giovedì 28 dicembre 2017

Sigurðr - La storia dei Volsunghi

"Partorirai un figlio, lo crescerai come si deve; e sarà il rampollo più illustre e celebrato della nostra stirpe. Intanto conserva con cura i pezzi della spada: da questi egli sarà in grado di forgiare un'arma eccellente, che avrà nome Gramr, e con quella il nostro figliolo compirà molte imprese che non saranno obliate. Così il nome di lui resterà finché durerà il mondo."
(La saga dei Volsunghi, capitolo 12)

Oggi vi racconterò la storia del più grande degli eroi del Nord, e grande è la mia trepidazione nel farlo. Nella mia mente, è stato sotto la protezione di un grande eroe, Beowulf, che l'Anima del Mostro ha emesso i suoi primi vagiti, si è formata ed è cresciuta, e nei miei disegni sapevo che prima o poi il testimone sarebbe dovuto passare a Sigfrido, per rimanere infine con lui o per spostarsi presso un altro eroe, questo ancora non ho deciso. Ciò naturalmente non significa precludermi la possibilità di scrivere altri post su Beowulf -e infatti ne ho qualcuno in programma-, quindi, rispetto all'immagine di un passaggio di testimone, è più appropriato pensare che il secondo, oggi, si ponga a fianco del primo.

Sigfrido è l'eroe germanico più celebre, protagonista di diverse storie e citato in tantissime altre. Laddove Beowulf ha dalla sua soltanto il suo poema -benché molti suoi comprimari compaiano anche altrove-, e dunque è solo attraverso quell'opera che possiamo parlare di lui, su Sigfrido abbiamo molte versioni provenienti da molti luoghi e in molte lingue, versioni anche in contrasto tra loro; e guardare da tutti i lati dei contrasti è quello che cerco di fare.
Il testo più antico su di lui è l'Edda antica (XIII secolo), o in versi, che è costituita da una raccolta di carmi molto più vecchi, contenenti le storie degli dèi e le storie degli eroi. I carmi sugli eroi, tolti quello di Völundr e i tre carmi sui due eroi omonimi (o forse il medesimo) Helgi, sono in effetti tutti relativi al nostro eroe, che nel mondo norreno ha nome Sigurðr, formato da sigr, "vittoria", e varðr, "guardiano"; a lui e alle azioni dei personaggi che gli sono legati dopo la sua morte. Se consideriamo poi che anche Helgi è imparentato con lui, possiamo considerarlo con ancor maggior diritto l'eroe principale dell'Edda.
L'Edda in prosa, scritta da Snorri Sturluson (1179 - 1241) intorno al 1220, in gran parte ispirata ai racconti tradizionali riportati nell'Edda in versi, comprende anch'essa un lungo racconto su Sigur­ðr, e lo stesso vale per la Þiðrekssaga af Bern, la "Saga di Teodorico di Verona" scritta nella prima metà del XIII secolo e contenente ampie inserzioni sui vari eroi incontrati dal protagonista.
È da queste opere, insieme ad altre fonti che probabilmente abbiamo perduto, che deriva il contenuto della Völsunga saga, la Saga dei Volsunghi, scritta nel tardo XIII secolo e di grande interesse per noi, in quanto organizza la materia riguardante Sigurðr in una costruzione ordinata, nella quale molti elementi discordanti vengono armonizzati, mentre altri vengono lasciati, sicché, se da una parte il racconto presenta incoerenze e contraddizioni, dall'altra ci permette di visualizzare le molte forme assunte da questa storia. La Völsunga saga è una fornaldarsaga, una saga leggendaria che differisce dalle tipiche saghe islandesi per essere stata scritta prima della colonizzazione dell'Islanda e perché l'argomento comprende personaggi ed eventi mitici, con molti elementi fantastici, laddove le altre saghe tendono più a raccontare eventi storici in maniera realistica (tendono, nel senso che il fantastico può figurare anche lì, né le distinzioni devono essere troppo nette).
La storia di Sigurðr, infine, costituisce anche il racconto di Nornagestr, il protagonista della saga intitolata Norna-Gests þáttr, scritta intorno al 1300 e appartenente al genere del þáttr, cioè una saga abbreviata, leggendario. Queste sono le basi dalle quali trarrò il mio racconto.

La tradizione norrena non è l'unica a parlare di Sigfrido. L'opera letteraria più celebre tra quelle che lo riguardano è il Nibelungelied, il canto dei Nibelunghi, un poema epico in alto tedesco medio scritto all'inizio del XIII secolo, prima dunque della Saga dei Volsunghi, da un autore tedesco di identità dibattuta. Il suo protagonista è Siegfried, nome di origine diversa rispetto alla controparte norrena, derivante dal protogermanico *Segafriþuz, dove *segaz sta per vittoria e *friþuz per "pace", "santuario". Compare poi nell'opera "Rosengarten zu Worms", e col nome di Seyfrid nel poema "Der Hürnen Seyfrid", opere che si legano alla leggenda di Teodorico raccontata nella Þiðrekssaga.
Mentre le opere norrene sono più strettamente legate ai miti eddici, agli dèi, ai giganti, ai nani, e raccontano la storia con numerosi avvenimenti di origine sovrannaturale, quelle tedesche -che pure fanno menzione alle creature mitologiche- sono differenti e influenzate dalla letteratura cavalleresca.
È con Sigur­ðr, discendente di Odino, che inizio adesso a raccontarvi la storia, per come è raccontata dall'Edda e dalla Saga dei Volsunghi, dalle quali l'ho appresa. Una storia con cui concludere l'anno in buon auspicio per quello venturo, poiché vi sono draghi, lupi mannari, spade magiche e grandi sale, che è quanto basta per fare le storie più belle.

Sigurðr, erede della stirpe dei Volsunghi, era figlio di Sigmundr e di Hjördís, di un padre morto in battaglia prima della sua nascita e di una madre ospitata, sia pure tra grandi onori, in terra straniera, presso il re Alfr, cui in un primo momento era giunta come schiava. Per quanto immensa sia stata la sua gloria, i suoi nemici glielo rinfacciarono molte volte nella sua vita.
La stirpe dei Volsunghi, il cui racconto occupa oltre un quarto della Saga, fu una delle più illustri di quell'epoca di eroi e di mostri da cui deriva la nostra sapienza. Il capostipite, Sigi, era figlio di Odino, e si macchiò per primo di una colpa, l'uccisione di uno schiavo di nome Bredi che l'aveva battuto nella caccia, a causa della quale fu esiliato, abbandonò la terra in cui era nato e viaggiò fino all'Hunaland, la terra degli Unni (ma il nome può indicare anche il territorio dei Franchi) dove col tempo, attraverso la forza e le imprese, costruì una nuova fama e una buona fortuna, fino a divenire il re. Benché mai nel testo sia ricercata una causa prima delle sciagure che occorsero a tutti i Volsunghi, trovo molto significativo il fatto che la loro stirpe fu macchiata dalla colpa fin dal principio, una colpa che potremmo accostare a un peccato di superbia. A scandire la storia di questo casato non sarà però essenzialmente la colpa, ma la vendetta, un sistema di relazioni quasi interamente costituito sulla vendetta, che ha inizio quando Sigi viene ucciso dal fratello di sua moglie e la sua morte viene vendicata da suo figlio, Rerir.
Rerir, a sua volta re degli Unni, da cui prende il nome anche un monte degli Ered Luin nella Terra di Mezzo di Tolkien, è il padre di Völsungr, la cui origine è ricca di motivi mitologici. Lui e sua moglie non riuscivano ad avere figli, benché lo desiderassero ardentemente; allora Frigg, moglie di Odino e dea legata soprattutto alla preveggenza, ma in maniera poco chiara anche alla terra, inviò alla coppia una Valchiria di nome Hljódr, che prese una mela e assunse l'aspetto di corvo. La saga racconta che quando il corvo giunse nell'Hunaland trovò Rerir seduto su un tumulo: il re seduto sul tumulo, a detta del curatore, è un'immagine che può significare impotenza e attesa di un intervento divino, ma che qui propizia la fertilità della moglie, che avviene attraverso la mela portata dal corvo. La mela è interessante perché richiama un'altra dea norrena, Iðunn, protettrice di frutti sacri che gli dèi mangiano per non invecchiare e vivere per sempre (similmente all'ambrosia degli Olimpici), moglie di Bragi che è dio della poesia e che probabilmente un tempo doveva coincidere con Odino; naturalmente, la mela è uno dei simboli più diffusi e antichi, dall'Eden alle Esperidi.

Grazie al frutto, la moglie di Rerir rimase incinta per sei anni finché non realizzò che le restava ormai poco da vivere, e chiese pertanto che il figlio venisse portato alla luce con un parto cesareo. Fu così che venne al mondo Völsungr, già cresciuto di alcuni anni, e la prima cosa che fece fu dare un bacio a sua madre prima che morisse. La nascita di un bambino con qualità prodigiose è un motivo ricorrente non solo del mondo germanico, e che ricomparirà anche nella stessa saga.
Divenuto adulto Völsungr regnò sugli Unni e sposò Hljóðr, la Valchiria che l'aveva fatto nascere. Ebbero undici figli, di cui i maggiori e più rinomati furono i gemelli Sigmundr e Sígný, l'unica figlia. Völsungr fece edificare una grande sala intorno a un albero, un melo, sicché al centro della sala si trovava un ceppo chiamato barnstokkr, che significa ceppo del fanciullo, e a lungo quella corte fu luogo di divertimento, convivio e grandezza.
Un giorno si presentò al cospetto di re Völsungr, accompagnato da molti uomini, il re dei Geati Siggeirr, per chiedergli la mano di Sígný sua figlia. Nella società scandinava, a differenza di altre della stessa epoca, le donne avevano un certo potere decisionale, e Sígný si mostrò fin da subito restia a seguire Siggeirr, anche perché dotata di facoltà di preveggenza: sapeva che dai Geati sarebbero venuti grandi mali ai Volsunghi. Disse comunque al padre che si sarebbe rimessa alla sua decisione, come usava fare, e Völsungr, ritenendo buona cosa che sua figlia prendesse marito, accettò la proposta di Siggeirr e fece approntare un grande banchetto.
Fu in quell'occasione che un grande segno occorse a segnare la storia dei Volsunghi: nel bel mezzo della festa, tra i grandi fuochi crepitanti e i numerosi partecipanti assisi sulle panche di legno con le loro belle vesti e le coppe ricolme di idromele, ecco che un uomo misterioso fece il suo ingresso nella sala:
"Si trattava di uno sconosciuto, avvolto in un tabarro malridotto. Procedeva a piedi nudi e vestiva brache di tela, che gli fasciavano le gambe, e portava un cappuccio sulla testa. Di statura molto alta, era anziano ed orbo. Impugnando una spada si avvicinò al "ceppo del fanciullo"; quindi la brandì e la conficcò nel ceppo, immergendola fino all'elsa.
Nessuno trovò parole da rivolgergli e fu lui a parlare:
«Colui che riuscisse ad estrarre questa spada dal ceppo, costui l'avrà in dono da me. E abbia per certo che mai potrà impugnare spada migliore di questa qui.»
" (Capitolo terzo, traduzione di Marcello Meli.)
Quel giorno Odino comparve di persona nella vita dei Volsunghi, come avrebbe fatto in seguito numerose altre volte, e donò loro il segno di regalità più grande che potessero ricevere: una spada, una spada che apparteneva a lui e che lui ora donava, piantandola nell'albero che stava al centro della loro sala. Come l'albero della sala è un segno di Yggdrasill, l'albero che regge i nove mondi del cosmo norreno e il cui nome significa "destriero di Yggr", cioè di Odino, così Yggdrasill è una delle manifestazioni del mitologema dell'Axis Mundi, l'asse universale che congiunge le dimensioni essenziali che costituiscono il cosmo nella maggior parte delle religioni, quella degli uomini, quella degli dèi e quella dei morti. L'Axis Mundi, particolarmente indagato da Mircea Eliade (1907-1986), si manifesta spesso come albero, sovente posto al centro del mondo-universo, e l'albero del ceppo sta proprio al centro della sala di Völsungr, che è come dire al centro di un mondo, se pensiamo che Miðgarðr, il mondo degli uomini, contiene garðr, che significa "recinzione", "corte", nell'ottica di una cultura che immaginava questi mondi come tanti ambienti separati dagli altri da steccati.
« L'albero, secondo questi miti, esprime la realtà assoluta nel suo aspetto di norma, di punto fisso, sostegno del Cosmo. È il punto d'appoggio per eccellenza. Di conseguenza, le comunicazioni col cielo possono avvenire soltanto intorno a esso, o addirittura per suo tramite. » (Mircea Eliade, "Trattato di storia delle religioni", 1984.)
Ponendo la spada al centro del tutto, Odino ha investito il suo possessore di un grande legame con quel tutto, e il motivo della spada conficcata per terra ci ricorda bene, del resto, un'altra storia, la storia di qualcuno che estraendo quella spada divenne davvero il re del tutto, vale a dire Artù, il re bretone. Artù e Odino condividono -in relazione al fatto di guidare la caccia selvaggia, come abbiamo visto più volte-  l'aspetto di re dormiente che attende il ritorno, non morto ma nemmeno vivo, nella misura in cui Odino rimase appeso nove giorni ad Yggdrasill per poi ritornare, e Artù è stato condotto ad Avalon in attesa del momento in cui tornerà sulla terra.

Ora, tutti i presenti che tentarono di estrarre la spada fallirono, fino al momento del turno di Sigmundr, che la tirò fuori dal ceppo senza difficoltà alcuna. Si badi che Sigmundr, destinato a succedere al trono del padre, non ricevette nessun titolo per aver estratto la spada, né Odino lo aveva mai detto; il discorso appena esposto si riferisce a che cosa rappresenta questo episodio.
Siggeirr, che desiderava la spada e non aveva avuto la possibilità di tentare per primo, offrì a Sigmundr tre volte il peso della spada in oro, ma questi rispose: « Avresti potuto prenderla con la stessa facilità con cui l'ho fatto io, se fosse stato tuo il diritto di prenderla. Ma la mia mano è stata la prima a prenderla, e tu non l'avrai mai, neanche se dovessi offrire tutto l'oro che possiedi».
Fu così che Siggeirr, pur dissimulando davanti ai presenti, decise che avrebbe fatto vendetta dei Volsunghi. Il giorno dopo partì con Sígný, che invano ammonì il padre rivelandogli le sue visioni. Dopo qualche tempo, Siggeirr invitò re Völsungr con tutti i suoi figli, perché prendessero parte al banchetto nuziale, e allestì una grande armata con cui trucidare loro e il loro seguito. Sígný, che era a conoscenza di questo progetto, richiese un incontro col padre non appena questi fu giunto nella terra dei Geati, e gli rivelò dell'armata, supplicandolo di ripartire finché era in tempo. Ma Völsungr le rispose «Fino ad oggi ho sempre mantenuto i patti che ho stretto, perché dovrei smettere ora, nella mia vecchiaia? Quando vi saranno banchetti, nessuna giovane donna punterà il dito verso uno dei miei figli per aver temuto di affrontare la morte, perché ognuno deve morire prima o poi -non c'è scampo dalla morte! E la mia decisione è che noi non scapperemo, e svolgeremo la nostra parte quanto più audacemente possiamo. Ho combattuto in centinaia di occasioni, talvolta con forze più grandi, talvolta con forze più piccole, ma sono stato sempre io il vincitore, e nessuno racconterà mai che io sia fuggito o abbia negoziato la pace».
Se il nostro buonsenso moderno è portato a ritenere stupida la sua decisione, non dobbiamo commettere l'errore di proiettare il punto di vista di una società su quello di un'altra completamente diversa. I nordici, nel raccontare questa storia, provavano probabilmente ammirazione per il coraggio di Völsungr, la sua difesa della fama e della gloria, e la sua fedeltà ai patti, qui portata ad una dimensione quasi paradigmatica. Un senso dell'onore autodistruttivo che mi ricorda, parlando di storie che conosciamo tutti, a quello di Eddard Stark della "A Song of Ice and Fire" di George R.R. Martin, non per nulla uno dei miei personaggi preferiti.
Quando la battaglia ebbe luogo, Völsungr e i suoi figli si batterono con foga e grandissimo valore, fino alla porte del primo e alla cattura dei secondi. Sígný chiese così al marito, re Siggeirr, di non dare ai suoi fratelli una morte rapida, ma la più lunga e lenta che fosse possibile. Siggeirr pensò che la donna fosse impazzita, ma la accontentò, sia perché così lei richiedeva e sia perché quella decisione lo compiaceva di più.  Fece legare tutti e dieci i figli di Völsungr a un tronco d'albero disposto orizzontalmente, un atto simile all'impiccagione e con analoga valenza di condanna per tradimento, e poi li lasciò da soli; la notte successiva, un mostro, un'enorme lupa famelica, si avvicinò al tronco d'albero e divorò uno dei dieci Volsunghi, senza che gli altri potessero fare nulla. Il giorno seguente trascorse nella mestizia e nella sofferenza, finché nuovamente, col calare delle ombre, la lupa riapparve e divorò un altro dei fratelli, e così ancora per le sette notti successive, fino a quando non rimase che Sigmundr. A quel punto Sígný si recò da lui portando del miele, con il quale ricoprì il suo corpo e colmò la sua lingua; poi se ne andò. Quella notte, la lupa si avvicinò a Sigmundr, e anziché azzannarlo iniziò a leccare il miele dal suo corpo, parte per parte, fin quando non fu rimasta che la lingua: ed ecco, mentre la lupa introduceva la lingua nella bocca di Sigmundr, questi la serrò tra i denti e cominciò a strattonare con forza, e la lupa, del pari, iniziò a tirare a sua volta, senza riuscire a vincere la presa del Volsungo e nel mentre esercitando forza sui legami che lo tenevano al tronco, finendo con lo spezzarli. Alla fine di quel fatale tiro alla fune, con uno strappo, la lingua fu staccata, e la lupa morì di dissanguamento. Sigmundr, libero, si allontanò e si nascose tra i boschi, dove si costruì un rifugio e rimase, visitato dalla sorella, in attesa dell'occasione migliore per vendicarsi di Siggeirr.
Sigmundr fu un eroe grande quanto lo fu Sigurðr, e la sua parte della storia contiene alcuni dei momenti più avvincenti, così come contiene forse i più turpi.
Ora, l'autore non dice perché Sígný avesse chiesto quel trattamento per i suoi fratelli, e io l'ho interpretato in un certo modo quando l'ho letto, con una possibilità in più soggiuntami oggi durante la scrittura di questo racconto, che però è soltanto una congettura personale: se Siggeirr avesse ucciso subito tutti i Volsunghi, lei non avrebbe avuto modo di salvarli, mentre con questo pretesto poteva sperare di trovare un modo per intervenire; probabilmente, il fatto che ci sia quel numero di persone, e che ogni notte il lupo ne uccida una, contiene un messaggio simbolico di origine antica, come accade nelle fiabe. Molte fiabe contengono, ad esempio, personaggi in un numero che rappresenta i giorni intercorrenti tra una fase lunare e l'altra, e in quell'ottica il lupo appare spesso come immagine della luna nuova che sostituisce quella vecchia, o come il sole che la oscura; il lupo è oltretutto il divoratore per eccellenza, come dimostra il mito norreno dei lupi Sköll e Hati che rincorrono il sole e la luna e che li divoreranno durante il Ragnarök, come Fenrir farà con Odino. La mia congettura, dicevo, è che Sígný volesse garantire ai suoi fratelli una morte che potesse portarli nel Valhöll, in modo che, se era destino che morissero, almeno non sarebbero morti impiccati come degli schiavi, una morte che nelle credenze conduceva a Hel, le cui anime erano quelle dei morti in modo infame.
Sigmundr incatenato, illustrazione
di Woods P. Wilson.
Quanto alla lupa, l'autore della saga riporta delle voci, secondo le quali essa era in realtà la madre dello stesso Siggeirr, una strega in forma di animale. Ciò è interessante sia perché richiama le storie sui warg, i lupi malvagi e di natura sovrannaturale, la stessa di Fenrir, Sköll e Hati, che talvolta figurano come compagni o cavalcatura delle streghe, sia perché è analogo a quanto, nell'Edda, viene detto di uno dei serpenti nella fossa in cui viene gettato Gunnarr.
La sorte dei Volsunghi, imprigionati mentre un lupo (possibilmente mannaro) li divora uno per volta rivive nella storia di Beren e Lúthien raccontata nel Silmarillion, allorché Beren e il re elfico Finrod Felagund, della stirpe dei Noldor, furono imprigionati a Tol-in-Gaurhoth ("l'isola dei lupi mannari") insieme alla scorta del re, che fu poco alla volta uccisa dal mostruoso lupo mannaro che vi dimorava. Finrod, che si trovava con Beren a causa del debito di vita con suo padre Barahir, scelse di sacrificarsi per permettere all'Uomo di portare a termine la sua missione, la cerca dei Silmaril, e quando furono rimasti solo loro due si avventò sul lupo, aggredendolo con i suoi denti e le sue unghie, uccidendolo dopo una violentissima lotta e morendo con lui.

Era costume, nella società germanica, che i figli dei nobili venissero formati presso lo zio materno, ricevendo un'istruzione riguardante sia il corpo che lo spirito. Sígný ebbe da Siggeirr due figli, e quando il primo ebbe dieci anni lo mandò da Sigmundr.
Ora, per intendere al meglio tutte le saghe dobbiamo tenere presente il valore della vendetta presso i popoli di cui ci parlano. La vendetta è innanzitutto un diritto, con valore assoluto, non una consolazione per un offeso, ma un vero e proprio dovere nei confronti della vittima del torto, della famiglia e della reputazione, cioè dell'onore. Non vendicarsi significa perdere l'onore.
Vi è la possibilità di accettare un risarcimento in denaro, il cosiddetto guidrigildo, ma nelle saghe, nell'immagine sublimata che ci è rimasta dei norreni, accettarlo è disonorevole, da vigliacchi.
La vendetta è dovuta anche contro l'uccisione dei congiunti di cui si è responsabili: come vedremo più avanti parlando di Fáfnir e Reginn, laddove quest'ultimo ha chiesto a Sigurðr di uccidere Fáfnir per lui, in quanto fratello è comunque tenuto a vendicarlo, e lo fa ordinando a Sigurðr di arrostire per lui il cuore del drago.
Nel caso di Sígný troviamo un'ulteriore complicazione: lei deve ottenere vendetta contro Siggeirr per l'uccisione del padre e dei fratelli, ma contraendo un matrimonio con lui è divenuta anche parte della sua famiglia, e dunque tenuta a vendicare anche quest'ultima. Come vedremo, il sangue nel mondo dei Volsunghi non manca mai di essere ripagato, e non lo fa mai per difetto.
Inviare i figli da Sigmundr serviva a prepararli per divenire i vendicatori di Völsungr, in quanto figli di sua figlia, e per vendicarlo avrebbero dovuto uccidere il loro stesso padre (e naturalmente ciò li avrebbe vincolati anche a vendicare lui); ma quei bambini servivano anche come mezzo per vendicarsi. Sigmundr mise il bambino alla prova, chiedendogli di preparare del pane e lasciando un animale nella sacca di farina (forse un insetto) mentre lui svolgeva altri compiti fuori dalla casa: tornato, il bambino gli disse che non aveva osato toccare la farina perché vi aveva trovato dentro un animale, e Sigmundr non lo ritenne abbastanza forte da tenerlo con sé. Quando capitò nuovamente che incontrasse Sígný, le fece presente la sua osservazione, e la donna replicò «Allora uccidilo. Non c'è bisogno che viva più a lungo». E Sigmundr lo fece.
L'anno seguente, Sígný inviò al fratello il suo secondo figlio, gli eventi si ripeterono, e anche questa volta la madre ordinò al fratello di uccidere suo figlio.
È una parte della storia davvero terribile, nella quale vediamo l'ombra di uno dei mali più disturbanti per la nostra umanità, la madre che uccide i figli. Qui la madre non compie l'azione, ma delega qualcuno a farlo senza mostrare la minima pietà.

La storia cambiò decisamente con la nascita di Sinfjötli.
Sígný, che intendeva compiere quella vendetta e che aveva ormai appurato che dal seme di Siggeirr non sarebbe mai nato nessuno che fosse forte come un Volsungo, decise che ne avrebbe messo al mondo uno, agendo in maniera spregiudicata: si incontrò con una seiðkona, ovvero una donna (kona) praticante la seiðr, una pratica magica di tipo sciamanico legata alla dea Freyja, più tipicamente femminile ma adoperata anche da Odino nella saga degli Ynglingar, grazie alla quale fu possibile per le due donne scambiarsi le sembianze. Assunto l'aspetto di un'altra donna, Sígný si recò dove viveva Sigmundr, che la trovò desiderabile e giacque con lei, mentre la maga dormiva con Siggeirr in modo da non destare sospetti. Fratello e sorella si unirono anche le due notti successive.
Dall'unione dei due Volsunghi nacque un bambino cui fu messo nome Sinfjötli, e questi dimostrò la propria forza in una prova che sostenne ancora prima di essere inviato da Sigmundr: Sígný gli cucì una vesta direttamente sulla sua stessa pelle, come aveva già fatto con i due figli di Siggeirr, che avevano urlato per tutto il tempo, e poi che ebbe visto che Sinfjötli non batteva ciglio, afferrò le maniche e gliele strappò, scuoiandogli le braccia. Dunque gli chiese se sentisse dolore.
«Nessun Volsungo chiamerebbe quello dolore» fu la risposta.
Sígný lo inviò così da Sigmundr, che era zio e padre del bambino, senza che altri che lei conoscessero questa parentela. Sigmundr lo accolse e lo sottopose alla stessa prova che aveva assegnato ai suoi fratellastri; tornato a casa, vide che il suo ospite aveva preparato il pane, e gli domandò se non avesse scorto nulla di strano nella sacca.
«Non sono sicuro che non ci fosse qualcosa di vivo, là dentro» rispose Sinfjötli «ma l'ho impastato lo stesso». Allora Sigmundr rise di gusto, e gli spiegò che in quel pane, e prima ancora in quella farina, aveva messo un grosso serpente velenoso. Così il figlio di Völsungr accettò Sinfjötli e gli fece da maestro, fino a farne un giovane eroe.

Come visto all'inizio della storia con Bragi, che esiliato in terra straniera visse come brigante, è ricorrente questo elemento nella saga dei Volsunghi. In questo modo visse Sigmundr durante il suo esilio, e così fece vivere anche Sinfjötli. Tolkien lo inserì nel Silmarillion sia a proposito di Beren, e di Barahir prima di lui, che di Túrin, figlio di Húrin. La storia di padre e figlio, entrambi protagonisti degli eventi del loro tempo, ricorda per molti punti quella di Sigmundr e Sigurðr. Túrin dovette abbandonare il regno del Doriath per avere accidentalmente ucciso l'Elfo Saeros, e per molto tempo visse come capo di una banda di fuorilegge. Inoltre, anche la sua storia comprende un incesto, tra lui e sua sorella Nienor, dovuto all'inganno operato dal drago Glaurung e terminato tragicamente.
Durante l'apprendistato di Sinfjötli avvenne uno degli episodi più straordinari di tutta la nostra storia: un giorno che i due Volsunghi stavano girando per la foresta in cerca di bottino, si imbatterono in una capanna al cui interno dormivano due uomini, con preziosi anelli d'oro al dito. Su di loro, appese in alto, pendevano due pelli di lupo. Quando Sigmundr e Sinfjötli, prese le pellicce, le indossarono, si ritrovarono trasformati in lupi a loro volta.
I due uomini che avevano incontrato erano infatti due principi su cui gravava una maledizione, che li costringeva a vivere come lupi, con la possibilità di togliere la pelliccia solo una volta ogni dieci giorni. Il motivo che riscontriamo in questa storia è molto più largamente presente nella tradizione norrena, e ci richiama le celebri figure dei berserkir, i guerrieri che in preda a una sorta di trance furiosa divenivano forti e violenti perdendo qualunque cognizione del pericolo e del dolore. Accanto ai berserkir, il cui nome significa "veste (sarkr) di orso (berr)", esistevano anche gli úlfheðnar, vestiti con mantelli di lupo. In entrambi i casi si trattava di una pratica guerresca di ispirazione sciamanica, fondata sull'idea che fosse possibile assumere le caratteristiche di altri esseri viventi, attraverso la loro pelliccia e ingredienti rituali che provocavano allucinazioni e inducevano uno stato fisico estremamente reattivo, fattori che i vichinghi attribuivano a Odino, venerato come dio del furore sacro. Da questo derivava l'idea che questi guerrieri si trasformassero in orsi o in lupi e che combattessero alla maniera di questi. I berserkir, in quanto orsi, erano solitari e in tal modo combattevano, spesso vivendo ai margini della società, mentre gli úlfheðnar, come i lupi, erano efficaci grazie alla collaborazione.
Sigmundr e Sinfjötli si resero conto che, pur esprimendosi attraverso ringhi e ululati, erano in grado di comprendersi e comunicare, e stabilirono che avrebbero cacciato separatamente, a condizione che, laddove uno dei due si fosse trovato alle prese con un gruppo di sette uomini, o più, avrebbe lanciato un forte ululato per fare accorrere l'altro. I due cacciarono con grande ferocia e grande successo, e quando a Sigmundr accadde di imbattersi in sette uomini, lanciò il segnale che fece accorrere Sinfjötli, e questi uccise tutti quanti gli uomini. Dopo che si furono separati nuovamente, fu Sinfjötli a imbattersi in un gruppo di ben undici uomini, ma il giovane, impulsivo e desideroso di non condividere il merito né ricevere aiuto, non chiamò lo zio e affrontò i nemici da solo, uscendone vincitore ma gravemente ferito.
Sigmundr lo trovò appoggiato contro un albero, e gli domandò perché non avesse chiesto aiuto.
«Non volevo il tuo aiuto» rispose «Tu hai ricevuto aiuto per uccidere sette uomini, eppure io, che non sono che un bambino in confronto a te, non ho chiesto aiuto per ucciderne undici».
Sigmundr, udendo quella risposta, fu preso da una tale collera da avventarsi sul nipote e azzannargli la gola, prima di calmarsi: la pelle di lupo aveva reso più forte il suo istinto e la sua parte più selvaggia, ora difficile da controllare. Preso il lupo sul dorso, lo trasportò verso un rifugio e vegliò su di lui, maledicendo quelle pelli.
Fu in maniera non meno prodigiosa che la ferita di Sinfjötli venne curata: Sigmundr, alcuni giorni dopo, vide un episodio, simile a quello occorso a lui e al figlio, con protagoniste due donnole: una azzannava l'altra alla gola, ferendola, poi si allontanava nella foresta e tornava con delle foglie, che applicava sulla ferita dell'altra e la guariva. Allora, un corvo volò da lui, portandogli una foglia dello stesso tipo. Sigmundr usò la foglia sulla ferita di Sinfjötli, che saltò subito in piedi, come se nulla fosse mai accaduto.
L'episodio delle donnole merita attenzione, tra le altre ragioni, perché è presente anche in un'altra storia appartenente a un'altra cultura, uno dei lai di Maria di Francia (XII-XIII secolo) intitolato "Eliduc", l'ultimo e più lungo del corpus della poetessa, dove Guildeluec, moglie del cavaliere Eliduc, assiste all'ingresso dei due animali in una cappella, all'uccisione, da parte del servo, di uno dei due, e a come l'altro corra nella foresta e ne torni con un fiore con cui guarirlo. A sua volta, Guildeluec userà quel fiore per guarire la principessa Guilliadon. I lai di Maria di Francia, del resto, hanno conosciuto fortuna nel mondo norreno, con la raccolta di storie in prosa "Strengleikar", presso le quali manca un racconto che riprenda l'Eliduc, ma come abbiamo visto esso non pare del tutto sconosciuto.
Quanto alla storia della Terra di Mezzo, le pelli che permettono di trasformarsi, assumendo le caratteristiche dell'essere completo, sono presenti anch'esse nella storia di Beren e Lúthien, che indossano le pelli del lupo mannaro Draugluin e del vampiro-pipistrello Thuringwethil, servi di Morgoth, per entrare nella sua fortezza ad Angband.

Sigmundr e Sinfjötli attesero, in un nascondiglio sotterraneo, fino a quando non furono in grado di togliere le pellicce, e poi le bruciarono, perché non nuocessero più a nessuno.
Passati alcuni anni, quando ormai Sigmundr ritenne il nipote grande abbastanza per compiere la loro vendetta, lo condusse alla reggia di Siggeirr, dove si nascose, insieme a lui, in una stanza che dava sulla sala del re, con la connivenza della regina Sígný.
Ora, in questo punto pare essere presente uno dei diversi problemi di coerenza interna della saga, dovuti alla contaminazione tra le diverse fonti, dunque è bene che lo teniate presente durante la lettura: Sígný, negli anni in cui Sinfjötli era cresciuto presso il padre, aveva messo al mondo due figli, e un giorno, mentre giocavano con un anello d'oro, questo rotolò fino alla stanza dove stavano nascosti i due Volsunghi, che vennero visti dai due bambini, minacciosi con i loro lunghi elmi e le scintillanti cotte di maglia, sicché i piccoli corsero a riferirlo al padre. Quando li ebbe sentiti, Sígný li prese e li condusse di nuovo in quella stanza, riferendo l'accaduto ai suoi parenti e affermando che avrebbero dovuto ucciderli. Sigmundr rispose «Non ucciderò i tuoi figli, anche se mi hanno scoperto», ma Sinfjötli, senza scrupolo di sorta, estrasse la spada e uccise i due bambini, per poi appenderli al muro proprio di fronte a dove stava re Siggeirr. Ho parlato di commistione perché pare che questo episodio derivi da quello già visto in precedenza, con la prova della farina, e da quello dei figli di Guðrún.
Siggeirr ordinò ai suoi uomini di catturare gli invasori, che ne massacrarono gran parte prima di cadere in ceppi.
Ancora una volta, re Siggeirr si trovò a disporre di due prigionieri Volsunghi, ed escogitò un nuovo supplizio per loro: li fece rinchiudere in un tumulo, e nel tumulo fece collocare una pietra, di forma e dimensioni tali da separare la struttura in due ambienti, senza che fosse possibile passarle intorno, poiché stava perfettamente attaccata alle pareti del tumulo. Nell'ambiente di sotto fu gettato Sigmundr, in quello di sopra Sinfjötli. In questo modo, i due sarebbero morti lentamente per inedia, vicini e in grado di sentire l'uno le sofferenze dell'altro, pur senza potersi aiutare o almeno vedere o toccare.
Fu ancora una volta Sígný a salvare il fratello e la sua stirpe: mentre il tumulo veniva ricoperto, la regina nascose nella paglia una grossa fetta di lardo, e gettò quella maglia nel mucchio che veniva posto sul tumulo, chiedendo ai servi di non dirlo al re.
Sinfjötli trovò il lardo, commentando che, almeno, il cibo sarebbe durato per un po'; quand'ecco, mentre lo liberava dalla paglia, si accorse che il lardo conteneva a sua volta qualcosa: la spada di Sigmundr, la spada migliore che esistesse. La piantò nella pietra e la spinse in profondità, finché la punta non sbucò dal lato di sotto, dove Sigmundr la afferrò e cominciò a tagliare la pietra insieme al figlio. Il lavoro durò a lungo, ma ancora una volta i Volsunghi furono liberi. Entrarono nella sala, mentre tutti dormivano, e la diedero alle fiamme. Mentre tutto bruciava, re Siggeirr emerse dalla sua stanza domandando chi fosse stato a provocare l'incendio. E Sigmundr rispose:
«Siamo stati noi, io e Sinfjötli, il figlio di mia sorella, e vogliamo tu sappia che i Volsunghi non sono ancora morti.»
Nell'incendio morirono gli uomini di Siggeirr e anche lui stesso, e si consumò finalmente la vendetta dei Volsunghi, con tutte le sue conseguenze. Incluse quelle che riguardavano Sígný.
Sigmundr la chiamò infatti per proclamare il ruolo che lei aveva avuto nel portare a termine quella vendetta e in tutto quanto era accaduto in quegli anni, e Sígný lo proclamò, rivelando anche ciò che solo lei sapeva, e di come avesse assunto le sembianze di maga per giacere col fratello nella foresta, tanti anni prima: «Sinfjötli è figlio tuo, e mio. La sua immensa forza deriva dall'essere nipote di re Völsungr sia da parte di padre che da parte di madre. Tutto ciò che ho fatto, l'ho fatto per provocare la morte di Siggeirr. E ho fatto così tanto per ottenere la vendetta, che continuare a vivere adesso mi è impossibile. Sarò lieta di morire con re Siggeirr, per quanto fossi riluttante a sposarlo.»
La Volsunga baciò un'ultima volta il fratello e il figlio, fece il suo ingresso nelle fiamme e il suo odio fu così spento. In quanto sposa di quell'uomo, il costume detto "della buona moglie" prevedeva che lo seguisse nella morte, e lei non si sottrasse. Dalle sue parole, peraltro, sentiamo che lo fece non per omaggio al marito o al costume, ma perché il suo desiderio di vivere era stato estinto.

Sigmundr, insieme al figlio, partì e tornò nella terra di suo padre, il territorio degli Unni, dove finalmente divenne re. Sposò una donna di nome Borghildr, da cui ebbe i figli Helgi e Hamund.
Sigmundr e Sinfjötli li troviamo anche nel Beowulf, col nome di Sigemund e di Fitela, e la loro storia viene cantata da un menestrello durante i festeggiamenti per la vittoria di Beowulf su Grendel. In tale occasione, viene rievocata l'impresa della vittoria di Sigemund contro un drago, impresa che comunemente è attribuita a suo figlio Sigfrido, ma che, per questo e altri riferimenti, sembra aver senso supporre che, in una versione forse più antica del mito, fosse opera di Sigmundr.
Questa la racconteremo quando finalmente parleremo, dopo aver raccontato la storia dei suoi antenati, della vita di Sigurðr.

Bibliografia

Gianna Chiesa Isnardi, "I miti nordici", Loganesi, Milano 1991.
Marcello Meli, "La saga dei Volsunghi", Dell'Orso, Alessandria 1993.
Piergiuseppe Scardigli, "Canzoniere eddico", Garzanti, Milano 2004.

giovedì 21 dicembre 2017

Anime della Caccia Selvaggia - La caccia della luna e dell'inferno, di Diana e di Arlecchino

Questo è il quarto post dell'Anima del Mostro sulla leggenda della Caccia Selvaggia.
Una prima citazione è avvenuta nel post "Cavalcata in ascesa verso l'inverno".
I post sulla Caccia selvaggia sono i seguenti.
Primo post: Anime di mostri: La caccia selvaggia, le origini, sulle origini della leggenda da ricercare nei miti di Odino, Ecate, Hel, e nello sciamanesimo, e della più famosa delle sue manifestazioni, la masnada di Harlequin, di cui parlano per primi Orderico Vitale e Walter Map con la celebre storia di Re Herla.
Secondo post: Anime di mostri: La caccia selvaggia, le storie, con alcuni racconti sulla Caccia Selvaggia da cronache e opere letterarie medievali, alcune manifestazioni regionali e la sua comparsa nella letteratura italiana in Dante e Boccaccio.
Terzo post: Anime di mostri: La caccia selvaggia vive ancora, con la comparsa della Caccia nella letteratura moderna, tra Shakespeare, Tasso, Bürger e altri, fino alla letteratura fantastica, Lovecraft e Tolkien, concludendo con i videogiochi e con la musica.

Benvenuto lettore, amico o nemico. L'ultima volta ci siamo lasciati con queste parole:
"Che tu sia un dio o un demone, che tu sia vivo o morto o in bilico tra i mondi, spero sia riuscito a trovarti, e di vedere anche te, il prossimo inverno o la prossima luna piena, seduto sul destriero della tua anima a solcare il cielo."
Il nuovo inverno è alle porte e io sono pronto sul mio destriero. Ho atteso per tutti questi mesi di tornare a solcare il freddo cielo dicembrino insieme a tutti i cavalieri che l'hanno già solcato, e a quelli nuovi che speravo si sarebbero aggiunti. Se sei pronto, seguici. Abbiamo tanti cavalli senza nessuno che li monti, abbiamo corazze ed armi e vestimenti, e tutto ciò che può occorrere per cacciare. Non è per quello, però, che dovresti seguirci. La cosa più importante che portiamo con noi sono le storie, e alcuni ne hanno più di altri. Lì puoi vedere Teodorico, Herla, Carlo V, ma soprattutto il grande Artù, che è il re più grande che sia vissuto. Le loro storie hanno storie a loro volta. Da quest'altra parte ci sono nobili, conti, baronetti, con i loro segreti e le loro confessioni, e di là troverai gente umile, apparentemente senza importanza, ma anche loro con più storie di quante potresti desiderarne.
Davanti a noi è Odino, e a lui, ben più che a me, chiedi che cosa siamo e che cosa andiamo a fare, perché lui sa davvero ogni cosa. Quell'ombra più scura delle altre, invece, è meglio se la frequenti con molta attenzione. Ha avuto molti nomi diversi, tra l'est e l'ovest, nel corso dei millenni, ma alla fine ha scelto di trascorrere una tranquilla vecchiaia in Italia. Quando noi cavalchiamo, però, riprende il suo posto come capo della schiera. L'hanno chiamato Erlik, Hellekin, Harlequin, ma forse tu lo conosci meglio come Arlecchino. È il re dell'Inferno, consorte della Luna, ed oggi è di lui che ti parlerò.
"La caccia selvaggia" di Johann Wilhelm Cordes (1856, 1857)

Tornare a parlare della Caccia Selvaggia ha diversi motivi, non ultimo quello di dedicarmi ancora a uno dei temi che prediligo, uno dei più rappresentativi del mio percorso e uno dei più grandi tra quelli del vasto mare di miti e di storie che costituiscono la cultura occidentale, in particolare uno dei più frequenti in quel crogiolo di tradizioni diverse che è il Medioevo.
Significa poi aggiungere alcuni tasselli mancanti al percorso precedenti, comprensivo di solo alcune delle storie sulla Caccia. Inserirle tutte sarebbe un'impresa arrogante quanto impossibile, ma parlare senza troppe pretese di quello che ho scoperto nel frattempo integrerà sicuramente la raccolta costituita finora.
Infine, parlare della Caccia in relazione a certe sue valenze e ai miti da cui deriva, in maniera più approfondita di quanto fatto nel primo post, permetterà di allacciare questo discorso a quello tracciato più recentemente, relativo alla luna (Luna dei Mostri) e alla sua simbologia. E la felice circostanza per la quale quest'anno il 21 dicembre, giorno del solstizio d'inverno, sia un giorno di pubblicazione, non poteva che rendere obbligatorio che questo ritorno avvenisse oggi.

Tutto parte da una constatazione che dobbiamo tenere sempre a mente quando parliamo di mitologia comparata, e cioè che il modo in cui intendiamo la mitologia e le divinità antiche, molto schematizzato, è monodimensionale e ci impedisce di cogliere come i miti contengano insieme storie nate in periodi di tempo molto lunghi, per nulla contemporaneamente. Oltre a ciò, dobbiamo ricordare che divinità che percepiamo come distinte possono anche essere aspetti diversi di un unico oggetto. Questo è il caso delle dee lunari greche, cui la storia e il percorso culturale hanno dato diversi attributi. Ora, dobbiamo considerare, per comprendere questo discorso, come Diana, Artemide ed Ecate possano sia intendersi come dee diverse che come la stessa.
Sappiamo che Ecate, "lieta dei cervi e dei cani signora", usasse scorrazzare per le vie notturne, accompagnata da animali da caccia, magari su un carro trainato da dei cervi, lanciando spaventosi latrati. La stessa Ecate, una e trina, tricipite, forma delle tre fasi lunari, dea dei crocicchi e della magia, potenza del mondo ctonio, degli inferi, è signora di esseri demoniaci afferenti al mondo degli incubi, come le lamie e le empuse. Non è per imprecisione che il nome delle lamie veniva usato come sinonimo di "streghe" nel Medioevo, poiché esse derivano dalla stessa immagine di donna-uccello notturno usa ad intrufolarsi durante la notte nelle case per rapire o divorare i bambini (per i quali venivano anche usate come spauracchio dagli antichi), affine anche alle succubi e agli incubi, gli spiriti notturni che provocano disturbi al sonno degli esseri umani giacendo con loro. Le empuse, tipicamente appartenenti ai cortei di Ecate, possono assumere molte forme, incluse quelle degli animali notturni che accompagnano la dea, o di vacche, anch'esse bestie legate alla simbologia lunare, e sono intimamente connesse al fuoco.
Scrive il cosiddetto Scoliasta ad Apollonio Rodio, nel III secolo a.C., a proposito di Ecate:
"...e manda anche dei fantasmi, i cosiddetti Hekataia, e spesso muta d'aspetto, ragion per cui vien pure detta Empousa."
Vi sono poi molte storie che dicono esplicitamente che Ecate porti con sé le anime dei morti.
L'Inno orfico (III-IV secolo):
"A ECATE
[Ecate io chiamo]...
menade con le anime dei morti,
figlia di Perse, notturna, desertica,
lieta dei cervi e dei cani signora."

Ancor più interessante è quello che ci dice Ippocrate (V-IV secolo), a proposito proprio degli incubi:
"Le visioni notturne che si presentano di notte e gli stati di pànico e i deliri e i balzi sul letto e gli spauracchi e gli impulsi di fuga al di fuori, li definiscono assalti di Ecate e attacchi degli eroi, usano purificazioni e formule magiche, rendendo la divinità una cosa quanto mai impura e non divina."

Il corteo di Ecate, così, pullula di anime di morti tra i quali si distinguono quelle degli eroi, guerrieri che non hanno ricevuto sepoltura e che non possono pertanto accedere all'Ade. Possiamo dire che la Caccia Selvaggia esiste già in questo momento, e che la sua guida più antica sia la dea dai tre volti.
Nell'Inno orfico, pure, troviamo la parola "menade", in traduzione di un verbo greco che significa "baccheggiare". Il nostro discorso comprende dunque un altro importantissimo dio greco, Dioniso, sul quale torneremo tra poco.

Perché ho introdotto il discorso con quelle premesse sulle dee lunari? Perché se consideriamo Ecate come un aspetto di Diana, nel cui nome risiede una radice che troveremo presente nel folklore di quasi tutti i popoli di discendenza indeuropea, potremo ritrovare la stessa dea presso la maggior parte di essi. Presso i Celti troviamo Dana, più anticamente Danu, dea genitrice dei Tuatha Dé Danann che abbiamo incontrato proprio all'inizio del discorso sulla Caccia, gli dèi migratori che si erano stabiliti in Irlanda, venuti dal cielo, salvo poi, una volta soppiantati dalle religioni successive, rifugiarsi sottoterra configurandosi come Piccolo Popolo, cioè folletti e fate. Le fate (dal latino fatum, "detto" e naturalmente Fato, destino) sono da rintracciare nelle Parche o Moire, tre a loro volta come Ecate, e le fate sono menzionate tra le categorie di esseri che partecipano ai misteriosi cortei notturni che ci interessano. Il discorso sulle dee lunari già avviato in precedenza ci porta fin qui.
Dana ha un corrispondente gallese in Dôn, generalmente considerata dea anche se senza evidenze testuali, che a sua volta è genitrice di dèi tra i quali Gwydion, mago che si scontra con Arawn, signore dell'oltretomba, nel poema Cad Goddeu, "La battaglia degli alberi". Arawn lo abbiamo già conosciuto come capo della caccia selvaggia gallese.
Il nome della dea deriva da dies, la luce del giorno, dalla quale risaliamo fino alla radice indoeuropea *dyew, luce. Dalla medesima derivano anche i nomi di Zeus e Iuppiter, cioè Giove. Teniamo presente che il periodo invernale è l'arco di tempo che vede la luce a poco a poco rinascere dalle tenebre a cominciare dal solstizio. Il nome di Dioniso, che contiene la stessa radice in quanto il suo nome significherebbe (tra le altre ipotesi) "giovane figlio di Zeus", ci richiama un dio oscuro profondamente legato all'umanità, in quanto nato da donna mortale che, dopo essere stato smembrato e divorato dai Titani, a loro volta fulminati e bruciati da Zeus, rinasce come essere divino. La sua vicenda è una storia di morte e di resurrezione, modello di molti culti misterici. Anche Dioniso, è noto, viaggia accompagnato da un corteo di adepti caotici e in preda all'ebbrezza, al furore, furore mistico che porta, attraverso l'ebbrezza, a vedere "oltre".

"Wotan" di Arthur Rackham.
Furore che, nel mondo nordico, è prerogativa e nome di Odino, che prende nome da una radice indoeuropea, *Wat, la stessa da cui deriva, in latino,"vates", fino al nostro "vate". Odino, che è risaputo possedere una grande infinità di nomi, parla in alcune strofe dell'Hávamál dell'uso delle rune, e dei nomi di quanti le hanno incise per primi tra le varie razze, dato che lui le ha incise per gli Æsir, Dvalinn per i Nani, Asvid per i Giganti, mentre per gli Elfi le ha incise Dáin, nome che richiama ancora una volta la luce, ancor più in considerazione del fatto che gli Elfi sono esseri luminosi per definizione. E non sembra del tutto fuori luogo immaginare che Odino stesso abbia insegnato le rune alle altre razze, assumendone di volta in volta le sembianza.
La cavalcata guidata da Odino è caratterizzata da questo attributo della furia sacra, mistica, che si esprime nel frastuono che ne accompagna il passaggio -sostituito, a volte, da un profondo silenzio, in ambo i casi per esprimere una sostanziale alterità del fenomeno rispetto all'esperienza comune- e che ci rinvia all'ambito sciamanico.
La parola sciamano, che deriva dal tunguso šamān, dalla radice ša, "conoscere", indica una particolare concezione magico-religiosa propria delle regioni siberiane e dell'Asia centrale, anche se elementi affini si possono individuare in culti estatici di altre parti del mondo. L'idea dello sciamanesimo è la possibilità di poter entrare in contatto con gli spiriti, e di far sì che l'anima dello sciamano abbandoni temporaneamente il proprio corpo per viaggiare in altre dimensioni spirituali, in varie forme. Si riteneva che le persone che sarebbero divenute sciamani, durante la giovinezza, vivessero un percorso durante il quale gli spiriti smembravano le loro anime all'interno di un calderone, per poi riforgiarle in una nuova foggia, proprio come nel mito di Dioniso.
Dalla stessa area dello sciamanesimo proviene un antico e potente dio, già citato brevemente, poiché poco veniva detto sul suo conto nel materiale di cui disponevo lo scorso inverno, ma che adesso potremo conoscere meglio.
Ärlik Qan, tale il suo nome presso i Turchi nord-siberiani, Erlik per gli Altaici, Yerlïq per gli Uiguri gialli, è il progenitore dell'umanità, il padre invocato e venerato dagli sciamani, ed è anche il signore del mondo dei morti. Al suo cospetto lo sciamano recita:

Illustrazione di Ärlik di Nuray.
"Ärlik che cavalchi un argamak nero,
che hai un giaciglio di nere pelli di castoro,
che nessuna cintura può costringere le tue anche;
che nessun umano può serrare il tuo collo onnipotente;
le cui sopracciglia sono lunghe un quarto d'auna.
Tu che hai neri baffi e barba nera,
che macchie di sangue ha il tuo viso tremendo.
O ricco Ärlik Qan, che hai cavalli lucenti,
O potente Ärlik Qan, che hai cavalli lucenti,
che sprizzi scintille dai capelli,
che hai una coppa di cranio umano,
che hai un secchio fatto di un torace umano,
che hai una spada di ferro verde,
che di ferro sono le tue spalline,
il cui viso nero manda scintille
ed i cui capelli fluiscono in onde,
che hai sette troni davanti alle tue porte,
che hai un focolare in terra,
la cui scala è simile al castello della yurt
la cui copertura è di ghisa."
(Fonte: https://bifrost.it/ALTAICI/1.Altai/07-Inferi.html)

Per ottenere il suo favore occorre sacrificargli dei cavalli, e il percorso per giungere al suo cospetto prevede che lo sciamano passi attraverso numerose prove in luoghi spaventosi.
Abbiamo già visto come sia da Ärlik che si giunge al nostro Arlecchino, passando attraverso il nome di origine germanica Erlekönig, "re degli elfi", e il nome di Hel, l'inferno e la sua dea, che guida a sua volta la sua schiera di anime inquiete, costituita soprattutto da donne morte di parto, neonati e vecchi che non hanno trovato una fine eroica. Arlecchino, sappiamo, è il re dell'inferno. E questa informazione sembrerebbe causare confusione, nella nostra comprensione delle gerarchie infernali, poiché sappiamo bene che il re dell'inferno ha un altro nome.
Ma ecco, il nome del pianeta Venere presso i turchi è erlik, che significa "virile" e che fa riferimento a un cacciatore celeste che ogni mattina mette in fuga le tenebre e ogni notte mette in fuga la luce. La Stella del Mattino, che è anche Espero, Stella della Sera. Il moto del divino attraverso il cielo si lega qui al passaggio tra giorno e notte, accanto a quello tra l'estate e l'inverno.

Il motivo per cui tutti questi personaggi sono legati tra loro è la caccia, e ora vedremo come.
La caccia, per un lungo periodo di tempo, precedente alla scoperta dell'agricoltura, è stata la principale fonte di sostentamento per l'uomo, e anche dopo, in luoghi dove non fosse possibile nessun genere di coltivazione, è rimasta l'unica. I segni delle stagioni, ancor prima di avere un significato per la crescita delle piante o la fruttificazione, l'hanno avuto per la comprensione delle migrazioni, delle abitudini degli animali. E tra tutti gli animali, i cervidi sono quelli con maggiore rilevanza sia in quanto prede che in quanto aiuto per i cacciatori. Popolazioni della Lapponia e di altri luoghi rigidi hanno basato la propria sopravvivenza sulle renne, vivendo grazie alla loro carne e al loro latte: la loro presenza significava vita, i loro percorsi erano i percorsi della salvezza. Era così che le renne venivano divinizzate. Pure, poiché le corna dei cervidi si rinnovano di anno in anno, essi davano cognizione del ciclo delle stagioni; per questo sono tra gli animali più frequentemente intesi, insieme ai serpenti, come simbolo di rinascita. I cervi sono l'attributo più ricorrente degli sciamani.
I cervi sono sempre raffigurati insieme ad Artemide-Diana, e anche Ecate ne è signora, come abbiamo ricordato. Il mito di Atteone, il cacciatore che vede Diana nuda durante un bagno e che viene per questo punito, trasformandosi in cervo e venendo sbranato dai suoi stessi cani da caccia, appare adesso ricchissimo di valenze in più, poiché sembra afferire a quello stesso linguaggio sciamanico appena visto, per il quale la trasformazione di Atteone e la sua morte significavano forse un'esperienza estatica che portava ad uno stato più alto.
I nordici chiamavano una costellazione a forma di cervo col nome di Dain, l'elfo che abbiamo visto in precedenza, vicino al quale stava Dvalin, a sua volta in forma di cervo. Entrambi esseri dormienti.


Bibliografia

Chiavarelli, Emanuela, "Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti - Dallo sciamanismo alla 'caccia selvaggia'", Bulzoni Editore, Roma 2007.
Meisen, Karl, "La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia", Edizioni dell'Orso, Alessandria 2001.

giovedì 30 novembre 2017

Preghiera della notte #5 - La paura

Le preghiere della notte si legano alle origini dell'Anima del Mostro. È una storia che ho già raccontato, ma è passato del tempo.
Quando stavo pensando al nome da dare al sito, cercavo qualcosa che suggerisse diverse sensazioni in una maniera che trovassi adatta a me e ai miei argomenti, e tra le tante venne fuori questo nome, "Preghiera della notte". Suggeriva argomenti cupi, maestosi e intimi, e anche l'intimità, l'immedesimazione in quei discorsi, la pregnanza e l'importanza che avrebbero avuto. Inoltre suggeriva l'idea di una ripetizione, un appuntamento immancabile -che poi in realtà non lo è stato, ma diciamo che ci ho provato-: ogni sera del giorno che avrei scelto per le pubblicazioni, sarebbe arrivato un nuovo post, un appuntamento fisso, come una preghiera.
Il nome però non bastava, trasmetteva solo parte delle cose che volevo comunicare, e l'ho scartato, senza però abbandonarlo, perché mi piaceva e pensavo di usarlo comunque: dopo qualche tempo ho avuto l'idea di usarlo per i post di introspezione, probabilmente lo stesso giorno che ne ho scritto uno, la prima Preghiera della notte. L'ho usato altre due volte per parlare di questioni attuali -cosa che generalmente non mi attira e che poi non ho più fatto-, e poi una quarta, per un post lirico di cui sono ancora soddisfatto, nel settembre dell'anno scorso, poco prima che il blog prendesse la svolta "saggistica". Non ho più sentito il bisogno di scrivere post come quelli, che anzi talvolta pensavo come post per tappare buchi e avere qualcosa di pronto, da scrivere velocemente per mantenere la regolarità (funzione che col tono successivo, un po' più serio, avrebbe guastato), e non escludevo la possibilità di archiviarle come cosa del passato.
La settimana scorsa, invece, ho avuto un'idea nuova, l'idea di mettere insieme degli elementi in maniera così libera da spingermi anche oltre quanto fatto finora con i post seri. Non dirò altro, il resto lo vedrete leggendo.
Ecco com'è che ci troviamo qui insieme, a pregare nuovamente la notte, per contemplare una delle sue congiunte, la paura.


La prima motivazione per cui ho voluto scrivere questa preghiera è quella di raccontarvi un mio incubo. Ci ripenso ogni tanto, da un po' di tempo anche più spesso, e mentre scrivevo il post sulla bocca dell'Inferno ho realizzato che era arrivato il momento di parlarne.
Quest'incubo l'ho sognato quando avevo tredici anni.

Ero andato al cinema in cui vado di solito, per vedere un film dell'orrore, Boogeyman. Stavo all'ingresso davanti alla biglietteria, in mezzo a tante altre persone. Non so se poi mi sia spostato altrove o se quanto sto per raccontare sia successo mentre stavo in mezzo a quelle persone e semplicemente sia capitato solo a me, ma mentre tutto sembrava normale, di colpo, la terra sotto di me si è spalancata e mi ha fatto precipitare. Nella caduta, lunga, molto lunga, non vedevo altro che nero intorno e sopra di me, un nero fumoso, anzi sfumato, come se fossi in una litografia di Dorè, pareva di essere in un luogo di mare durante una tempesta in un'illustrazione romantica. Quello che vedevo di sotto, però, non era il mare.
Un teschio titanico, tale da riempire tutto il mio campo visivo, che tremolava come se fosse acqua agitata dalla corrente, si stagliava chiaro sul nero di ogni altra cosa, e aveva la bocca aperta per inghiottire tutto ciò che fosse caduto. Avrete presente che nei sogni capita spesso di conoscere i dettagli di ciò che sta accadendo, anche senza che nel sogno l'informazione ci sia pervenuta in alcun modo; in questo sogno, io sapevo che quel teschio era l'Inferno, che gli stavo finendo dentro, che lì avrei sofferto la dannazione per tutta l'eternità, senza mai fine, e che la causa di ciò era il fatto che avevo dimostrato interesse per le materie oscure, o per dirlo più banalmente, ma precisamente, perché mi piacevano gli horror. E il panico per quella sorte eterna, l'ingiustizia, l'impossibilità di fare nulla, la paura, il male che non sarebbe mai finito, furono un pensiero così soverchiante da farmi svegliare di soprassalto.

Il sogno era strano perché abbastanza sbagliato, anche se col senno di adesso farei meglio a dire "prematuro".
Film dell'orrore, all'epoca, non usavo vederne né ne avevo mai visti. Boogeyman lo conoscevo perché avevo visto il trailer del suo sequel quando ero andato al cinema a vedere "L'incredibile Hulk", e difatti mi aveva spaventato anche se mi ero coperto gli occhi tutto il tempo. Solo dopo diversi anni mi sono approcciato al genere, e Boogeyman l'ho visto nell'Halloween del 2012, per interesse verso la figura da cui il titolo, più che perché avessi in mente l'incubo.
L'unico contatto che potevo avere con il mondo dell'orrore, quando ho fatto quel sogno, erano le trame dei film che spulciavo di tanto in tanto su Wikipedia, e le rarissime ricerche su Google Immagini che finivano con l'impressionarmi e indurmi a ripulire la cronologia, neanche si trattasse di video porno.
Perché, dunque, avevo fatto quell'incubo? Un eccessivo avvicinamento al mondo dei mostri e dei fantasmi può portare alla dannazione? Varrà così anche con me?
Fate una preghierina per me, se pensate di sì, ma per quanto il pensiero di quel grande teschio con le fauci spalancate non mi attiri per nessuna ragione, non sarebbe abbastanza da indurmi a mollare il percorso che ho intrapreso in questi anni, perché è arrivato realmente a portare un briciolo di Paradiso alla mia vita mortale.
D'altra parte, i miei sentimenti per quel mondo potrebbero essere esagerati.

Da bambino avevo spesso gli incubi, né più né meno della maggior parte dei bambini. Molti si assomigliavano, o contenevano figure che si ripetevano in altri sogni, come i kaiju nei film Toho o i mostri Universal. Poi mi facevano paura le scene di diversi cartoni animati, di qualche film in live action, illustrazioni dei libri e varie altre cose. Potrei anche elencarvele tutte; non lo faccio per economia di spazio e di tempo, per bene dell'interesse vostro e della riservatezza mia, ma potrei, e potrei perché ricordo tutto abbastanza bene. In primis perché le cose che ci fanno paura ci restano molto più impresse di altre. In secundis perché le cose che hanno fatto paura a me -e quelle che ancora ci riescono, di tanto in tanto- sono cose alle quali sono estremamente legato e per le quali provo una forte gamma di sentimenti misti tra l'affetto, la gratitudine, l'appartenenza e un pochino di risentimento.
Un modo per raccogliere esempi senza fare elenchi troppo lunghi è quello di sistemare alcuni di questi incubi in categorie. Quella più ricorrente era che in casa, sia che fossi solo o, più spesso, che ci fossero numerose altre persone, entrasse un mostro e lo facesse dalla porta principale: significava che nessuno poteva trattenerlo, che lui aveva tutto il diritto di farlo, e anzi la versione che mi è rimasta più impressa è quella in cui a casa mia c'è un ricevimento e all'improvviso tutto si ferma, spariscono i colori e vedo le immagini in una specie di via di mezzo tra il bianco e nero e una scala di gialli, le persone in casa si nascondo e io faccio la stessa cosa, e l'alta, grossa presenza completamente nera entra, si aggira pesante nel corridoio e naturalmente non punta se non a me, riuscendo anche a trovarmi.
Pensare che nella mia infanzia stessi sognando di vivere la vicenda dei Danesi di Heorot, e che dalla porta stesse entrando Grendel, è un pensiero troppo emozionante per scartarlo. In effetti, il buon vecchio Grendel ha un'infinità di caratteristiche comuni all'Uomo Nero -perché era proprio lui quello che sognavo-, dato che si muove di notte, è alto e forte e porta con sé un sacco in cui ficcare le persone. Questo confronto spero di approfondirlo in un post apposito.

La cosa più interessante dell'Uomo Nero è che in qualche modo era lui, o sue versioni, a comparire più spesso nei miei incubi, quando in realtà a casa mia nessuno lo usava mai come spauracchio, e le ninnananne del tipo "Ninnananna ninnaoh/ questo bimbo a chi lo do/ glielo do all'Uomo Nero/se lo tiene un anno intero" erano sporadiche e non le ricordo se non più tardi dell'età in cui avevo già fatto molti di questi sogni.
Ecco perché lo considero una sorta di quintessenza della paura, una figura che la rappresenta perfettamente, e benché la forma in cui lo si intende più comunemente sia concepita esclusivamente come spauracchio per i bambini e si sia affermata in maniera più decisa nell'era moderna, e il suo nome tragga le proprie origini dal periodo della colonizzazione, rifacendosi a una sorta di paura per il diverso il cui oggetto concreto erano le persone di etnia non caucasica dell'America e dell'Africa, dunque una matrice di tipo razzista non ne sia del tutto estranea, il nucleo essenziale di ciò che l'Uomo Nero è appartiene a una dimensione collettiva dell'immaginario e dell'inconscio, che si manifesta fin dall'antichità con i vari orchi, giganti e demoni di numerose tradizioni, e che incarna qualcosa di molto più presente e minaccioso di un rapitore di bambini -che di per sé non è una barzelletta-, un nemico e un minaccioso predatore dell'umanità, nero in quanto fatto della stessa sostanza di cui è fatto il buio dove non abbiamo mai fatto altro che vedere mostri minacciosi.
Mostri che spesso hanno caratteristiche comuni, sono scuri o al contrario estremamente pallidi, hanno artigli e talvolta dita estremamente lunghe, occhi piccoli e luminosi oppure grandi e sporgenti e denti aguzzi. Ci sono diversi studi che indagano la possibilità che queste particolari paure, che provengono da una parte estremamente antica del nostro cervello, derivino da qualcosa che i nostri più remoti antenati hanno vissuto: che essi fossero braccati da predatori naturali con caratteristiche del genere, caratteristiche che fanno pensare ad esseri notturni o abituati al buio, magari abitatori delle caverne, oppure subacquei. O forse si trattava solo di orsi, dato che ancora nel XVII secolo i teschi dell'Ursus spelaeus, il tipico orso delle caverne, erano ritenuti appartenere a misteriosi mostri.
È una possibilità molto affascinante, benché molto discutibile, e sicuramente si presta alla tessitura di tante storie. Anche su questa mi piacerebbe ritornare.

Quale che fosse la creatura, entrava molto spesso dalla porta.
La porta di casa mia, vista al buio, in fondo a un corridoio ad angolo retto rispetto a quello che si affaccia sulle stanze tra le quali c'è la mia camera da letto, mi ha messo per lungo tempo una certa inquietudine, perché grande e alta, e perché lo spioncino al centro, che quando tutto è buio appare come un puntino bianco a causa della scala che è illuminata, sembrava un occhio sempre aperto a scrutare. Da una porta così grande immaginavo entrare cose altrettanto grandi, specie agli occhi di un bambino.
Altre volte, invece, la cosa da temere era piccola, simile a un nano. Uno dei cartoni animati che ho visto più intensivamente in tenera età è stato "L'apprendista stregone" di Walt Disney, e lo stregone Yen Sid, sguardo severo, grandi occhi, con il suo colorito che nella mia mente era divenuto un marrone non umano, mi metteva un'inconscia paura che si rifletteva in frequenti sogni e nella paura, da sveglio, che il suo volto arcano apparisse dietro le finestre del bagno, di notte, e soprattutto in una più grande che riguardava il mio soppalco (aye, sto descrivendo tutti gli ambienti di casa mia): questo ospita, tra le altre cose, un ripostiglio posto più in basso del soffitto, un ambiente piccolo dove non ci si può muovere senza chinarsi. La porta che dà su questo ambiente, conseguentemente, è piccola: e probabilmente è sempre per via della porta, che da bambino avevo paura che da quella stanza corresse improvvisamente fuori un nano, goblin o creatura affine, con la faccia di Yen Sid, e avevo sempre fretta di scendere le scale che portavano giù dal soppalco e chiudere bene il cancello che le separa dal resto della stanza.
La presenza di una porta, dunque, è da sola in grado di suggerirci intere situazioni. La paura di lasciare le porte aperte è molto diffusa e si può spiegare sia in maniera immediata, come derivante da un desiderio di controllo sull'ambiente in cui ci troviamo e dal disagio all'idea che uno straniero vi entri, sia in maniera più complessa, per la quale servirebbe il supporto della scienza che al momento non ho a mia disposizione.
Molto probabilmente è per questo sentimento verso le porte che sono potentemente attratto da questo quadro e mi fa pensare ai timori che avevo da piccolo.

Il simbolo che ho postato in apertura è Aegishjàlmr, che significa "elmo del terrore". Si tratta di una sorta di sigillo magico, che viene tracciato per due motivi, spaventare i nemici, per estensione anche le forze avverse di tipo spirituale, e per indurre sé stessi all'autocontrollo, a non abusare del proprio potere. Dubbio è il significato del simbolo, che mostra otto linne partire da un unico centro, attraversate da tre trattini e terminanti in una forma a tridente. Vi è chi pensa che sia data dall'unione di singole rune, e i segni al termine potrebbero corrispondere ad Algiz, che ha una funzione protettiva quando rivolta verso l'alto, mentre capovolta significa malizia. Trovate altro sull'Aegishjàlmr qui: http://mythologian.net/aegishjalmr-aegishjalmur-viking-helm-awe-symbol-meaning/
L'ho scoperto in questo periodo in seguito alla lettura della Saga dei Volsunghi, in quanto è menzionato da Fáfnir (peraltro anche nell'Edda poetica, semplicemente, quando ho letto questa, tra le tante cose che non sapevo e dovevo ricercare, non ho badato ad approfondirla), Fáfnir che, come saprete, è il drago ucciso da Sigurðr, e prima di ciò è stato un uomo dotato di facoltà sovrannaturali. Sembra sia per questo, piuttosto che per un aspetto connaturato nei draghi, che nella versione scandinava della storia Sigur­ðr acquisisce facoltà particolari dopo aver assaggiato il suo sangue.
Fáfnir dice:

«L'elmo del terrore portavo fra i figli dei viventi
mentre guardavo i miei gioielli.
Mi credevo, io solo, più forte di ogni altro:
non avevo ancora incontrato molti giovani!»

E a sua volta Sigurðr gli replica:

«L'elmo del terrore non dà riparo a nessuno
dovunque furiosi si venga a battaglia.
Perché questo troverà, chi sia fra molti,
che nessuno è, da solo, il più forte.»

E più avanti:

«Drago balenante hai emesso gran sibili
e mostrato coraggio.
Odio ancor più violento sorge fra il genere umano
dall'avere quell'elmo.»

Probabilmente Fáfnir aveva tracciato l'Aegishjàlmr sulla propria fronte, grazie alla sua conoscenza della magia, e da questo gli derivava una capacità preternaturale di provocare il panico in chiunque lo scorgesse. Questo si accorderebbe bene alle caratteristiche dell'eroe che lo uccide.
Due delle caratteristiche più importanti di Sigurðr sono il suo sguardo penetrante, in grado di intimidire chiunque lo incroci (come quello dei draghi, d'altra parte), e la mancanza di paura. Quando si reca a Hindarfjäll, dove giace assopita la valchiria Brunilde, Sigurðr riesce a svegliarla perché lei, prima di essere vinta dal sonno magico con cui Odino l'aveva castigata, aveva sancito che solo un uomo che non conoscesse la paura l'avrebbe risvegliata: l'eroe è senza paura per costituzione, è un aspetto di lui che deriva dalla sua natura.
È molto interessante, comunque, che il simbolo che ispira terrore abbia otto raggi, come le zampe dei ragni.
Se avete presente le custodie dei videogiochi, avrete notato che in basso a sinistra, o sul retro, si trovano alcune indicazioni, sigle del codice PEGI (Pan European Game Information), il sistema che classifica i contenuti dei giochi per salvaguardare i più piccoli. Oltre al numero che indica l'età minima consigliata ve n'è spesso un altro, che indica contenuti come violenza, volgarità, sesso e varie altre, tra cui il rischio che il gioco faccia paura. Quest'ultima categoria è indicata con l'immagine stilizzata di un ragno, e con la parola "terrore".

Una delle cose di cui ho avuto paura per più tempo è stata la canzone, con annessa videoclip, "Lullaby" dei The Cure, dall'album "Disintegration" del 1989.
La sentii allo stereo da ragazzino, quando ero quasi privo di interessi musicali, e non mi dispiaceva prestare un orecchio quando mio padre ascoltava gli album dei The Cure; la canzone era piena di sibili, aveva un ritmo ossessivo e minaccioso, per quanto al contempo bello e sensuale, e mentre procedeva, mio padre mi raccontava cosa accadeva. Poi me lo mostrò con il video.
Lullaby apre uno scorcio su un io narrante che sta nel suo letto al calare della notte, e che non riesce a dormire perché sa, che gli sia stato raccontato o per qualche altro motivo, che dalla sua finestra entrerà il mostro chiamato "Spiderman" (niente supereroi qui), con lunghe e sottili zampette e cattiveria umana, e lo mangerà. Lo descrive mentre entra e descrive la sua paura, e poco dopo riporta le parole del mostro che gli si rivolge con toni suadenti, dicendo "non agitarti, o ti amerò ancora di più", quasi fosse l'Alfkönig della ballata di Goethe. Tra parentesi, quando ho letto per la prima volta l'Alfkönig, alcuni mesi fa, un dito gelido mi ha sfiorato la schiena, perché il modo in cui il misterioso personaggio si rivolge al bambino condivide qualcosa della radice da cui deriva l'Uomo Nero.
Il video mostra il cantante, Robert Smith, nel suo letto, che si guarda intorno in una stanza che si fa sempre più fitta di ragnatele, tra le quali sbucano marionette -con le fattezze degli altri membri della band- che continuano a ripetere gli stessi movimenti meccanicamente, e in quella posizione è facile pensare che siano state vittime precedenti dell'Uomo Ragno. E quando la canzone finisce il verso "The Spiderman is having me for dinner tonight", il video inquadra sul soffitto un Robert Smith -sempre in pigiama- col volto truccato (un po' più del solito) e un mucchio di ragnatele tutte intorno, che guarda verso il basso e sibila verso il personaggio a letto.

"On candy stripe legs the Spiderman comes
Softly through the shadow of the evening sun
Stealing past the windows of the blissfully dead
Looking for the victim shivering in bed
Searching out fear in the gathering gloom and
Suddenly
A movement in the corner of the room
And there is nothing I can do
When I realize with fright
That the Spiderman is having me for dinner tonight!

Quietly he laughs and shaking his head
Creeps closer now
Closer to the foot of the bed
And softer than shadow and quicker than flies
His arms are all around me and his tongue in my eyes
"Be still be calm be quiet now my precious boy
Don't struggle like that or I will only love you more
For it's much too late to get away or turn on the light
The Spiderman is having you for dinner tonight"

And I feel like I'm being eaten
By a thousand million shivering furry holes
And I know that in the morning I will wake up
In the shivering cold
And the Spiderman is always hungry"

La mia traduzione:
"Su gambe di bastoncini canditi entra l'Uomo Ragno
Dolcemente, attraverso le ombre del sole serale
Introducendosi come un ladro dalle finestre di chi è morto serenamente
Cercando la sua vittima che rabbrividisce nel letto
Che tenta di dissipare la paura nell'oscurità che si addensa e
Improvvisamente
Un movimento nell'angolo della stanza
E non c'è niente che io possa fare
Quando realizzo, con atterrimento,
Che l'Uomo Ragno mi avrà per cena questa notte!

Ride silenziosamente e agitando la testa
Striscia più vicino adesso
Più vicino ai piedi del letto
E più lieve dell'ombra e più veloce delle mosche
Le sue braccia sono tutte attorno a me e la sua lingua nei miei occhi
"Sta' fermo, sta' calmo ora, mio prezioso ragazzo
Non agitarti in quel modo o non farò altro che amarti di più
Perché è davvero troppo tardi per scappare o accendere la luce
L'Uomo Ragno ti mangerà per cena stanotte"

E mi sento come se venissi mangiato
Da migliaia di milioni di tremolanti buchi pelosi
E so che al mattino mi sveglierò
Tremante di freddo
E che l'Uomo Ragno è sempre affamato"

Ora, neanche allora potevo spaventarmi di una persona con un po' di trucco, specie sapendo come funzionava tutta la messinscena. Ma capivo bene anche un'altra cosa, che quella scena rappresentava qualcos'altro che mi sarebbe altrimenti apparso in modo diverso, un mostro con un aspetto molto meno umano. Per trasporlo la scena doveva avvalersi di un codice che procedesse su entrambi i binari, portando sull'immagine alcuni elementi di ciò che essa rappresentava perché li si comprendesse, dunque le ragnatele e i sibili, ma soprattutto l'idea di un qualcuno sul soffitto di una stanza che guardi verso il letto di chi dorme in quella stanza con cattiveria, e che lo voglia mangiare.
E il pensiero non è dei più rassicuranti.
Abbastanza poco rassicurante da far sì che io abbia passato un po' di anni, di tanto in tanto, scrutando il soffitto della mia stanza prima di coricarmi.
L'idea di questa canzone, che deriva dalle paure di Robert Smith, tra cui l'aracnofobia, dai ricordi delle raccapriccianti ninne nanne che gli cantava il padre per farlo addormentare («ne tirava fuori sempre una. Avevano tutte un finale orribile. Erano cose del tipo "dormi adesso, bel bambino o non ti sveglierai mai più... "»), e da possibili spunti sulla tossicodipendenza, relazioni pericolose o ossessioni varie, è ottima perché fonde due dei più intensi, immediati e immortali significanti della paura, l'Uomo Nero e il Ragno.

Sapete come funziona, la paura?
Di base, la paura è un impulso con cui il nostro cervello, che ha scorto un possibile pericolo, ci predispone il più velocemente possibile ad agire in funzione di quel pericolo, o attaccandone la fonte per eliminarlo, o allontanandoci da essa. La parte del cervello che si occupa di queste funzioni si chiama "amigdala", poiché di forma simile a una mandorla, che in greco è appunto amygdala, ed è un gruppo di strutture interconnesse, che fanno parte del sistema limbico e sono responsabili di molte altre emozioni. Amigdala, poi, è una pietra, una concrezione minerale di elementi diversi che assume una forma tale da procurarsi quel nome.
Ora, questo nostro viaggio finirà parlando di Bloodborne, che è un gioco classificato dal sistema PEGI proprio con il simbolo del terrore. Nel mondo di Bloodborne, dove in un'ambientazione vittoriana vessata da una crisi che ha trasformato le persone in lupi mannari hanno luogo fenomeni di grande portata e di matrice lovecraftiana, sono visibili, a partire da un certo punto del gioco o dal momento in cui si hanno sufficienti punti intuizione (cioè si ha acquisito la facoltà di vedere oltre, una facoltà propria dei folli), delle grandi creature piene di arti attaccati agli edifici, con teste pelose e piene di strane sfere che solo in seguito comprenderemo essere occhi, e i tentacoli immancabili quando si parla di orrore cosmico. Inizialmente non sappiamo il loro nome, ma troviamo in compenso che siano notevolmente disturbanti, anche perché il gioco, saggiamente, non le mette come nemici, inseriti lì per essere sconfitti, ma come semplice presenza che ha un significato, che può talvolta costituire un ostacolo, e che procuratisi i giusti strumenti, tra cui una pietra a forma di mandorla molto simile al minerale amigdala, trasportano il protagonista nella dimensione dell'Incubo.
In uno di questi luoghi, se ne trova un esemplare con alcune differenze, che si affronta come boss, e il suo nome è pronunciato quando, nella sequenza in cui veniamo teletrasportati, udiamo una voce spietata dire "Oh, Amygdala, abbi pietà del povero bastardo". Queste creature si chiamano Amygdale, quella incontrata come boss è uno dei Grandi Esseri, concettualmente simili ai Grandi Antichi di Lovecraft, e la loro testa ha forma simile alla pietra, mentre il loro corpo, con sei arti superiori e due inferiori, ricorda quello di un ragno.
Di chi è la voce che si sente? Appartiene a Patches, un ricorrente personaggio della serie Dark Souls che compare anche qui, nelle sembianze di uno degli Apostoli dell'Incubo, esseri aracniformi tra cui lui, e alcuni altri, si distinguono per avere un volto umano. 
Anche Patches è un uomo ragno. Anche le Amygdale stanno appese in alto e guardano, si limitano a osservare. È l'essere osservati a fare paura, a mettere in allarme quel sistema mentale che ci segnala un pericolo, anche se in quel momento non riesce a capire quale sia.
In più, le Amygdale hanno una funzione che in Bloodborne ha anche un altro tipo di mostro, che rapisce il personaggio e lo conduce nel villaggio invisibile di Yahar'gul: i Rapitori, alti, magri, mani enormi, nascosti da un cappuccio, sacco sulle spalle, inquietanti. Uomini Neri. Quando ne trovo uno nel gioco provo una gran tensione.

Non intendevo spiegare qui cosa sia la paura, ma solo raccontare storie su di lei. Come procede adesso la storia? Con me che tutte quelle cose che ho elencato, e tante altre che non ho messo per non eccedere, cose che mi spaventavano a morte, adesso le adoro. Le cerco se le ho perse. Hanno un grande significato per me, per avermi accompagnato e definito. E alla fine, abbracciando la Notte, i suoi figli, Mostri, e i suoi colori, sono diventato quello da cui l'incubo mi aveva messo in guardia. Sinceramente, penso di essere diventato molto ma molto peggio di quello di cui parlava, e ancora neanche mi basta, perché so di poter scendere in tenebre sempre più profonde, non per illuminarle, ma perché le loro storie sono quelle in cui mi ritrovo di più, e non so se questo stato sia frutto di qualcosa che è successo dopo o si leghi a qualcosa che avevo fin dall'inizio, ma se la sto percorrendo è anche per una sorta di sfida, per lo più inconscia, al mio incubo, per rivendicare la mia libertà di azione e dimostrare, a chiunque nel mondo del mio sogno volesse sancire che chi intraprende la via delle tenebre sia dannato all'inferno, che quella via ha la nobiltà, la bellezza e anche il bene di tante altre vie. Se quell'inferno fosse il posto da cui vengono i mostri, andarli a trovare sarebbe il minimo, dopo quanto hanno fatto per me, venendomi a trovare loro. E forse, il percorrere quella via, ricordando quell'incubo e pensando a quanto poco ne sappia davvero di tenebre, vie, inferni e giudizi, è una delle cose che riescono ancora a farmi paura.

giovedì 23 novembre 2017

Apologia di Lair e discorso su un ecosistema per i draghi


Dieci anni fa è uscito per PlayStation 3 un videogioco molto particolare.
Attesissimo per le possibilità che dava, concepito per dimostrare le capacità della console uscita da poco, rivelò seri problemi di giocabilità a causa del sistema idealmente interessante, ma praticamente scomodo, di cui si avvaleva, il SIXAXIS, basato sull'inclinazione del joypad per il controllo del gioco: i tasti e gli analogici avevano anch'essi una funzione, ma il movimento e la scelta delle direzioni avvenivano tutte attraverso questo sistema. Il contenuto scaricabile gratuito, rilasciato per dare la possibilità di svolgere le azioni con i controlli analogici e senza il SIXAXIS, uscì troppo tardi: il gioco aveva ormai deluso la maggior parte dei giocatori. Le recensioni lo liquidarono con voti di sufficienza, lodando sì quello che c'era da lodare, come l'originalità, la grafica, la colonna sonora (una delle più acclamate nella storia dei videogiochi), interessanti elementi di design, ma concludendo che il gioco era in parte un fallimento, se non del tutto da dimenticare.
Ecco perché quest'anno nessuno ricorderà il suo anniversario, ed ecco perché l'Anima, come una valchiria o un angelo pietoso, scende quest'oggi sul campo di battaglia dove i suoi resti giacciono insepolti e obliati, per condurlo nel luogo di beatitudine e gloria che gli spetta. E ora vi spiego perché.
Prima di cominciare, vorrei raccontarvi una lieve stranezza circa la gestazione di questo post: dopo aver controllato qualche tempo fa, mi ero convinto che la data di uscita del gioco fosse tra i primi di settembre, e quando il periodo è arrivato ho ricontrollato, scoprendo con sgomento e con rabbia che avevo sbagliato, e l'anniversario era il 31. Presa visione del fatto che quella era la data dell'uscita americana, e che l'anniversario europeo era più avanti, la cosa migliore mi è sembrata scrivere il post in occasione di quest'ultimo -anche perché a settembre il blog si era un po' impantanato. Mentre controllavo la data col post già scritto -nel mentre mi sono convinto che la data europea fosse a dicembre- ho scoperto, solo poco fa, che l'anniversario di Lair cade proprio oggi che è il 23 novembre. Sicuramente questo dimostra quanto grandemente faccia schifo nel ricordare i numeri, ma non credo nelle coincidenze e mi sembra invece che la mia amnesia estiva sia servita a far cadere il post in un giorno adeguato. E forse questo è un segno che il post riuscirà nel suo intento.

Il gioco, realizzato dal team Factor 5 e prodotto dalla stessa Sony, si chiama Lair, "tana". È un titolo molto semplice e molto vago, una scelta minimalistica che mi è sempre piaciuta, poiché per il suo contenuto richiederebbe titoli altisonanti, e invece no, si limita a dire che parla di una cosa di sempre, una cosa di tutti, una cosa su cui vale sempre la pena raccontare storie: la lotta per possedere una tana, una casa in cui vivere.
Lair è un gioco sui draghi. Questo basta per dare un'idea di cosa ci sia da aspettarsi, e questo bastava in molti casi ad attirare il pubblico; certamente bastò a me. Io scoprii la sua esistenza dopo che era già uscito da tempo, grazie a un video su YouTube che si intitolava "Draghi dei Caraibi" e mostrava il trailer di Lair (postato qui sotto) con il celeberrimo tema musicale del film di Gore Verbinski; lo vidi e ci rimasi, dicendo "Mo' da dove saltano fuori questi draghi così ben realizzati?". Solo dopo molto sono risalito al gioco e al suo nome, che ancora oggi non posso ricercare senza imbattermi, prima, in migliaia di contenuti sul molto più celebre "Dragon's Lair", legato alla mia infanzia (esiste anche una serie televisiva intitolata "The Lair", che parla di vampiri gay, quindi forse sarebbe stato meglio se questo gioco avesse avuto un titolo meno vago).
La PlayStation 3 non l'ho avuta prima dell'estate 2010, e così per parecchio tempo ho desiderato Lair, vedendo quello che potevo vederne in video e immaginando di poter vivere la sua entusiasmante esperienza.
Che ancora non vi ho detto quale sia. Il gioco inizia con queste parole:

"Nessuno sa per quanto tempo gli Antichi avessero vissuto prima dello Scisma. La storia parla di un popolo in armonia, un popolo unito da un'unica fede.

Ma quando i vulcani si risvegliarono, fiumi di lava arsero la terra e nere nubi oscurarono il cielo, invaso da acri polveri. Furie incontenibili della natura, i vulcani segnarono l'umanità con una ferita ancora più profonda: la paura. Mentre la scienza era incapace di spiegare ciò che avveniva, presero piede diverse scuole di pensiero e alcuni cominciarono a vedere nella furia dei vulcani una punizione divina.

Una fazione, i Mokai, si insediò a nord, tra il fuoco dei vulcani e il gelo dei ghiacciai; la gente di Asylia, invece, scelse di vivere a sud, protetta tra le montagne. Qui, al sicuro dalla furia dei vulcani, il popolo di Asylia divenne l'ultimo baluardo di cultura e ricerca in un mondo ormai avvolto dalle tenebre.


Fonte di grande invidia, Asylia affidò la propria protezione al coraggio delle sue Guardie celesti, poiché in un mondo consumato da continue faide, vi era tuttavia un punto sul quale tutti erano concordi: dominare il cielo significava dominare tutto."

In Lair si impersona un soldato membro di un ordine chiamato "Guardie Celesti" (Sky Guards), i cui appartenenti sono detti anche "Sterminatori" (Burners), la cui funzione nelle battaglie è quella di cavalcare draghi. Al di fuori di pochi istanti all'inizio di qualche livello, il tempo per salire in sella al drago, e di alcune azioni aeree in cui il cavaliere salta giù dalla sella, quello che si controlla di Lair è di fatto il drago, con cui si può volare liberamente nell'area del livello -non già in una mappa in free roaming, ma allora non c'era tutta questa ossessione per il free roaming dei videogiocatori moderni- soffiare lunghi getti di fuoco o condensarlo in sfere esplosive, urtare altri draghi in cielo, ingaggiare scontri aerei dove artigliare, mordere e bruciare un altro drago, afferrare soldati da terra per scagliarli via attraverso ripidissime scogliere, e scendere a terra per seminare il caos tra le fila, con zampate che proiettano in cielo decine di uomini, soffi di fiamma e la possibilità di azzannare e ingoiare i nemici per riprendere un po' di energia. Quest'ultima cosa è possibile solo in due o tre livelli, cosa che mi dà dispiacere, poiché questo approccio diretto del mostro con gli uomini e della dimensione di terrore che si instaura tra la vittima e una bestia grossa come un camion, è una cosa che mi provoca quasi lo stesso piacere del rapido volo sul mare.
Badate bene che non è mia prassi includere i draghi nel concetto di "bestie", come linea generale. Non sono bestie Smaug, Draco di Dragonheart, i draghi di Skyrim, di Dungeons & Dragons o di Warcraft, né quelli di qualunque altra ambientazione in cui i draghi abbiano qualità divine e possiedano ragione ed eloquio. Nel caso di Lair, come in Harry Potter o in Dragon Age, c'è poco su cui girare intorno: i draghi sono semplicemente degli animali, e il fascino che hanno deriva esclusivamente dal loro aspetto, dalla loro forza e dalle loro capacità, che non sono comunque da poco.

Sfondo di queste battaglie aeree è un mondo con una storia abbastanza semplice: i suoi abitanti, dopo aver vissuto insieme armoniosamente per tanto tempo, sono stati divisi a causa dell'inasprirsi delle condizioni naturali della loro terra, provocate da un'intensa attività vulcanica. L'umanità si è distinta in due popolazioni, quella degli Asyliani (Asylians), che si è rifugiata nella parte meridionale del continente, fondando una civiltà avanzata, e quella dei Mokai, che vivono nel nord, il luogo più duro e inospitale, sopravvivendo grazie a una tecnologia basata sull'energia a vapore. Entrambi i popoli, che un tempo adoravano numerosi dèi, professano una simile religione monoteista rivolgendosi a Dio, ma la società degli asyliani è un sistema teocratico che ruota intorno al Divinatore, la massima carica religiosa, e a un consiglio di tre Anziani; inutile dire che, nel corso della trama, il Divinatore faccia in modo di aumentare il suo peso politico a danno di detto consiglio. Lo stesso, inoltre, ritiene che le macchine a vapore utilizzate dai Mokai siano un atto di ribellione a Dio, adducendo motivazioni religiose alla guerra.
Si può dire che di base si tratti di una storia molto simile alla nostra "Aida degli alberi", ad "Avatar", ma che possiamo benissimo mettere a confronto con l'opposizione tra Romani e Galli, o più tardi Romani e Germanici, con da una parte un popolo avanzato e in situazione di benessere maggiore, e dall'altra un popolo che si avvale del suo rapporto con le forze naturali, con una cultura diversa che i capi della prima ritengono inferiore, etichettando questo popolo come selvaggio.

La narrazione, dopo alcuni livelli che mostrano alcune delle tipiche operazioni militari di questa guerra, ha inizio quando le due fazioni sono sul punto di concludere una tregua: in una tenda in mezzo alle due armate, separate dal Ponte degli Antichi, che conduce ad Asylia, il generale capo delle forze Mokai, Atta-Kai, insieme al figlio Koba-Kai, incontra il capitano delle Guardie Celesti, Talan, scortato dagli Sterminatori Rohn, protagonista del gioco, e Loden. Quest'ultimo è un agente agli ordini del Divinatore, che ha segretamente ordito un piano per mantenere il potere su Asylia e che desidera il proseguimento delle ostilità. Così Loden uccide Atta-Kai e Talan, lasciando fuggire Koba-Kai che informa il suo esercito del tradimento asyliano, e fuggendo a sua volta prima che Rohn possa intervenire. Una volta vinta la battaglia con l'esercito Mokai, Rohn, che ha liberato il drago di Atta-Kai mentre Loden cercava di ammaestrarlo, viene inviato da quest'ultimo, che, morto Talan, è divenuto il nuovo capitano delle Guardie Celesti, a condurre un'operazione segreta contro i Mokai. Questo permette un successivo attacco definitivo alla loro città, una metropoli tecnologica in mezzo ai ghiacci che stupisce Rohn, da sempre convinto che i Mokai vivessero nelle caverne. L'attacco è un bombardamento, con le mante che rilasciano cascate di esplosivi sulla città mentre i draghi la incendiano volando in mezzo agli edifici, un autentico massacro: e durante questo massacro, Loden ordina a Rohn di distruggere un imponente edificio che afferma essere un'armeria, ma si rivela essere un tempio, al cui interno si erano rifugiati centinaia di innocenti in fuga, ridotti in cenere da un inconsapevole Rohn che, una volta appresa la gravità delle sue azioni, si ribella e decide di non combattere mai più dalla parte degli Asyliani.

Accusato di ribellione da Loden, Rohn viene ferito insieme al suo drago, che lo porta via con sé nonostante il dolore, ma muore stremato dalla fatica in pieno deserto -inutile dire che questa scena sia ai miei occhi estremamente triste. Il suo cavaliere rimane così da solo, ma viene salvato dal drago di Atta-Kai, che gli è grato per la libertà ricevuta e che lo porta con sé fino a un accampamento Mokai. Dopo aver protetto le persone dell'accampamento da un attacco degli Sterminatori asyliani, Rohn decide di aiutare i Mokai nella guerra, per debellare la tirannia del Divinatore, che nel frattempo ha fatto uccidere i Guardiani e si è imposto come unico capo di Asylia, e vendicarsi di Loden. I livelli successivi seguono così la sua rinascita come cavaliere a dorso di un nuovo drago, in lotta contro quelli che un tempo erano stati suoi compagni; grazie alla collaborazione tra lui e Koba-Kai, per quanto dura a nascere, e alla sua conoscenza di Asylia, la forza Mokai, che sembrava prossima alla caduta, riesce a risollevarsi e a cambiare le sorti della guerra. La resa dei conti tra Rohn e Loden, in sella a un grosso drago mostruoso, avviene sul Mäelstrom, un gigantesco vortice in mezzo all'oceano dove sono stati imprigionati gli Sterminatori ostili al Divinatore, un luogo tragico e sublime che vede, al termine di uno dei livelli più emozionanti, la fine della lotta tra i due uomini, svolta in sella ai loro draghi nel cuore del Mäelstrom, dal quale emergerà solo Rohn.
L'ultima battaglia ha invece come scenografia il vulcano, la prima causa di tutte le prove subite dai due popoli in guerra, e come antagonista il Divinatore, causa minore, umana, ma di maggiore malvagità. Sarà solo dopo la sua morte che i due popoli si riuniranno, guidati dai loro capi verso un'era più giusta.

Non è tanto ciò che accade, a rendere interessante il mondo di Lair, quanto l'aspetto che ha il mondo stesso, poiché non si tratta del solito Medioevo europeo, bensì di una sorta di epoca preistorica, dall'aspetto a tratti apocalittico vista la minaccia dei vulcani e l'atmosfera da "fine del mondo", dove i draghi sono solo alcune (esistono diversi tipi di drago) delle tante specie animali che abitano la terra.
Per competere in guerra con gli Asyliani, i Mokai schierano infatti i Taurus (chiamati "minotauri" nel doppiaggio italiano), grossi bovini leggermente più piccoli dei draghi, e i Rinoceronti lanosi, che sono ancora più grandi; dal canto loro, gli Asyliani fanno viaggiare le loro risorse attraverso giganteschi animali, o via aria, grazie a immense creature volanti chiamate Mante, simili appunto a mante con lunghi musi pieni di denti e senza occhi, o via terra, su dei bestioni vagamente simili al Paraceratherium, il più grande mammifero mai esistito, peraltro svariate volte più grandi, senza la sua distintiva proboscide e con la pelle a squame, come un dinosauro.


Si tratta dunque di un mondo dove la natura è ancora potente, e dove i grandi animali sono ancora diffusi. I grandi predatori, poi, sono completamente indomabili: in un livello, forse il mio preferito, si riceve l'attacco di quello che viene chiamato "Coral Snake" (Serpente Corallino), un serpente marino la cui sola testa ha, rispetto al drago, le stesse dimensioni che ha quest'ultimo rispetto a un uomo. È in grado di azzannare quelle enormi mante e trascinarle in acqua per divorarle, e quando viene danneggiato le sue squame rilasciano in aria una specie di sostanza oleosa che danneggia i draghi. In un altro livello bisogna invece affrontare lo Spiderwasp (ragno vespa), che nel doppiaggio italiano è diventato "aracnodittero", un insetto grosso sì e no quanto la testa del serpente marino che attacca violentemente con le sue grosse tenaglie e rilascia sciami di sua progenie.

In un mondo così ben realizzato, anche i draghi sono perfettamente integrati con gli altri animali nel suggerire un ecosistema preistorico verosimile.
Di draghi esistono diverse specie, di forma e dimensioni variabili. Mentre nei mondi fantasy i draghi sono giganteschi e sono spesso la forma di vita più grande del loro mondo, o una delle più grandi, in Lair sono visti a confronto con diverse altre specie, e molte di queste sono più grandi di loro. Questo è un aspetto che mi è sempre piaciuto: tra le mie prime letture ci sono molti libri sui dinosauri e parecchi sugli animali in generale, e da questi ho imparato a fare attenzione al funzionamento degli ecosistemi, nei quali, spesso anche se non sempre, i predatori sono più piccoli degli erbivori che cacciano, in modo tale che una preda possa nutrirli a lungo e in modo che le prede spesso siano protette dalle proprie dimensioni. Pensate alla savana, con leoni e leopardi a caccia di gazzelle e di gnu -ma talvolta anche di gazzelle e animali più piccoli, certo- e pensate anche a grandi elefanti che avanzano indisturbati. Pensate a uno scenario giurassico, con gli Allosauri alle prese con sauropodi dal collo lungo molto più grandi di loro, o se preferite a un paesaggio del Cretaceo, con dromaeosauridi (cioè "raptor") che cacciano in branco per abbattere degli Adrosauridi, erbivori dal becco d'anatra in grado di sfamare una decina di loro. Lair suggerisce, per quanto non sia quello il punto, un paesaggio del genere, con draghi che cacciano minotauri o si aggregano per abbattere i rinoceronti, e che cadono facilmente preda di un serpente corallino, come pterosauri divorati da un grosso mosasauro.
Dei draghi esistono probabilmente altre specie al di fuori di quelle viste nel gioco, ma queste ultime vengono tutte impiegate in guerra dagli Asyliani e dai Mokai.
Dalla parte dei primi vediamo, per la prima parte del gioco, i draghi delle pianure (Plains Dragons) e i draghi del fuoco (Flame Dragons), impiegati anche dai Mokai. I più frequenti sono i draghi delle pianure, come quello che cavalca Rohn, e sono certamente i più rappresentativi del gioco.

I draghi delle pianure rivelano l'ispirazione tratta dagli animali preistorici al fine di rendere realistici gli animali del gioco, con le loro mascelle simili a quelle di un Tyrannosaurus, seguite da lunghe corna che rendono impossibile scambiare il loro cranio per quello di qualsiasi altra creatura; il loro corpo ricorda anch'esso quello di alcuni dinosauri, come l'Iguanodon, posto orizzontalmente rispetto al terreno e retto dalle zampe posteriori, mentre quelle anteriori, che i draghi utilizzano bene come armi d'offesa, sono abbastanza lunghe da poggiare a terra all'occorrenza. Le loro ali, poi, sono composte da un patagio (cioè una membrana) tesa tra gli arti che hanno sulle spalle e la coda, piuttosto che solo tra arto e fianco come nella maggior parte dei draghi moderni. La coda corta e il potente sistema muscolare favoriscono tutti il volo, per quanto il loro aspetto sia di animali decisamente troppo pesanti; ma la sospensione dell'incredulità serve apposta.
I  draghi del fuoco sono poco esplorati, anche perché sono solo comparse nella prima metà del gioco e diventano occasionali nemici nella seconda; sono di colore fulvo più acceso del color terra dei draghi delle pianure, hanno dimensioni simili e possiedono caratteristiche corna da ariete. Queste sono anche le uniche specie di drago a soffiare fuoco "rosso".

I Mokai combattono con fondamentalmente tre tipi di drago: i draghi del fuoco, i draghi del gelo (Frost Dragons) e i draghi oscuri (Dark Dragons), i cui nomi evocano gli ambienti dove questo popolo dimora.
I draghi del gelo sono i più piccoli draghi esistenti (un po' come i draghi bianchi in Dungeons & Dragons), pensati per costituire il tipo di nemico debole ma numeroso, che insieme al tipo grosso e forte (cioè i draghi oscuri) crea un senso di varietà nel combattimento. I draghi del gelo sono grigio-azzurri, con la parte inferiore del corpo più chiara, hanno un muso corto e tozzo terminante in una sorta di gobba sulla mascella superiore. Volano in gruppo, ed è sufficiente una singola palla di fuoco 'caricata', cioè non sputata in serie con altre palle di fuoco, per abbatterne uno, e se il drago si avventa su di loro in modalità furia non si ingaggia nessuno scontro, ma cadono feriti a morte. Non sputano fuoco, ma un soffio che forse sarebbe gelo, ma concretamente ha gli stessi effetti del fuoco e si distingue solo perché è blu. Lo stesso soffio hanno tutti gli altri draghi che vedremo da ora in poi.
I draghi oscuri sono i più caratteristici di Lair dopo quelli delle pianure, in quanto compaiono già nei primi trailer e nelle illustrazioni ufficiali del gioco, che li mostrano volare contro quello del protagonista, incarnando dunque l'idea di principali draghi dei Mokai. Color crema, grigi sul dorso, sono leggermente più grandi dei draghi delle pianure, e soprattutto più grossi e pesanti, caratterizzati dal collo largo e ricoperto da una serie di piastre naturali sovrapposte, che proseguono fino al muso terminando in una punta che li rende immediatamente riconoscibili. Il muso è di media lunghezza e gli occhi sono piccoli.
Unico in entrambi gli eserciti, almeno per quello che vediamo, è il drago di Atta-Kai, che sceglie Rohn come suo cavaliere dopo la morte del primo. Si tratta di un drago sanguinario (Blood Dragon), appartenente a una razza feroce e molto riverita, che prende il suo nome dalle macchie rosso sangue che ha sulla testa, e dagli screzi dello stesso colore sulle ali. Il drago sanguinario è uno dei draghi più grandi, ma è leggero, senza la robustezza dei draghi oscuri, e pensato per essere veloce senza rinunciare a un po' di forza in più. Il suo corpo, la cui livrea fatta di varie gradazioni di grigio ricorda quelle di molte ricostruzioni dei dinosauri, è scattante e ricorda quello di un levriero, mentre le ali hanno una membrana abbastanza stretta, e ai lati del primo tratto di coda si trovano disposti spuntoni laterali, come quelli sui fianchi di Ankylosauridi come Polacanthus. La testa ha una forma molto caratteristica: mascella superiore stretta e mandibola larga, ha due grosse zanne alla fine di entrambe, e sulla parte centrale del muso una cresta a forma di falce, piegata verso l'indietro, che sembra avere un aspetto aerodinamico e che probabilmente cambia colore nel periodo degli accoppiamenti (no, questa è pura speculazione fine a sé stessa, mi sto prendendo in giro da solo e sono abituato a congetture del genere proprio per via di tutti quei documentari sui dinosauri).

Negli ultimi livelli di gioco troviamo, dalla parte degli Asyliani, altre due specie, i draghi del vento (Wind Dragons) e i draghi della tempesta (Storm Dragons).
I draghi del vento sono il corrispettivo asyliano dei draghi di ghiaccio, piccoli e poco resistenti, ma sono la specie più veloce tra quelle presenti nel gioco. La loro caratteristica più evidente è il collo lungo e ricoperto da una corazza naturale, seguito dalla coda corta, dalle spine ai lati del cranio e dalle zampe anteriori piccole, simili a quelle di un dinosauro teropode.
I draghi della tempesta sono lo zoccolo duro dell'armata asyliana, animali così feroci e selvaggi che al vederli per la prima volta i Mokai si domandano come i nemici siano riusciti a domarli, cosa che significa che è la prima volta che vengono impiegati in guerra. Sono ancora più grossi dei draghi oscuri, ma mentre questi sono interamente costituiti da fasci di muscoli, i draghi della tempesta hanno un largo e flaccido ventre, e probabilmente è per compensare quel peso che la loro apertura alare è ancora più ampia di quella degli altri draghi. I loro arti anteriori sono grossi e più lunghi dei posteriori, mentre la loro testa accresce l'impressione di disprezzo e volgarità suscitata dalle altre caratteristiche, con muso corto, mandibola più grande e ampia della mascella, piccoli occhi, nessuna cresta o corno.
Nel livello "Mäelstrom", Loden appare cavalcando un esemplare ancora più grosso degli altri, di un verde acceso.

I contenuti scaricabili di Lair, usciti qualche tempo dopo il gioco, hanno aggiunto la possibilità di un controllo analogico sul volo dei draghi, in modo da facilitarne il controllo, e due draghi giocabili, che si sono aggiunti nelle scuderie dove è possibile, all'inizio di ogni livello, scegliere il drago da cavalcare; scuderie che dalle dimensioni lasciano intendere di essere state pensate per inserire diversi draghi, che prima dell'uscita di questi contenuti davano accesso solo al Plains Dragon e al Blood Dragon, e che hanno acquisito un senso grazie ai nuovi draghi. Uno è il Wind Dragon, di cui abbiamo già parlato, e l'altro, assente nel gioco, è il Poison Dragon.
Il drago venefico è il drago più grande del gioco, nonché quello fornito di attacchi più potenti, a scapito della velocità, in merito alla quale è il più lento; un'alternativa complementare al drago del vento. Il drago venefico è verde con le membrane alari porpora, ha ali gigantesche i cui bordi sono costellati di punte che gli danno una connotazione aggressiva e un po' esotica, accresciuta dal colore e dalla testa, più simile a quella di una lucertola o un'iguana che a quella draconica del Plains Dragon, anche per via dei barbigli ai lati del cranio. Ai lati della coda vi sono altre membrane frastagliate.
Il drago venefico è l'invenzione mostruosa che mi piace di più all'interno del gioco: posto un soggetto di base, un modello, descrivibile come "drago quadrupede con le ali, reso realistico attraverso la presenza di caratteristiche di animali realmente esistenti o esistiti e la differenziazione in varie specie", il venefico è la variazione del modello che riesce più originale e con più personalità, oltre ad avere il fascino da "non ti raggiungo, ma se ti raggiungo...".


Alla base di tutta questa mia attenzione per il bestiario di gioco non c'è solo l'apprezzamento per il design e per la quantità di draghi e animali vari, che è tanto, ma un enorme interesse per l'idea a monte, creare un'ambientazione caratteristica e credibile -che a conti fatti trovo anche molto ma molto originale- che riesca, tra le tante cose, a inserire i draghi in un sistema che permetta situazioni drammatiche, nelle quali essi non siano la forza più grande presente in gioco.
Raccontare una storia incentrata sui draghi, dove quel potere è protagonista, significa correre il rischio che, per quel potere, non si riesca a creare tensione perché esso è in grado di distruggere qualunque cosa. L'esistenza di varie specie di drago riesce in parte a limitare il problema, ma soltanto in parte, perché lo scarto di potenza tra queste specie è tutto sommato esiguo.
È invece grazie all'esistenza del serpente corallino e del ragno vespa, predatori molto più grandi e formidabili dei draghi, che si avverte come anche questi corrano il rischio di essere predati, e dunque non siano nella totalità dei casi la specie dominante in natura. È certamente vero che i draghi cavalcati da Rohn riescono ad avere la meglio sui due animali, uccidendo l'aracnodittero e provocando la morte del serpente attirandolo sugli scogli, ma ciò è possibile per la presenza di un cavaliere, in grado di guidare le qualità fisiche delle sue cavalcature grazie alla propria intelligenza (anche perché è Rohn a finire l'aracnodittero, aprendogli un lungo taglio sul dorso dopo che il drago l'ha privato della corazza difensiva).
Il Mäelstrom e il Vulcano, infine, ricordano come in questo mondo siano i fenomeni naturali i veri tiranni che stabiliscono il destino, i predatori al di sopra di tutti gli altri, e come la sua sia una natura forte, distruttiva e maestosa, un mondo dove il sublime erutta fuoco dal ventre della terra e dal cielo.

Un altro problema, e questo me lo sono sempre posto, riguarda i draghi da un punto di vista biologico: in un'ambientazione realistica, come farebbero a nutrirsi contando solo su animali molto più piccoli di loro, e cosa li avrebbe portati ad evolversi in creature così grandi senza la presenza di rivali naturali che le loro dimensioni sarebbero servite a superare? Anche se queste questioni -che ho posto nella superficialità della mia cognizione dell'evoluzione e della zoologia- dovessero essere facilmente smontate da un parere scientifico, resta il fatto che draghi come quelli che ho riportato, in un mondo dove l'animale terrestre più grande fosse l'elefante, darebbero quanto meno un senso di alienità.
Ecco perché trovo così importante che insieme a loro siano mostrate diverse specie di animali di dimensioni vicine alle loro: grazie a queste Lair ci permette di farci un'idea di come vivano i draghi in natura, cacciando i Taurus -temibili in uno scontro corpo a corpo, ma facili da abbattere con il fuoco e ancora di più col vantaggio del volo-, guardandosi dai Rinoceronti, che però possono abbattere in gruppo e che in ogni caso un singolo drago, come mostra il gameplay, può uccidere tirando via la testa. I draghi possono facilmente avere ragione delle mante e dei giganteschi quadrupedi del deserto, che possono sfamare diversi esemplari anche per molto tempo, disfarsi dei piccoli sciami di insetti grazie al fuoco, ma devono guardarsi dagli aracnoditteri, dai serpenti corallini -che a loro volta si nutrono delle mante e delle ignote altre specie marine, che in un mondo come quello devono essere gigantesche- e magari anche da altre bestie giganti che vivono lontano dal mondo civilizzato di Asyliani e Mokai.
Sarebbe stato suggestivo ricorrere a specie realmente esistite, come dinosauri, mammut, mammiferi dell'era Cenozoica e grossi rettili marini, ma non sarebbe stato affascinante come la riuscita finale: animali frutto di fantasia, come i draghi, che affondano le loro origini in parte nella stessa tradizione leggendaria dei draghi (i Taurus ricordano i minotauri anche indipendentemente dal doppiaggio italiano, il serpente corallino è vicino ai serpenti marini lungamente descritti fin dall'antichità), in parte negli animali preistorici che fungono da base per la loro verisimiglianza, che riescono a fare da complemento ai grandi rettili volanti nel loro aspetto da creature che in parte sentiamo esserci sempre appartenute, e in parte ci sembrano provenire da un altro mondo.

A rendere interessante questo mondo si aggiungono poi i suoi paesaggi e le sue atmosfere. Il livello "Tempesta di fuoco" mostra per la prima volta le terre dove vivono i Mokai, e ci porta a percorrere in volo lunghe catene montuose ricoperte dalla neve, come in certe inquadrature del Signore degli Anelli, e trai i giganteschi grembi ai piedi delle montagne trovano posto edifici avanzati e avveniristici. Il successivo "Rinascita", con Rohn che vaga nel deserto alla ricerca di acqua, sposta l'azione in mezzo a canyon desolati, e dopo ancora "Rompere il ghiaccio", il livello in cui Rohn attacca la prigione asyliana per liberare Koba-Kai, è un assalto a un grande forte cinto da mura in mezzo a un'infinita distesa di ghiaccio. I colori riverberano e mutano ancora quando sono illuminati dal fuoco dei draghi, mentre gli edifici crollano in cenere e il ghiaccio si colora di rosso.
Ma ciò che rende davvero indimenticabile l'esperienza in questo mondo è la colonna sonora, come già detto una delle più belle della storia dei videogiochi, maestosa al punto da permettere di collocare Lair tra le grandi storie epiche del nostro mondo (se non fosse che non la ricorda nessuno, quindi è indimenticabile solo per pochi). Il compositore John Debney, premio Oscar nel 2005 per "La passione di Cristo", autore anche dei temi di Sin City, Iron Man 2, Le follie dell'imperatore (!!!), si è trovato per la prima volta a comporre per un videogioco, eseguita da un'orchestra di 90 persone agli Abbey Roads Studios di Londra. La sua opera è stata lodata anche con voti massimi, e paragonata a quella di John Williams per Star Wars -in particolare alla celeberrima "Duel of the Fates", che molti brani di Lair ricordano un po'-, cui in effetti Debney mirava: a suo dire, l'intento era di creare una colonna sonora che congiungesse Star Wars e Conan il Barbaro. E il risultato è certamente al livello dei capisaldi del cinema fantasy/epico: i toni concitati delle battaglie di "Bridge of the Ancients", l'oscura epicità di "Serpent Strait", che accompagna la battaglia col mostro marino, la dirompente bellezza di "Firestorm" e la maestosità di "Breaking the Ice" danno la viva impressione di una guerra per il destino dei popoli in lotta. Si alternano momenti più pacifici o introspettivi, come il tema di Rohn, o quello lento e melodico dei Mokai, fino al peso della tragedia avvertito in "Elegy", che accompagna il momento in cui Rohn scopre di aver distrutto un tempio pieno di civili.
Una menzione a parte merita il brano che accompagna un livello abbastanza unico, "Passo del Demone", durante il quale Rohn si introduce nottetempo alla base Mokai, volando lento per evitare i fari che lo segnalerebbero e via via spegnendoli, lasciando dietro di sé il buio. Il brano si intitola "Darkness Theme" ed è altrettanto unico, è oscuro e tragico, grande e misterioso, pensato da Debney per rappresentare il momento della caduta di una grande civiltà e accompagnato dalla voce di Lisbeth Scott, cantante che avrete sentito anche voi nei primi due film delle "Cronache di Narnia", ne "L'ultimo samurai", "Dinosauri", ""La vendetta dei Sith" o "Avatar". Il livello in sé mi ha fatto dannare, dato che i difetti di gameplay rendono difficile le delicate operazioni che richiede, ma la dimensione che crea ha un sapore davvero ancestrale.

È il caso di dirlo, non è quello l'unico punto che mi ha fatto dannare. Lair è forse il gioco più frustrante che abbia giocato: il suo sistema di puntamento dei bersagli è molto scomodo, ti porta a volare sempre più vicino all'obiettivo finché non lo superi e non riesci più a colpirlo, in generale cambiare rapidamente direzione non è immediato, e per quanto abbia senso pensare che gestire le redini di un dinosauro con le ali non debba essere la cosa più facile del mondo, si tratta di oggettivi difetti di progettazione. Giocare con il sistema SIXAXIS richiede un'attenzione maniacale ai propri movimenti, poiché un movimento poco più forte di quanto desiderato porta il drago dalla parte opposta a quella intesa; oltretutto, anche con la patch del controllo analogico, le azioni di scontro aereo contro altri draghi, e quelle in cui usarli per staccare oggetti dalla loro base (richiesta per distruggere armi antiaeree e per asportare la testa ai rinoceronti), si effettuano scuotendo il pad con forza, cosa che eseguita molte volte fa un po' stancare.
Il gioco è stato sviluppato anche in vista della funzione di controllo remoto, con cui utilizzare la PlayStation Portable come controller della 3, cosa che la neonata console stava sperimentando; forse usando la console portatile, più maneggevole del Dualshock 3, la risposta del gioco sarebbe stata migliore, è un'esperienza che non ho fatto e su cui, in ogni caso, non si può basare il sistema.
Riprendere il gioco in questi giorni in occasione del post mi ha fatto dannare ancora, perché quei problemi sono sempre là. Non ne nego nessuno.
Ma resta il fatto che Lair è l'unico gioco a permettermi quel tipo di controllo su un drago, e nessuna funzione offerta da qualsiasi videogioco può valere quanto quella, per me. Un videogioco basato sulla stessa cosa e realizzato in maniera perfetta, lo giocherei molto più di quanto faccia con le mie saghe preferite. Ecco perché gioco ancora a Lair dieci anni dopo, continuando -a distanza di tempo- a rifare i miei livelli preferiti e alternare un po' i draghi giocabili: in Lair posso volare su un drago, muovermi tra la terra e il cielo volando in qualunque punto e atterrando ovunque ci sia lo spazio, scorrere sul mare vedendo la schiuma sollevarsi dove il drago sfiora con la punta dell'ala la superficie dell'acqua.

Inoltre, dal complesso dei fattori elencati fin qui, e dalle impressioni che ho provato rigiocando, resto dell'idea che Lair sia una delle declinazioni del fantasy epico più originali e riuscite del nostro tempo.
Alla base di tutto vi sono motivazioni visive e auditive: i colori usati, la patina di antichità e di polvere vista fin dai primi trailer, gli allestimenti di colossali armate che si affrontano in paesaggi aperti con alte montagne in lontananza, sono tutti ingredienti che ricordano da vicino le suggestioni del "Signore degli Anelli" cinematografico; e Lair ne è certamente debitore, ma può vantare, rispetto alle infinite epopee di elfi e orchi degli anni Duemila, una sostanziale originalità rispetto al modello, in quanto inscena un conflitto altrettanto epocale ma radicalmente diverso, quello di uno scontro tra civiltà umane contrapposte da ragioni politiche, combattuto in maniera diversa. Anche Lair finisce sulle pendici di un vulcano, ma per una ragione meno profonda e più semplice, affrontare apertamente l'antagonista tirannico che vi si trova e porre fine alla guerra in una dimensione interamente ed esclusivamente fisica. In entrambi i casi quella situazione significa però un cambiamento epocale, la fine della lunga serie di guerre che hanno preceduto quel momento.
È di questo che parla un èpos, così che appare, è questa grandezza che ispira, una grandezza che a vedersi trasmette sensazioni che resterebbero solo aria, se una colonna sonora all'altezza non le rendesse solide, potenti come il cozzare dei corpi di due dragoni uno contro l'altro.
Dal punto di vista narrativo, Lair racconta una storia con buoni ritmi, non particolarmente originale o innovativa che si parli di premesse e antefatti o di conclusioni. Quella storia, pure, è più che sufficiente a fare da intelaiatura alle immagini e alle suggestioni, da cornice ai singoli episodi, episodi che riguardano un susseguirsi di battaglie e operazioni militari dove ciò che conta è come viene svolto il tutto. Si può dire che Lair sia uno di quei casi in cui il come conta più del cosa, che serve a permetterlo, ci riesce e non mira ad andare oltre. Si potrebbe osservare che un qualunque film di guerra procede in modo simile, senza per questo suggerire tutte quelle idee di èpos, ma la dimensione antica di questo gioco riesce a fare la differenza: sentiamo che la vicenda è avvenuta in un passato molto lontano, il passato di un mondo che non è certamente il nostro, ma che ci parla con tale intensità da renderci partecipi e sentirci un po' riguardati dalla sua storia. Le battaglie campali sono la nostra storia, i draghi sono la nostra storia.


Esistono altri giochi dove è possibile controllare un drago.
C'è Spyro, un caposaldo della storia videoludica, ma non ha e non cerca questa impostazione realistica. C'è Drakengard, dove il drago è un comprimario che si può chiamare solo a volte, c'è Divinity II: Ego Draconis, dove il guerriero protagonista può trasformarsi e anche volare per il mondo di gioco, ma è solo una parte e non ha tutti i dettagli del volo di Lair. I DLC di Skyrim hanno aggiunto al gioco la possibilità di cavalcare i draghi, ma non di guidarli liberamente. C'è il recente Ark: Survival Evolved, un gioco di sopravvivenza dove si addomesticano i dinosauri e dove le espansioni hanno aggiunto delle viverne che possono essere analogamente addomesticate e cavalcate; in video mi sembra anche una cosa interessante, ma anche qui è solo una piccola parte in qualcosa di più vasto, e il loro volo ha meno aspetti di cui tenere conto di quello di Lair. Tutti questi giochi includono i draghi, e la maggior parte di loro ha anche una storia migliore di quella di Lair, ma in nessuno il controllo e la manovrabilità di un drago in cielo sono l'elemento centrale.
Vi era un progetto di Platinum Games molto atteso, un'esclusiva Microsoft di nome Scalebound, dove un eroe umano accompagnato da diversi draghi avrebbe avuto la possibilità di molte interazioni e di cavalcarli; c'era molto da rivelare ancora, ma il gioco è stato cancellato.
Vi era un progetto nato quest'anno, un'idea dei Protoria Studios intitolata Skyfear, che doveva corrispondere a quello che cerco, un gioco dove manovrare draghi a quattro arti -anche qui chiamati viverne nel gioco stesso- impegnarli sia sul terreno che in cielo, con micidiali scontri. Il gioco non ha ricevuto abbastanza fondi su Kickstarter, e sembra che non vedrà la luce ad eccezione della piccola demo sul sito ufficiale.
Pare quasi che una maledizione aleggi sui videogiochi dei draghi: quando si prova a farne uno accade qualcosa, a meno che i draghi non siano una parte in un insieme più vasto. Anche Lair è stato colpito dalla maledizione, ma è l'unico che in qualche modo sia riuscito a sopravvivere.



Una delle mie più grandi curiosità senza risposta deriva dal primo trailer: come potete vedere, mostra un drago del fuoco, piuttosto che il più rappresentativo drago delle pianure, ergersi su un promontorio e ruggire la sua sfida senza avere esseri umani nelle vicinanze; dopodiché, si apre quello che pare proprio un portale magico nel cielo, e ne fuoriesce un drago oscuro, anche lui senza cavaliere, che ingaggia un feroce combattimento col drago del fuoco finché entrambi non si trovano  a precipitare. Se ne possono trarre alcune conclusioni: le più semplici, i draghi del fuoco e oscuri sono stati concepiti tra i primi, ed è possibile che a essere protagonisti dovessero essere i primi, piuttosto che quelli delle pianure; l'idea dei cavalieri, se anche presente fin dall'inizio, non era considerata come di centrale importanza, forse il concept originale prevedeva addirittura una storia incentrata sui draghi nel loro ambiente naturale; soprattutto, era presente una componente sovrannaturale-magica che è poi stata abbandonata. Sono molto curioso di sapere quale potesse essere questa idea e come potesse essere un Lair "più fantasy", ma una delle ragioni per cui lo apprezzo così tanto è proprio il modo in cui ha creato una bella ambientazione senza quegli elementi, basandola piuttosto sulle civiltà, le creature e i paesaggi.

Ho detto all'inizio che il post ha uno scopo. Ne ha più di uno.
Quello da cui sono partito era ricordare questo gioco, che ha un valore nella storia delle console, vale molto di più in un'ideale storia dei giochi sui mostri -sarebbe bello ricostruirla-, contiene molte cose che mi piacciono e che volevo condividere, e rappresenta qualcosa di importante nella mia crescita. Lo trovai, dopo averlo a lungo desiderato, in un negozio indipendente nell'estate del 2011, feci anche una gran scenata davanti alla donna del negozio lodando la loro fornitura e la mia fortuna presso di loro, dato che nello stesso posto avevo trovato Final Fantasy X dopo una ricerca simile; quell'estate in cui lo giocai era la stessa in cui attendevo l'uscita di Skyrim e di Dark Souls, prima di quello che per lo zodiaco cinese sarebbe stato l'anno del Drago. La cosa che mi è rimasta più impressa negli anni è quella ricchezza di creature immaginarie grosse quanto e più dei draghi, che permettono un equilibrato rapporto di potenza di questi rispetto al loro mondo, e la costituzione di quegli ecosistemi. Questa era la cosa che più mi premeva esprimere.
Ma mentre elaboravo il post ho notato anche un'altra cosa, e ad essa mi riferivo quando ho parlato di scopo: il modo in cui Lair funziona come opera epica fantasy di piglio cinematografico, in grado non sfigurare davanti al modello supremo jacksoniano, senza peraltro rientrare nello stesso ambito e senza dovere tanto alle storie della Terra di Mezzo per la sua ambientazione. Queste creazioni artistiche permettono l'immersione in mondi che catturano la nostra fantasia, ma in più ci assaltano con quel senso di antica bellezza e monumentalità tali da ispirarci non solo piacere e meraviglia, ma anche autorità e ammirazione.
Lo scopo è non dimenticare Lair. Parlarne, andare oltre i suoi difetti, non permettere che questi ci impediscano di ricordare i suoi pregi, le cose buone che ha, e soprattutto riprendere queste cose buone, per comprenderle e per trarne lezioni grazie alle quali arricchire le prossime storie, renderle migliori e far vivere Lair anche attraverso di loro. Storie che ci trasmettano quella grandezza e quella bellezza, che ci stupiscano con paesaggi splendidi e creature maestose e spaventose, e soprattutto storie in cui possano vivere i draghi. Quel nome, "Lair", mi evoca sempre nella mente l'immagine del drago principale, quello mostrato nei trailer, e prendermi cura di Lair è come prendermi cura di quel drago, il cui benessere dipende anche da me.