant une tombe avec son talon,
La mort à minuit joue un air de danse,
«Zig et zig et zag», sur son violon.

Le vent d'hiver souffle, et la nuit est sombre;
Des gémissements sortent des tilleuls;
Les squelettes blancs vont à travers l'ombre,
Courant et sautant sous leurs grands linceuls.

«Zig et zig et zig», chacun se trémousse,
On entend claquer les os des danseurs;
Un couple lascif s'asseoit sur la mousse,
Comme pour goûter d'anciennes douceurs.

«Zig et zig et zag», la mort continue
De racler sans fin son aigre instrument.
Un voile es tombé ! La danseuse est nue,
son danseur la serre amoureusement.

La dame est, dit-on, marquise ou baronne,
Et le vert galant un pauvre charron;
Horreur! Et voilà qu'elle s'abandonne
Comme si le rustre était baron.

«Zig et zig et zig», quelle sarabande!
Quels cercles de morts se donnant la main!
«Zig et zig et zag», on voit dans la bande
Le roi gambader auprès du vilain.

Mais «psit» ! tout à coup on quitte la ronde,
On se pousse, on fuit, le coq a chanté.
Oh ! la belle nuit pour le pauvre monde.
Et vivent la mort et l'égalité !"




Da Wikipedia il testo della composizione di Saint-Saëns:  « I raggi della luna filtrano a intervalli fra nuvole a brandelli. Dodici cupi rintocchi risuonano dal campanile della chiesa. Svanito l'ultimo di essi, si odono strani rumori dall'attiguo cimitero, e la luce della luna investe una fantomatica figura: la Morte, che suona il violino, seduta su una pietra tombale. Si odono strida dai sepolcri circostanti e il vento ulula fra le cime degli alberi spogli.
Le note sinistre dello scordato violino della Morte chiamano i morti fuori dalle tombe; e questi, avvolti in bianchi sudari, volteggiano attorno in una danza infernale. La quiete del sacro recinto è distrutta da grida sorde e risa orribili. La ridda degli scheletri, col rumore secco delle ossa, diviene sempre più selvaggia, e la Morte, nel mezzo, batte il tempo col suo piede scricchiolante di scheletro. Improvvisamente, come presi da un sospetto terribile, i morti si arrestano. Nel vento gelido si sentono le note della Morte. Un fremito percorre i ranghi dei trapassati: i teschi sogghignanti si rivolgono in ascolto verso la pallida luna. Ma le note stridenti della Morte di nuovo rompono il silenzio, e i morti riprendono a danzare più selvaggiamente di prima. L'ululo del vento si unisce al coro dei fantasmi, gemendo fra i rami nudi dei tigli. D'improvviso la Morte smette di suonare, e nel silenzio che segue si ode il canto del gallo. I morti si affrettano verso le tombe e la fatale visione svanisce nella luce dell'alba. »



Musorgskij, grande interprete delle tradizioni popolari, compone fra il 1875 e il 1877 i Canti e danze della morte, (Песни и пляски смерти), un ciclo di canzoni che trae ispirazione da Liszt, e che si sviluppa intorno a quattro vicende relative a quattro tipi di morte: la prima è la Ninna nanna, cantata a un bambino cullato dalla Morte; la seconda è la serenata, la morte di una fanciulla cui la Morte si rivolge come un amante che attende alla porta; la terza è il Trepak, un ballo popolare russo che la Morte spinge un contadino a ballare; la quarta è Il condottiero, e la Morte figura come il comandante di un esercito che ammonisce le sue truppe.

In questo excursus non può mancare "The skeleton dance" (1929), la danza degli scheletri targata Walt Disney ,della raccolta di cortometraggi "Silly Symphony", in cui una banda di scheletri si esibisce a ritmo di musica in balli, piroette e formazioni assurde e grottesche al contempo, cessando, anche loro, all'arrivo del nuovo giorno.

Dei generi musicali moderni, ce n'è uno che più degli altri è figlio ed ereditario di ogni tradizione macabra, romantica e oscura, ed è il Metal.
Nel 2001 i Marduk, gruppo Black Metal svedese tra i più estremi, blasfemi ed importanti per il genere, pubblica l'album "La Grande Danse Macabre", terzo atto di una trilogia chiamata "Blood, war and death" ("Sangue, guerra e morte") che comprende i precedenti "Nightwing" e "Panzer Division Marduk". Il nuovo album è quello dedicato alla morte, e la traccia omonima, in un ritmo marziale e oscuro, ripete un messaggio che non può essere confutato nemmeno dopo mille anni, alla morte non si scappa.

"This ghastly skeleton, bone bare on ghostly nag
Gallops through space
No spurs, no whips
And yet his steed pants towards apocalypse
Nostrils a-snort in epeleptic fit
Headlong they rush, athwart the infinite
With rash and trampling hoof
The cavalier, his flashing sword aflame
Glashes - now here, now there

Amongst the nameless slaughtered horde
Then goes inspecting like some manor-lord
The charnel ground, chill and unbound where
Under a bleak suns pallid leaden glare
Histories great sepulchered masses lie
From the ages near
And the ages long gone by

Death can on both black and white horses ride
Across the threshold of infinity he you guide
Death can step along smiling within the dance
And as a pawn in a game of chess you stand no chance
Death can also beat a drum
He drums hard and he drums soft
The time has come for you to leave the mortal croft
All your dreams he beats into dust
Die, die, die you must

I svängen lätta I dansens ringar
I stigen yra I nöjets lag
Och myrten blommar och lyran klingar
Men över tröskeln stiger jag
Då stannar dansen
Då sänkas ljuden
Då vissnar kransen
Då bleknar bruden..."

E veniamo finalmente al pezzo forte, gli Iron Maiden.
Sì, quegli Iron Maiden, e sì, quella canzone parla proprio di questo.
Nel 2003 esce "Dance Of Death", tredicesimo album della formazione londinese, che nel titolo e nella copertina mette in chiaro a cosa fa riferimento; un grande mietitore circondato da demoni e personaggi inquietanti. La title track, una delle mie canzoni preferite dei Maiden, racconta, anche nel divenire della musica, una versione moderna del mito presentato finora, attraverso gli occhi di uno spettatore che, una notte, viene condotto misteriosamente in un luogo sconsacrato in un cui i morti si alzano e cominciano a ballare come forsennati, mentre la musica, inizialmente tenue, per quanto sinistra, come se stesse preparando, esplode furiosamente.


"Let me tell you a story to chill the bones
About a thing that I saw
One night wandering in the everglades
I'd one drink but no more

I was rambling, enjoying the bright moonlight
Gazing up at the stars
Not aware of a presence so near to me
Watching my every move

Feeling scared and I fell to my knees
As something rushed me from the trees
Took me to an unholy place
And that is where I fell from grace

Then they summoned me over to join in with them
To the dance of the dead
Into the circle of fire I followed them
Into the middle I was led

As if time had stopped still I was numb with fear
But still I wanted to go
And the blaze of the fire did no hurt upon me
As I walked onto the coals

And I felt I was in a trance
And my spirit was lifted from me
And if only someone had the chance
To witness what happened to me

And I danced and I pranced and I sang with them
All had death in their eyes
Lifeless figures they were undead all of them
They had ascended from hell

As I danced with the dead
My free spirit was laughing and howling down at me
Below my undead body
Just danced the circle of dead

Until the time came to reunite us both
My spirit came back down to me
I didn't know if I was alive or dead
As the others all joined in with me

By luck then a skirmish started
And took the attention away from me
When they took their gaze from me
Was the moment that I fled

I ran like hell faster than the wind
But behind I did not glance
One thing that I did not dare
Was to look just straight ahead

When you know that your time has come around
You know you'll be prepared for it
Say your last goodbyes to everyone
Drink and say a prayer for it

When you're lying in your sleep, when you're lying in your bed
And you wake from your dreams to go dancing with the dead
When you're lying in your sleep, when you're lying in your bed
And you wake from your dreams to go dancing with the dead

To this day I guess I'll never know
Just why they let me go
But I'll never go dancing no more
'Til I dance with the dead"

Come già anticipato, questo elenco è estremamente esiguo, fondato soprattutto su esempi illustri della letteratura romantica e decadente, della musica del tempo, e del Metal d'oggigiorno.
A quale conclusione ci porta questa storia? Possiamo sconfiggere la morte con un ballo? Crediamo che, quando ci prenderà, basterà prenderla con ironia e non ne soffriremo.
Se nessuna arte ha il potere di fare qualcosa per i morti, a meno di parlare, per chi la riconosce, della loro anima, tutte le arti si fanno per i vivi, e si fanno parlando quasi sempre proprio della morte, perché la sua ombra domina la vita. Non si tratta solo dell'arte che rende eterno chi la fa, la prospettiva di queste danze ci insegna ad essere più umili; si tratta dell'arte che lascia qualcosa ai vivi, che guardano la prospettiva dell'abisso senza sapere nulla di cosa ci sia dall'altra parte a guardarli, e sentendo il freddo alito di decomposizione che ne fuoriesce potrebbero cadervi dentro in preda al terrore: creando, parlando, intessendo parole e immagini in poesie e quadri, come si intessono le membra in una danza, si può attenuare quella paura, si può spezzare la maglia di sovranità e onnipotenza di quell'abisso, fino a rispondere al suo sguardo con pace, compassione e saggezza. Quell'abisso di morte non è lì per negare l'uomo, ma per disegnarlo. La morte è il tratto di matita che forma il disegno dell'uomo, un tratto sottile intorno a una figura che è piena di colori, di ombre e di sfumature. Disegnando la morte, l'uomo ha delimitato anche lei, e guardando dentro quel contorno, nelle forme, nei colori, ombre, sfumature, che costituiscono la morte, ha trovato la bellezza.

giovedì 17 novembre 2016

Danza di ossa novembrine (parte II) - Danze macabre


Il vento d'autunno ha imposto il suo ritmo, e adesso la musica diviene più alta e il freddo più acuto, e ad un tratto, mentre il ritmo è scandito da uno schiocco di ossa, il vento accelera, e fantasmi riecheggiano il suo ululato. La musica diviene eccessiva.
È il momento di parlare delle Danze Macabre.

Il nome "danza macabra" è molto evocativo, a partire dall'apposizione di termini che rimandano a significati così diversi come la danza e la morte. Eppure, settecento anni fa, gli artisti -e i letterati accanto a loro- hanno contemplato l'idea della morte come un grande ballo cui tutti, prima o poi, sono invitati a prendere parte, e che li trascina con sé fuori dalla vita: non ha più importanza se questa danza porti da qualche altra parte, ha importanza soltanto questo, la vita finisce, il piacere è effimero, e una delle più stolte mancanze dell'uomo è quella di non pensarci, fin quasi a convincersi di poter vivere per sempre. Nell'ottica della società del Trecento, è un ammonimento, il richiamo della coscienza alla mortalità, corroborato da una presenza più diffusa del solito della Morte nella vita degli uomini del tempo. Nella società dell'Umanesimo, dove lo slancio vitale è divenuto intenso e la ricerca dei piaceri uno stile di vita, la Morte è un'odiosa presenza che attende dietro ogni godimento, rimembrando agli uomini che ognuno dei loro piaceri è effimero.

Dell'aggettivo macabro, ci si presentano diverse etimologie. Il saggio di Pietro Vigo, cui faccio riferimento anche questa volta, ne elenca rapidamente alcune: dall'arabo magboruh o magubir, piazza o luogo di sepoltura; dal latino macheria, cioè muro, visto l'uso di raffigurare le danze sui muri, o macrorum, genitivo plurale di macer, quindi "dei magri"; dal nome di San Macario, primo santo asceta; Macabee, con riferimento a una Danza dei Maccabei, in cui personaggi di varie condizioni ed estrazioni danzavano e poi si dileguavano all'arrivo della Morte; si parla anche di un'opera del 1376 intitolata "Danse de Macabre", del vescovo Jean Le Fèvre, dove Macabre sarebbe uno dei personaggi.
C'è anche un fatto storico, dietro questa tradizione: diversi decreti esposti in epoca già altomedievale presso le chiese che comprendevano dei cimiteri, proibivano di eseguire danze e riti pagani sulle tombe, che avevano luogo, pare, sopratutto in prossimità della festa di Ognissanti.

La Danza Macabra nell'arte ha delle caratteristiche che non ricorrono sempre, ma lo fanno spesso ed è sulla base di esse che si indica una raffigurazione come più o meno appartenente al genere. La prima e fondamentale di queste caratteristiche è l'intento satirico: mostrare che la morte arriva per tutti, ricordare la vanità delle cose terrene, diviene un attacco, ora scherzoso e giullaresco, ora feroce e anatemico, al benessere e alla superbia delle classi sociali più alte. In molti di questi casi, come già visto con le opere riportate nella prima parte, si inseriscono nelle opere cartigli su cui figurano scritte ammonitrici.


La morte è raffigurata come uno scheletro o un corpo in putrefazione. Insieme ad essa, e per certi versi più rilevanti, sono i morti: spesso associati ai vivi, con i quali procedono divisi in coppie, figurano scheletri e cadaveri che indicano una dimensione soggettiva della morte, che ricordano non solo che tutti moriranno, ma che tutti perderanno le proprie sembianze. Oltre ad avere un impatto più orrido e, appunto, macabro, il cadavere con ancora uno strato di pelle addosso porta sul proprio volto un'espressione ghignante che accresce la crudele ironia della composizione, raggiungendo il culmine nelle danze in cui i morti suonano delle trombe, quasi a ricordare con zelo caricaturale il fato che simboleggiano.
Come già detto per gli Incontri dei vivi con i morti e i Trionfi della Morte, questo genere figurativo non nasce in Italia, ma si sviluppa a partire dall'Europa centro-settentrionale, con Germania, Francia e Inghilterra in prima linea, e viene in alcuni casi assimilato anche da noi per via del suo carattere moraleggiante, in quanto, pare (questa è una cosa che non ho ancora capito), fin da quel Medioevo lontano mille anni da noi, la cultura italiana era poco incline ad accettare le forme del mostruoso e del fantastico che tanta fortuna avevano più a nord. Se l'Incontro ha fortuna per il suo aspetto didascalico, e il Trionfo ne ha di meno perché punta sul turbamento visivo della morte deificata, la danza riesce, grazie appunto ai moniti che dà.

Il libro di Pietro Vigo cita come prima Danza Macabra dipinta quella di Minden in Westphalia, che risalirebbe al 1382-1383. Purtroppo, non è mostrata nel libro, né ho avuto modo di reperirla in rete. Segue quella del cimitero degli Innocenti a Parigi, dipinta fra il 1424 e il 1425, di Basilea, di Dresda, di Tallin,

"Contempla Uomo e non disprezzare
Questo è l'aspetto di ogni creatura
La Morte li prende, prima o poi
Si dissolvono come i fiori su un prato"


























In Slovenia, a Hrastovlje, se ne trova un altro esempio bello e suggestivo, con scheletri che tengono per mano i vivi (un bambino, un mendicante storpio, un nobile, il papa, una regina e un re), sempre conformi allo spirito originario della Danza.




E veniamo all'Italia, che è quella cui il saggio di Pietro Vigo fa più attenzione, configurandosi come primo testo italiano sull'argomento. Prescindendo dal prendere in esame le opere straniere (e costringendomi così a cercare informazioni su Internet in siti in inglese e in tedesco) Vigo espone i pochi esempi di Danza Macabra che presenti in Italia. E quegli esempi non si possono definire vere e proprie danze, ma reinterpretazioni di esse in un'accezione più congeniale all'arte italiana. Bisogna infatti tenere a mente che nel Quattrocento, quando il genere è al suo apogeo in Francia, Germania ed Europa settentrionale, l'Italia vive la stagione culturale del Rinascimento: la riscoperta dei modelli classici, e la loro conseguente ripresa in quanto indiscutibili principi di autorità e bellezza, allontana l'arte italiana dal gusto per l'orrido e un certo tipo di pensiero che è tipico delle regioni sopra citate, cui l'Italia rimarrà quasi indifferente anche nel momento del loro ritorno durante l'Ottocento. Vigo, dunque, individua semplicemente alcune opere che si possono accostare al genere per le suggestioni, e naturalmente la presenza di scheletri.
Partiamo subito dall'affresco dell'oratorio dei Disciplini a Clusone, già visto nel post precedente, diviso in una parte superiore raffigurante un trionfo, e una inferiore, che è quella postata qui sotto. Le due sono separate da una scritta: "O ti che serve a Dio del bon core non havire pagura a questo ballo venire ma allegramente vene e non temire poj chi nasce elli convene morire."
Parti del dipinto sono andate perdute, ma quello che rimane ci mostra la struttura di base di una danza macabra: compaiono personaggi di varia estrazione sociale con accanto uno scheletro in postura simile alla loro. C'è una donna con uno specchio, un flagellante, un contadino, un oste, un funzionario di giustizia, un mercante, un giovane studente e un ottavo irriconoscibile. Eppure, se non per la scritta, questo affresco non presenta nulla che rimandi a un ballo, perché questa caratteristica, legata a una ricerca consapevole del grottesco, non interessa l'artista.


L'altra importante Danza Macabra italiana si trova nella chiesa di San Vigilio a Pinzolo: intorno a Cristo crocifisso sono posti l'imperatore, il papa, il re, sacerdoti, duchi, guerrieri, ricchi, per ognuno dei quali, scritte nel bordo sotto ogni figura, delle frasi che esplicano il senso della raffigurazione, sempre conformemente all'arte del tempo. Frasi dette dalla Morte ad ognuno di questi personaggi, che per il proprio prestigio o abilità si aspetterebbe di poterla sfuggire, e che invece deve accettare la sovranità della Morte.
Si comincia con i versi citati già nell'altro post:

Io sont la morte che porto corona 

Sonte signora de ognia persona
Et cossi son fiera forte e dura
Che trapasso le porte et ultra le mura
Et son quela che fa tremar el mondo
Reuolgendo mia falze atondo atondo
O uero l'archo col mio strale
Sapienza beleza forteza niente vale
Non e signor madona ne vassallo
Bisognia che lo entri in questo ballo

Mia figura o peccator contemplarai
Simile ami tu vegnirai
Non ofender a Dio per tal sorte
Che al transire non temi la morte
Che piu oltra non me impazo in be ne male
Che l'anima lasso al judicio eternale
Et come tu auerai lauorato
Cossi bene sarai pagato.

Sotto la Croce c'è poi il messaggio di Gesù:

O peccator piu non peccar non piu
Chel tempo fuge e tu non te nauedi
De la tua morte che certeza aitu
Tu sei forsi alo extremo et non lo credi
De ricore col core al bon iesu
Et del tuo fallo perdonanza chiedi
Vedi che in croce la sua testa inchlina
Per abrazar lanima tua meschina


O peccator pensa de costei
La mea morto mi che son signor de ley
Ihs Xhs


La Morte si rivolge al papa:
O sumo pontefice de la cristiana fede
Cristo e morto come se vede
A ben che tu abia de sampiero el manto
Acceptar bisognia de la morte el guanto

In questo ballo ti conue entrare
Li anticesori seguire et li sucesor lasare
Poi chel nostro primo parente adam e morto
Si che ate cardinale non te fazo torto


Morte cossi fui ordinata

In ogni persona far la intrata

Si che episcopio mio iocondo

Le giunto el tempo de abandonar el mondo

Ai sacerdoti:
Sacerdote mio reuerendo
Danzar teco io me intendo
Aben che de cristo sei vicario
Mai la morte fa disuario
A un frate:
Bon partito pilgiasti opatre spirituale
A fuzer del mondo el pericolodo strale
Per lanima tua po esser uia secura
Ma contra di me non auerai scriptura

All'imperatore:
O cesario imperatore vedi che li altri jace
Che a creatura humana la morte non a pace

Al re:
Tu sei signor de gente et de paisi o corona regale 
A a altro teco porti che il bene el male
In pace portarai i gentil regina
Che o per comandamento de non cambiar farina

A un duca:
O ducha signor gentile
Gionta a te son col bref sottile
A un teologo:
Non ti uala scientia ne dotrina
Contra de la morte non val medicina
A un uomo in armatura:
O tu homo galgiardo et forte
Niente vale larme tue quntra la morte
A un ricco che prova a corromperla:
Et tu ricone numero deli auari 
Che in tuo cambio la morte non vol denari
A un giovane:
De le vostre zouentu fidare non se vole
Pero la morte chi lei vole tole
A un mendicante zoppo:
Non dimandar misericordia o pouerelo zopo
Ala morte che pieta non ha li daza intopo
A una monaca:
Per fuzer li piazer mondani monicha facta sei
Ma da la scura morte scampar non poi da lei
A una donna di bell'aspetto:
Non ti gioua ponpe o beleze
Che morte te fara puzar et perdere le treze
A una vecchia:
Credi tu vechia el mondo reditare
Che non pensasti cuelo che morte sa fare
A un bambino:
O fantolino de prima hetate
Come sej ingenerato
Tu sei in mia libertade

Qui vediamo in un certo senso un trionfo, perché la Morte ha attributi di maestà, seduta sul cavallo, con arco e ali di pipistrello. Alle sue spalle San Michele e Lucifero si contendono le anime dei morti, e in mano al secondo figura un libro con scritti sopra i peccati capitali.

Fati bene tanto che seti in uita 
Che come lombra la morte ui seguita
De li vostri delicti penitentia fati
La ue zonzera piu presto che non pensati







Soffermiamoci adesso brevemente su alcune delle incisioni della Danse Macabre di Hans Holbein, del 1538 circa. Qui il tema è svolto secondo un altro motivo, per il quale ognuna delle incisioni mostra un singolo personaggio, rappresentante, anche qui, una diversa classe sociale o età della vita, o altra possibilità d'esistenza dell'uomo, e ognuno di questi personaggi è alle prese con una versione "personalizzata" della morte.
Il ciclo ha inizio ripercorrendo il racconto biblico del Genesi, con le prime incisioni raffiguranti la Creazione (I), la Tentazione (II), l'Espulsione (III), e la Conseguenza della Caduta (IV), dove è ritratto l'Uomo che lavora la terra affiancato dalla morte, comparsa alla fine della scena precedente. Dopo l'immagine di un cimitero nella V incisione, ha inizio la sfilza dei tipi umani. Il primo è il papa, che vedete qui accanto. Seguono l'imperatore e il re, i potenti, poi ci sono i nobili, conti, i religiosi, come il prete, il monaco e la suora, e sono rappresentati anche i mestieri, come il giudice e l'avvocato. E naturalmente anche gli anziani, i poveri, e i bambini, poiché anche questa danza macabra, come tutte le altre, vuol ricordare che la morte tocca proprio a tutti.
Vedete qui accanto la XXVII, l'astrologo, la XLII, il soldato, e una che mi piace particolarmente, la XXXI, il cavaliere.






















La Danza, me ne sono reso conto in queste settimane, trascorse a studiare la materia solo per rendermi conto di aver trovato solo la punta dell'iceberg, è un argomento smisurato, non solo perché quantitativamente ne vengono realizzati molti esempi (quasi tutti stranieri) di cui si è persa gran parte, il che rende difficile redigere un elenco esaustivo di tutti gli esempi, ma perché si lega a diverse tradizioni più antiche, fra le suggestioni bibliche, la mitologia classica e le leggende germaniche, ed esprime un sentimento che, pur nella molteplicità dei suoi volti nelle varie regioni d'Europa, è profondamente radicato nell'uomo, e cioè, oltre alla paura e alla curiosità inseparabili che si provano all'idea della morte, la paura e la curiosità che si hanno verso ciò che la simboleggia. Anche prima che il mondo moderno la rendesse quasi un tabù, la morte inquietava attraverso i quadri e i versi su di essa, e gli uomini medievali, che andavano acquisendone consapevolezza, impararono ad esercitare quell'arte, l'arte di usare la paura, quel brivido taciuto comune a tutti gli uomini e da tutti gli uomini compreso e riconosciuto, per far passare un messaggio, che in questo caso era il messaggio più semplice e spaventoso di tutti. In una storia dell'evoluzione dell'orrore nelle arti, non si potrebbe prescindere da questo momento.

Il passaggio fondamentale che porta a noi, da un orrore ricercato come mezzo a un orrore ricercato per se stesso, sarà argomento del prossimo post, e lì sarà la musica a farla da padrona. Ma questa danza non la balleremo senza un accompagnamento musicale, e dunque, due pezzi di sapore medievale per prendere gli scheletri per mano e danzare con loro.
La prima è la Totentaz, o Saltatio Mortis aD MM, dei Corvus Corax, una formazione tedesca che suona musica medievale basandosi su manuali d'epoca e un metodo il più attento possibile alla ricostruzione scientifica.

E infine una dedica a uno dei miei progetti preferiti che fa capolino qui grazie al proprio nome: gli australiani Dead Can Dance. Non ho trovato nella loro discografia riferimento esplicito alla Totentanz, ma possono creare la giusta atmosfera grazie al loro Saltarello, arrangiamento di un ballo italiano del Trecento.






Copia di una parte della Danza macabra di Lubecca di Bernt Notke, risalente al 1463 e distrutta dai bombardamenti nel 1942.