giovedì 31 ottobre 2019

Jack Lanterna e i Teratartari


"La notte di Halloween è una notte diversa da tutte le altre, e sapete perché?
Perché ogni anno, durante quella notte, passa nel cielo una cometa, una cometa molto speciale, che può essere vista sia dal mondo dei vivi che dal nostro.
In quel momento, solo per quella notte, viviamo tutti nello stesso mondo. Noi siamo un po' più simili a loro, e loro un po' più simili a noi."

Oltre il corso del fiume Stige, sotto le cascate del Flegetonte, nel profondo di un vasto burrone sulla fiancata del monte Qaf, rischiarato dalla luna sotterranea e circondato dai fumi mefitici delle sorgenti del Cocito, si trova il paese Teratartara, i cui abitanti attendono ogni anno Halloween con grande trepidazione.
C'è un legame stretto come la morsa degli uncini della vergine di Norimberga, tra il modo in cui si dedicano alla festa gli abitanti di Pianodisopra, come loro usano chiamare noi vivi, e la brava gente di Teratartara. Tanto per cominciare, anche loro si travestono. Con la differenza che, nel loro mondo, la paura è il modo più raffinato di comunicare e di creare aggregazione. Per cui, come tra noi qui sulla terra fanno quelli che ancora festeggiano Halloween alla maniera di una volta, e tentano di sprigionare il massimo dell'orrore e del raccapriccio permessi dalle arti dei mortali, i teratartari si agghindano in modo da ispirare simpatia e affabilità nei loro simili.
Si potrebbe osservare che hanno una concezione di simpatia che potremmo trovare quantomeno discutibile: nello storico Halloween del 1966, il famoso Empusio Salassetto vinse il premio Zucca Scarnificata per aver fatto passare, attraverso l'ampia cavità che gli attraversava il petto all'altezza del cuore, un palo di legno cui aveva appeso scheletri di bambini, alternati a scheletri di gattini, facendoli scricchiolare mentre avanzava sulle sue gambe sbilenche. L'apice della festa fu raggiunto quando uno degli scheletri dei bambini riprese a parlare.
Cionondimeno, non è con meno che la più grande cortesia e il massimo rispetto verso l'un l'altro, che i teratartari mettono in atto i loro scherzetti, e sono soliti dispiacersi molto se questi inducono sensazioni spiacevoli nel loro prossimo. Perché, se anche la percentuali annuali di incidenti fatali dovuti a ghigliottine o cannibalismo sono sensibilmente più alte a Teratartara che da noi a Pianodisopra, vale la pena di osservare anche che per i teratartari la morte in sé e per sé non è un incidente molto più grave di quanto una macchia di sangue su una cravatta, o un escremento di scimmia nella ciotola del gatto, possano esserlo per noi, e se anche talvolta uno di loro si trova per errore a uccidere un suo concittadino, o anche una ventina, la cosa più educata da fare e rimettere in fretta insieme i propri mezzi e affermare di aver comunque gradito l'idea.
I teratartari, va inteso, hanno la fortuna di essere tutti d'aspetto abbastanza affine allo spirito di Halloween -sicché se girassero per Pianodisopra non avrebbero chiaramente il bisogno di camuffarsi- e anche l'uno diverso dall'altro. Sono tutti estremizzati in qualcosa, tozzi o ridotti all'osso, nani o spilungoni; alcuni hanno criniere, corna e becchi adunchi, altri invece tre teste e un occhio solo, mentre un numero discreto della loro gente somiglia, più che altro, a sacchi imbottiti con una faccia e capelli di setole di scopa, a ceppi d'albero che camminavano sulle radici, o a vecchi mobili abbandonati e dissestati cui erano cresciuti i piedi e almeno una lingua, che nel caso di persone come la signora Comodino, che a onor del vero era una poltrona scucita e ricoperta di muffa, è anche di troppo.
Per cui è qualcosa di strano, e forse di incomprensibile a meno di essere uno di loro, quello strano equilibrio tra l'abnorme e il lezioso che cercano di ottenere quando si dedicano ad Halloween. Una sorta di accrescimento di quella cosa che noi chiamiamo "grottesco", e che loro definiscono, invece, "moda autunno-inverno tardo-barocca".

Teratartara, si capirà, è piena di zucche. Campi di zucche, estesi fin dove occhio può vedere -anche se l'occhio è quello di un lumacocchio, che può spostarsi grazie ai piccoli tentacoli verminosi che reggono l'occhio il quale costituisce l'interezza del suo corpo, ma che di rado approfitta di questa possibilità di movimento per per percorrere i campi di zucche-, zucche sui davanzali delle finestre e lungo le balconate, zucche all'angolo delle porte. Zucche di Halloween, si intende.
E' da talmente tanto tempo che gli abitanti di Teratartara incidono le zucche del loro mondo che queste hanno cominciato a mettere su facce da sole, sicché i teratartari devono solo raccoglierle e inserire loro i lumi dentro.
Le usano per tutto, come vasi, portaombrelli, fermaporta, teste di ricambio, quando perdono la propria o quando i loro bambini la smarriscono giocando alla loro peculiare versione del nascondino, e naturalmente le cucinano in numerosi modi e le mangiano. Anche le zucche mangiano loro, di tanto in tanto.
Il conte di Teratartara è una tartaruga. Dal suo carapace escono sbuffi verdastri, e sul volto ha sempre un sorriso larghissimo, rugoso e privo di denti. E' ormai anziano, ma a suo dire non è che a metà della vita media di una tartaruga delle sue parti.
I paesi vicini sono pieni zeppi di tartarughe, originarie della regione del Tartaro, ma così numerose da aver colonizzato quasi ogni stato infero.
Solitamente, i teratartari non usano interferire con gli affari degli abitanti di altre regioni del mondo dei mostri, né di alcuno degli aldilà. Sanno però essere ospitali con i visitatori, anche se ultimamente è sempre più raro che se ne presenti qualcuno.



Un anno capitò un fatto bizzarro. Si avvicinava la notte di Halloween, e i preparativi fervevano come non mai.
Alcuni bambini, tre piccoli sacchetti di iuta e carne tritata ricuciti insieme, con degli adorabili tagli frontali da cui ogni tanto colava un po' di moccio, che si chiamavano Ematonio, Baretta e Tombino, erano particolarmente emozionati, più delle civette che facevano in continuazione"Uh! Uh!", persino più delle Efemere Trepidanti, che nascevano durante la festa, gridavano per l'emozione e morivano di crepacuore poco dopo.
Ecco, i tre piccoli teratartari erano più emozionati ancora: mostri di cioccolato che deponevano uova, scheletri di marmotta che li confezionavano, zombie che dipingevano le pareti con la propria bile e raccoglievano i resti di quelli pitturate il secolo prima, che alla fine si erano sciolte; vampiri che svolazzavano da una parte all'altra per consegnare gli inviti, salici fantasma che si strappavano i rami di dosso, per intrecciare i cestini di vimini che la gente usava per raccogliere i dolcetti, mummie che incartavano come regalo cagnolini e gattini imbalsamati, cui asportavano il cervello per confezionare i pasticcini da servire alle nonne teratartare che non avevano più i denti -i quali cadevano molto abbondanti, da quelle parti, visto l'alto consumo di zuccheri; ma dato che le scope le usavano per volare, e non molto per ramazzare la sporcizia, quei denti abbandonati erano diventati così tanti da fondare una propria repubblica indipendente nei sotterranei di Teratartara, dove tentavano, con scarsi risultati, di parlamentare con quelle maledette fatine che rapivano i dentini da latte e ci costruivano case abusive.
Baretta tirò la gonna di quella vecchia, brutta e bimaledetta strega che era la sua mamma, e chiese «Mammina, mammina, ma perché si festeggia Halloween? Mammina, mammina, ma perché si festeggia Halloween? Mammina, mammina, ma perché si feste...»
«Ora te lo dico, la peste ti colga!» rispose la mamma «Halloween è quando nel cielo passa la grande cometa, che ci guida verso le sponde di Pianodisopra»
«Ma perché passa la cometa, signora Bacucca?» chiese Tombino.
«Passa e basta, piccolo Tombino» rispose la strega «Possibile che voi bambini vogliate sapere tutto? Non vi hanno detto che i morti hanno la testa vuota?»
Ma i bambini non stavano più a sentirla: avevano deciso di andare a vedere quella cometa, e stavano correndo a vederla. Si chiedevano cosa fosse, poi, una cometa, e ognuno aveva la propria idea in proposito.
«Per me è la scorreggia di un angelo del paradiso» disse Ematonio, che era molto sensibile.
«Per me è un fantasma assassino che ogni anno ad Halloween uccide tutti i teratartari e poi li ricrea il giorno dopo all'infinito» disse Tombino, che aveva molta fantasia.
«Per me è morta» disse Baretta «e non passa più»
I bambini corsero per tutta la giornata, fino a quando non si resero conto che non sapevano mica dove andare, e allora decisero di tornare indietro e chiedere a qualche adulto, magari defunto, dove andare a cercare questa cometa.
Ma, forse perché era tardi e avevano iniziato a stancarsi, forse perché i loro piedi erano gli angoli del sacco che costituiva il loro corpo e quindi avevano i passi un po' brevi, e forse anche perché quando provavano a correre le cuciture saltavano, rotolini di carne gli cadevano intorno, e loro, golosi com'erano, si fermavano a raccoglierli per rimangiarseli, sicché poi erano ancora più affaticati, non riuscirono a fare molta strada prima di fermarsi, stanchi.
«Abbiamo combinato un pasticcio» disse Ematonio, pulendosi gli occhiali: lo faceva sempre, quand'era preoccupato.
«Io vorrei un pasticcio di occhi di ragno» brontolò Tombino, che era di buon appetito.
«È tutta colpa tua» gli disse Baretta, che era la più spaventata, perché temeva sempre che l'infame megera che diceva di averla messa al mondo la gettasse in un pentolone e ci facesse un pasticcio per davvero, o magari un polpettone «eri tu che volevi vedere quella stupida cometa»
«Che magari è solo una puzzetta...» disse Ematonio.
Atterriti, impauriti e con la pancia che brontolava, i tre teratartarini non sapevano che fare, e di conseguenza non fecero nulla, rimanendo lì a fissare le ombre della notte, che ogni tanto si innervosivano e sibilavano «Beh, che c'è da guardare?»
D'un tratto, quando si era ormai fatta ora di cena, udirono dei suoni morbidi e striscianti provenire dai dintorni: dal fitto del bosco dello Squartamento Ottuplice (vanto della scuola di tortura teratartarese, che consisteva nel legare il corpo da squartare a otto cavalli, anziché quattro) emersero delle basse sagome tonde, alcune piccole e alte grandi, alcune saltellanti e altre che strisciavano su lunghe radici verdi e tentacolari. Erano una banda di zucche.
«Oh no!» sussultarono i teratartarini.
La zucca più grossa esclamò «Guarda guarda, che bocconcini prelibati che abbiamo trovato!»
«Per favore, signora zucca, non ci mangi» supplicò Baretta.
«Stai scherzando?» si accigliò la zucca «Ogni anno, tutti voi cosiddetti "cittadini" coltivate, rapite e affettate migliaia di noi zucche, per mangiarci e per fare le vostre stupide lanterne decorate. Io dico: basta!»
«Ma, signora zucca» balbettò Tombino «io pensavo che a voi, ecco...piacesse, essere mangiate, o intagliate per fare le lanterne»
Tutte le zucche tacquero.
«Che cos'hai detto?» chiese la grande zucca, guardandolo torvo.
«Io...pensavo che vi piacesse, essere il nostro cibo e i nostri giocattoli ad Halloween»
«Ah! Hai ragione, è vero!» esclamò la zucca, scoppiando a ridere. Risero anche le altre zucche. «È proprio vero! Ah, e io che stavo per mangiarvi! Voi tre mi piacete, ragazzi. Ehi, venite con noi, vi facciamo conoscere il nostro capo e poi vi riaccompagniamo a casa, che ne pensate?»
«Urrà!» esclamarono i teratartarini.
Seduti sulla cima di tre grosse zucche, i bambini, reggendosi forte mentre queste saltellavano su e giù, percorsero insieme a loro un irto sentiero che passava intorno alle montagne, dove nessuno dei loro genitori era mai stato. Al centro del monte più grande di Teratartara si trovava una grotta, un'ampia cavità illuminata da alcune zucche di pietra, molto antiche. Fu proprio là che la banda portò i bambini.
Guardandosi intorno impressionati, perché non avevano mai visto niente di così grande, i sacchetti di carne si accorsero che c'era qualcun altro, in quella caverna, che non era una zucca.
«Scusi, signore» lo chiamò Ematonio «lei chi è?»
Videro alzarsi un personaggio alto, smilzo, con un lungo mantello stracciato e una grossa zucca al posto della testa. Nella zucca si accese una fiamma.
«Io? Ho il piacere di essere il vecchio Jack Lanterna, per servirvi, ragazzi miei!»
«Jack Lanterna?» chiesero all'unisono i fagottini «Mai sentito!»
L'uomo zucca sospirò «Non mi stupisce, cerco di far bene la mia parte senza prendermi troppi meriti. Ma dovete sapere, amici miei, che ho fondato io Teratartara, tanti anni fa»
Ora Ematonio, Baretta e Tombino lo fissavano con i fori facciali a "O".
«Una volta vivevo a Pianodisopra. Ero un pianodisoprese, o umano, come dicono lassù. E quando morii, non potei andare in nessuno dei luoghi dove vanno gli umani quando muoiono loro. Avevo in mano soltanto una zucca lanterna. Dopo aver girato a lungo senza concludere niente, ebbi un'idea: dato che non mi facevano entrare in nessuna casa, né quella dei buoni né quella dei cattivi, decisi di costruirmene una io»
«E come fece, signore?»
«Trovai un posto nell'aldilà dove nessuno sarebbe venuto a disturbare, un posto che nessun altro avrebbe voluto per sé. C'era questa grande vallata ai piedi della montagna, abitata da nessun altro che alcune zucche molto gentili: quando videro la mia lanterna, trovarono l'idea interessante, e decisero di farmi il loro capo. Insieme abbiamo reso abitabile questo posto, e costruito tutto quello che conoscete»
«E quindi tutti gli abitanti erano zucche?» chiese Tombino, al quale non sembrava di somigliare a una zucca.
«Oh, no. Ma hai ragione: avevo bisogno di abitanti. Così, dato che potevo ancora tornare sulla Terra, decisi di prendere un po' di gente di lì. Sapete, ogni anno c'è una notte in cui la soglia tra la Terra e l'aldilà si apre, e noi spiriti possiamo passare qualche ora lì. Decisi di approfittarne: iniziai a tornare ogni anno a Pianodisopra, durante la notte di Halloween, e a dire alla gente che c'era questo bel posticino nell'aldilà, dove si possono fare cose spaventose tutto l'anno e fare dolcetto o scherzetto tutti i giorni»
«E poi?» chiese Baretta, ammaliata dalla storia.
«E poi, con mia grande sorpresa, scoprii che c'era tantissima gente che desiderava proprio vivere in un posto come questo. Così mi misi in testa, facendo luce con la mia lanterna, e li guidai fin qui. Nessuno era costretto a rimanere qui per sempre, ma sempre più pianodisopresi si trasferivano senza tornare più indietro. Man mano la voce iniziò a girare, e ricevemmo visite da diavoli infernali, fate dell'Isola dei Beati, polipi volanti dello spazio e persino qualche angelo un po' annoiato. Oh, e i gatti, non bisogna dimenticare i gatti.
Alla fine, Teratartara si è riempita di persone. Ogni anno risalgo in superficie, portando con me i fantasmi che desiderano fare una visita ai loro vecchi mondi, sempre guidandoli con la mia lanterna. A quanto si sente dire, è il luogo più in di tutto l'aldilà. Alla fine, è stato il vecchio Jack a fare uno scherzetto a quelli del paradiso e dell'inferno, che non l'hanno voluto far entrare!»
«Signor Jack, ma allora, la cometa di Halloween, che passa ogni anno attraverso il nostro cielo...» disse Tombino.
«...è la mia lanterna, hai indovinato» concluse Jack, sorridendo, cioè sollevando una delle zucche stese ai suoi piedi, su cui era inciso un volto sorridente.
«Ora dovete tornare a casa. Manca ancora qualche giorno ad Halloween. Mi raccomando: festeggiatelo sempre, festeggiatelo con allegria, con spirito festoso e con il cuore leggero, perché è la festa della libertà, la festa delle scelte che durano oltre la morte. Buon Halloween a tutti voi! Dolcetto o scherzetto? Cosa vi toccherà? Io non ne ho idea, ma so per certo che vi divertirete moltissimo!»

Quella notte, le zucche riaccompagnarono i bambini al limitare della città, augurarono loro buona notte, dissero che avrebbero comunque considerato l'eventualità di mangiarli, se li avessero rivisti, e se ne tornarono sulle colline.
I genitori dei bambini li punirono in modo esemplare. L'infinitamente disgraziata strega impiccò Baretta a testa giù, mentre i genitori di Tombino distrussero effettivamente il bambino, e lo ricucirono soltanto la mattina di Halloween, ma solo perché era una festa importante, altrimenti avrebbero aspettato anche per mesi. In ogni caso, i bambini si considerarono più che felici, perché avevano scoperto un segreto importantissimo, e sapevano perché si festeggiava Halloween.
Quando la notte del 31 sopraggiunse, in lontananza, nel cielo nebbioso, si accese un lumino, che lentamente arse attraverso il cielo e lo percorse fino a sparire.
«Ciao Jack» gridarono in coro i bambini «buon Halloween!». Si guardarono l'un l'altro mentre ridevano: i loro volti sembravano quasi umani. Quasi vivi.
E come disse loro il buon vecchio Jack Lanterna, buon Halloween a tutti noi. Dolcetto o scherzetto?



giovedì 17 ottobre 2019

Devil May Cry 5 - Eucatastrofi demoniache


Buonasera, e ben ritrovati sul blog originale dell'Anima del Mostro, dopo lo iato più lungo della sua vita. Finora.
Rispetto all'ultima volta, sono cambiate molte cose. Molte delle cose che aspettavamo e su cui fantasticavamo insieme sono accadute, e hanno assunto una forma intorno alla quale non possiamo fantasticare più.
Perché le cose di cui mi piace scrivere di più sono quelle possibili. Il fantastico, oltre che una serie di modi di parlare di ciò che è, dato che naturalmente occorre sempre ribadire, è pur sempre anche un discorso su ciò che potrebbe essere. È il motivo per cui tante volte qui abbiamo dato uno spazio enorme alle concept art: una possibilità vaga, definita ma non del tutto.
Devil May Cry 5 è uscito, Godzilla II è uscito, e intanto L'Anima adesso è anche una pagina Instagram che vi invito a seguire se non ci siete. Ormai l'attività su Facebook e su quest'altra pagina è consolidata, e il fatto che sia passato il lasso di tempo di inattività del blog più lungo di tutti non l'ho vissuto problematicamente, visto che l'attività procedeva in modo anche interessante.
Questo post sarà il primo degli ultimi nove sulla via del centesimo.
Sì, ultimi.
Nel senso che finiremo?
Sì.
No no, scherzo, non finirà niente!
Dopo il centesimo post, L'Anima cambierà impostazione. Abbandonerò il metodo del "un solo post lungo alla volta" e tutta una serie di altre regole che mi ero imposto, per pubblicare i contenuti qui in modo più libero. Nel frattempo, spero che per allora sarò riuscito a concretizzare un paio di altri progetti, grazie ai quali le cose prenderanno una svolta molto ma molto più interessante.
Penso però che un cambiamento come questo non vada preso di punto in bianco e in un momento casuale. Per questo non l'ho fatto prima. Così, voglio arrivare al post numero 100, perché penso che dopo quel momento potrò farlo.
Finiti i chiarimenti, passiamo a questo novantaduesimo post dell'Anima del Mostro.

DMC IS BACK!!!
Quale sarà il modo giusto per parlare di questo gioco? Le sue conseguenze sono state molto diverse da quel che mi immaginavo.
Come ricorderete dal post precedente, quello che descriveva l'attesa del gioco, un grandissimo peso avevano le aspettative sui contenuti in termini di quello che mi interessava di più, la storia della saga di Devil May Cry in primo luogo, la lore e i dettagli sui demoni e la loro mitologia che sarebbero stati espressi, e i punti di congiunzione tra le due cose, vale a dire in che modo le gesta dei cacciatori di demoni si sarebbero intrecciate con la Storia con la esse maiuscola del mondo demoniaco.
E poi, c'era un pensiero rivolto allo stile. Perché il motivo per cui mi piace questa saga, insieme al legame con il suo protagonista, è quel modo in cui combina elementi vari al fine di rendere un'impressione di attrazione, di farci desiderare quel mondo, sentendo come tutto lì avviene nel modo più affascinante, più figo possibile. E poi, per me, questo risultato è direttamente proporzionale alla quantità di colore rosso presente nel gioco, dagli ambienti alle schermate fino agli artwork promozionali. Il rosso accompagna ed enfatizza il sapore di spettacolo e di passione, come se richiamasse non già il sangue presente in gran quantità sullo schermo, ma il mio, che ribolle davanti allo spettacolo e ne gode appieno. È anche per questo che i primi tre -incluso il due- hanno su di me un potere visivo unico.

Avengers May Cry

Devil May Cry 5 non è un Devil May Cry rosso.
Non potrei dirlo più chiaro di così.
Ed è come se questo avesse determinato un cambiamento, sulla base del quale l'ho dovuto leggere in base alle sue connotazioni specifiche, e non quelle del resto della saga, per trovare il suo senso nel mio sistema di suggestioni e sensazioni.
Farlo è stato molto particolare, mi ha lasciato sensazioni nuove e sconosciute.

Devil May Cry 5 cambia genere estetico e passa dall'anime alla live action.
Punta al realismo cinematografico, ha una direzione estetica spettacolare, tesa a coniugare i modelli gotici e macabri, con cui ha sempre presentato i demoni, con un'ambientazione metropolitana e un tono da film d'azione, magari supereroistico, pieno della polvere, del grigiore e dell'oggettistica che questo comporta.
Il rosso diminuisce perché Dante ha solo un terzo dello spazio complessivo del gioco -o qualcosa di più-, e dominano i colori di Nero e V, gli altri due protagonisti, e il grigio dell'ambiente metropolitano. Il rosso è maggiore nei livelli ambientati nelle dimensioni sovrannaturali, combinato con altri colori caldi, ma non è esattamente quel misto di rosso e nero, e di tratteggi sfumati, cui collego i primi tre. Perché quelli erano ambientati in una dimensione fumettistica, basata sui cliché, ed era come se Dante avesse il pieno controllo di quella dimensione, un genius loci dello sballo action-horror. Qui, a bordo del fedele camper di Nico, lui e la sua banda sono sbarcati in un mondo più vasto, un mondo in cui i vecchi stilemi non bastano più, e la narrazione acquisisce così multimedialità, notazioni cronologiche e topografiche, mentre i rimandi a una storia del mondo si fanno più fitti.
Perché la saga di Devil May Cry, per la maggior parte degli aspetti, pare ambientata in un mondo fantastico: città e luoghi immaginari come Mallet Island o Vie de Marli, nessuna menzione alla geografia reale se non in due casi (sappiamo che la città di Fortuna si trova in Europa, e che Dante negli altri capitoli opera in America), una generica menzione a proposito di un medioevo in cui esistevano cavalieri (nella descrizione di Shadow del primo Devil May Cry); soprattutto, regole proprie: l'umanità è consapevole dell'esistenza dei demoni, il negozio di Dante non è un caso isolato, ma le attività di Devil Hunter rendono bene anche altrove. Anche la fisica sembra distorta, ma quello è sempre per via dei poteri di Dante...e un pochino del taglio registico.
Per curioso che possa sembrare, Devil May Cry 5 aggiunge un tassello che sembra tenerlo più legato al nostro mondo, inserendo una persona realmente esistita, forse l'unica mai nominata: William Blake.
A meno di considerare l'ipotesi, che io non scarterei, che il nostro Blake, uomo pieno di risorse, non abbia viaggiato in altre dimensioni e pubblicato i suoi libri anche lì.
Nel gioco, uno degli oggetti più importanti sia ai fini della storia che della componente ludica è un libro, il libro con cui gira sempre V, contenente le poesie e le incisioni di William Blake. Sarebbe futile congetturare su che libro possa essere in termini "editoriali", se una selezione delle opere migliori, una miscellanea, un testo contenente tutto il Blake poeta concentrato in uno spazio ridotto (perché possiedo un libro con tutta la poesia di Blake, e nella rilegatura del libro di V non ci entra). Diciamo che allora che il libro di V è un pretesto, un oggetto la cui funzione è simbolica, un dispositivo che serve a dare all'insieme quello che occorre.
Così, nel mondo di Devil May Cry questo autore esiste. Il che avvicina questo universo al nostro un po' di più. Senza che, al contempo, manchino altri fattori che acuiscono la distanza, come la menzione del leggendario fabbro di armi Machiavelli (che in realtà era già stato menzionato nel Devil May Cry Drama CD, del 2008). Direi insomma che questa è una saga che non tenta di creare un'ambientazione perfettamente definita e delimitata da delle regole, ma continua anche qui a giocare con quelle regole, inserendo ciò che sceglie di inserire esclusivamente sulla base della stilosità e di quanto renda tutto ancora più figo. Con la differenza che lo fa a più livelli rispetto al passato.
A definire questo episodio, al di là del mio evanescente discorso sui colori, sono il tono e le scelte autoriali.
Devil May Cry 5 segue un registro narrativo inedito, che intreccia l'intreccio in un modo che non sempre aggiunge significato, ma dà indubbiamente un aspetto più autoriale al tutto.
In primo luogo, possiede una cronologia ben determinata e puntualmente documentata: all'inizio di ognuna delle venti missioni, del prologo, degli epiloghi, e anche in diversi momenti all'interno della stessa scena, veniamo sempre informati del giorno e dell'ora, sì da poter ricostruire dettagliatamente la successione degli eventi, avendone voglia.
Giusto per darvene un assaggio, e per definire anche qui la materia del nostro discorso anche in termini temporali: Devil May Cry 5 è ambientato principalmente il 15 giugno.
La Missione 1 inizia alle 04:24 di notte, la missione 20 alle 16:27.
Il Prologo, quando inizia la nostra avventura, è ambientato il 16 maggio. Il Prologo è costituito dalla prima battaglia tra i Cacciatori di Demoni, dunque i protagonisti Nero, Dante e V, ma anche le cacciatrici Trish e Lady, e l'antagonista Urizen. Lo stesso giorno ha visto emergere dagli inferi, nella metropoli immaginaria di Red Grave City, il gigantesco albero del Qliphoth, ambientazione della maggior parte del gioco, causa della morte della maggior parte degli abitanti, attraverso le sue radici semoventi che uccidono gli esseri umani per assorbirne il sangue, e veicolo dell'invasione di demoni forse più grande della saga.
Il primo evento in ordine di trama, però, avviene il 30 aprile, ed è il furto del braccio di Nero da parte di un misterioso sconosciuto. Quello sconosciuto, cioè Vergil, torna il 1 maggio nella casa in cui lui e il fratello abitavano da bambini, ridotta a un rudere dopo l'attacco dei demoni, e lì opera l'atto dal quale prendono vita Urizen e V.
V contatta Morrison, l'agente di Dante, presumibilmente uno o due giorni dopo, magari dopo essersi rimesso in sesto dopo la sua "nascita", e Morrison a sua volta lo accompagna alla Devil May Cry il 3 maggio; di lì a pochi giorni Patty Rowell festeggia il suo compleanno (no no, è importante).
Il 15 maggio, un mese prima degli eventi principali del gioco, il Qliphoth emerge dalla terra di Red Grave City, e ben presto (alle 16:44) Dante, insieme a Trish, Lady, V e Nero, si reca al suo interno per affrontare il demone che ha causato il tutto. La missione 10 è l'unica ambientata in un periodo differente, e segue per l'appunto Dante che attraversa le vene pulsanti del Qliphoth. Uno dopo l'altro vengono tutti sconfitti -ad eccezione di V, che non prende parte allo scontro- e mentre quest'ultimo e Nero si mettono in salvo, gli altri tre rimangono indietro. Questo, come dicevo, nel Prologo.
Dopodiché, l'azione si sposta avanti di un mese, e tutti gli altri eventi sono ambientati in seguito.

Urizen: One King, One God, One Law
«And it grew both day and night, till it bore an apple bright.»
Devil May Cry 5 inizia con una citazione. È la prima volta che accade.
Iniziare un'opera con una citazione in chiave postmoderna (cioè inserita esclusivamente come citazione, come siamo abituati a vedere) le dà invariabilmente un tono più rilevante, più autoriale, non tanto per motivazioni intrinseche quanto perché ci siamo abituati.
La frase, naturalmente, è di Blake. Sono due versi della poesia A Poison Tree. Capiamo ben presto che si riferiscono al Qliphoth, che Urizen sta nutrendo notte e giorno perché produca il Frutto dal quale otterrà il potere. Ma se leggiamo la poesia troviamo bene come essa rispecchia lo svolgimento della vicenda di Devil May Cry 5:

I was angry with my friend; 
I told my wrath, my wrath did end.
I was angry with my foe: 
I told it not, my wrath did grow. 

And I waterd it in fears,
Night & morning with my tears: 
And I sunned it with smiles,
And with soft deceitful wiles. 

And it grew both day and night. 
Till it bore an apple bright. 
And my foe beheld it shine,
And he knew that it was mine. 

And into my garden stole, 
When the night had veild the pole; 
In the morning glad I see; 
My foe outstretched beneath the tree.

La figura centrale della storia è Vergil. È lui che dà vita a tutto ciò che accade. E il sentimento da cui derivano tutte le sue azioni, sia in questo capitolo, che, sulla base dei retroscena che esso contiene, anche del resto della sua vita, è la rabbia verso Dante, 'amico' in quanto fratello e unico simile che possieda, 'nemico' da quando la vita li ha contrapposti. Ha coltivato la sua rabbia con le lacrime... e con la paura.
«The truth is... I wanted to be protected and loved...»
La sua rabbia, mediata dalle risorse del mondo demoniaco, è divenuta il Qliphoth, la cui funzione principale è proprio produrre il Frutto.
Così, le ultime due strofe, in cui il nemico assiste allo splendore del frutto e tenta di fermare il poeta, sembrano anticipare l'incontro di Dante e Urizen, nel campo davanti alla casa di infanzia dei figli di Sparda, durante la Missione 17. Espropriate del messaggio di Blake, chiaramente.


Il Prologo e il video iniziale della Missione 1 sono estremamente emblematici nella definizione dell'opera, nel mostrare come essa sia approdata altrove rispetto al passato, dal punto di vista estetico.
Il primo, come scrivevo nell'articolo precedente, mostra un'apocalisse demoniaca che coinvolge in modo più manifesto la città e i suoi abitanti. Persone alle prese con la vita di tutti i giorni che vengono impalate e smembrate da tentacoli mostruosi, il tutto enfatizzato da brani tragici.
Urizen si palesa come il tiranno. Siede su un grande trono poggiando il capo su una mano che si regge sul gomito posato su un bracciolo. L'impressione che gli artisti vogliono trasmettere è quella di un essere che ha raggiunto il massimo delle sue potenzialità, la forma di potere più alta esistente -o meglio, della cui esistenza era al corrente- e che dunque prova noia davanti a qualunque cosa, che ormai non può più interessargli. Tutto ciò che esiste può solo dargli altro potere.
Parlando la lingua degli archetipi, possiamo vedere nella sua posizione un segnale di malinconia, che lo accomuna a quelle figure mitologiche, come Saturno o Lucifero, re dell'Età dell'Oro, che dopo la fine della loro epoca perdono il loro stato e si ritrovano in una dimensione infera e ctonia, sospesi nella non-vita, in attesa che torni il loro momento. Urizen, cioè Vergil, è effettivamente un angelo caduto, passato a un'esistenza nascosta, dolorosa e intollerabile, e adesso l'albero gli consente il ritorno.
Urizen prende il nome da uno dei personaggi più importanti della mitologia di Blake. Identificabile con il Dio del Vecchio Testamento, è lo spirito della tradizione e della ragione, che ha provocato la separazione dell'Uomo primordiale, il gigante Albione, nei Quattro Zoa, ognuno dei quali è una delle parti che solo insieme costituiscono la natura dell'uomo, la ragione appunto, la natura, l'amore e la creatività. Urizen è il Nemico per eccellenza in tutte le fasi in cui si evolve la mitopoiesi blakeana, a partire dalle poesie giovanili in cui è chiamato Nobodaddy, "Papà Nessuno" (o Babbonemo, come lo tradusse Ungaretti), incombe su tutte le passioni mentre tenta di stroncarle, e in questo ruolo antagonistico è assimilabile a Satana, come nel fatto che in molti episodi si trasforma in un drago, o a un drago viene paragonato.
«This demon is your reason. Your reason for fighting.»
Difficile, naturalmente, non vedere le similitudini con quanto avviene nel gioco. Sventando tutti i timori che Urizen fosse solo un nome, gli scrittori del gioco hanno saputo integrare la loro fonte letteraria con la trama che stavano sviluppando: Urizen, la ragione di Vergil, presente in lui fin dall'inizio, è ciò che lo ha portato a scindersi in due entità diverse, per mantenere una forma che fosse libera dalle ferite lasciategli dalla vita come Nelo Angelo, liberarsi della parte più debole e umana e perseguire la ricerca del potere in una forma che non avesse limiti. Un essere freddo, vuoto, che operasse per puro calcolo.

L'albero della dannazione

Acquista allora un grande valore la sua compenetrazione con il Qliphoth, altro elemento chiave del sistema di mitologia e riferimenti mitologici di Devil May Cry 5, che sono ancora più ricchi e più fitti degli episodi precedenti.
Il Qliphoth, internamente al gioco, è una pianta parassitaria proveniente dal mondo demoniaco, e, a detta di V, persino più antica del mondo demoniaco stesso. Non è la prima forma di vita vegetale demoniaca che compare nella saga -se di forme di vita si può parlare a proposito del Netherworld- basti pensare alle radici rampicanti di Devil May Cry 4, ma certamente è la più importante. Il Qliphoth si nutre di sangue umano, penetrando nel mondo mortale se evocato da qualcuno in grado di farlo, e man mano che cresce protende le sue radici sempre più in alto, verso il cielo, mentre il fusto e i rami si estendono nel mondo demoniaco. In tal senso, il Qliphoth funge anche da collegamento tra le due dimensioni. La sua funzione principale, o perlomeno più unica, è la creazione di un frutto attraverso il sangue che assorbe, un frutto che detiene un potere tale da porre chiunque lo possieda al di sopra di ogni altro demone. Fu proprio il frutto, come spiega Trish all'inizio della Missione 13, a rendere Mundus imperatore del mondo demoniaco molti millenni fa...il che dischiude ai nostri occhi, per la prima volta, il pensiero che Mundus non sia sempre stato il sovrano dei demoni.
Non abbiamo mai sentito parlare prima del Qliphoth perché Sparda, duemila anni fa, nel corso della sua opera "demiurgica", l'ha bloccato grazie al sigillo che ha posto per separare i due mondi: senza la possibilità di nutrirsi, il Qliphoth rimane inattivo.

Il nome dell'albero è di origine cabalistica, e indica forse ciò che meglio corrisponde, all'interno della tradizione esoterica ebraica, al male: Qliphoth, קליפות‎, che in ebraico è un genitivo plurale, significa gusci e designa degli strati di scorie che separano l'uomo dalla santità, da intendere come forze spirituali negative, le tentazioni, il male. Le qliphoth, contrapposte alle sephiroth, che sono invece i gradi di perfezionamento risalendo i quali l'uomo raggiunge lo stato divino, sono ciò che allontana l'uomo da Dio. Se fosse possibile disporre le qliphoth e percorrerle, probabilmente condurrebbero verso lo stato di maggior lontananza da Dio e di totale asservimento alla materia e alla bassezza. Il Qliphoth di Devil May Cry, letto in questo senso, è la scala che porta verso l'inferno, e dopo averlo percorso tutto ed essersi completamente integrato allo stato inferiore dell'esistenza, Urizen è divenuto il demone supremo, supremo perché più in basso di tutti in un universo capovolto, il cui vertice raggiunge infatti il fondo del mondo demoniaco.
Mitologicamente, il Qliphoth di Devil May Cry è il perfetto Axis Mundi, cioè l'asse al centro dell'assetto cosmologico che sostiene e collega i mondi, come Yggdrasill nella mitologia eddica e l'Albero della Vita in quella ebraica. Ai quali, naturalmente, è ispirato.
La forma di albero, che naturalmente non deriva direttamente dalle qliphoth cabalistiche, è ripresa da questi alberi mitologici, dei quali Yggdrasill è il più famoso anche a livello popolare, e con il quale il parallelismo è esplicitato da un'altra componente del gioco, la razza dei Nidhogg, che prendono il nome dal grande drago che rode eternamente una delle tre radici di Yggdrasill, tormenta i morti ed è destinato a portarli via dal cosmo dopo la fine del Ragnarök.
Fin dalle prime Missioni ci approcciamo all'unica effettiva meccanica "puzzle" di Devil May Cry 5 -insieme ai pozzi di sangue da riempire nella Missione 12, che non si trovano al di fuori di essa-, i viticci del Qliphoth che è possibile superare solo attaccando loro una delle larve di Nidhogg, che con la loro azione parassitaria le consumano fino a dissolverle. Malgrado in queste prime fasi non si palesi nessun drago, è interessante la rilettura del mostro mitologico norreno come di un parassita dell'albero del mondo -che è a sua volta un parassita di sangue.
In realtà, scopriamo alla fine della quarta missione, Nidhogg possiede un aspetto più grande e più "draconico" delle piccole e inermi larve che troviamo sparse in piccole culle demoniache: un mostro ibrido di natura arborea che emerge dalle radici del Qliphoth, costituito da un corpo da cui si sviluppano alcuni tentacoli, uno culminante nel mostro principale, mentre gli altri tre sono teste serpentine che ne seguono le indicazioni. Resta da stabilire se il mostro sia il centro dell'organismo Nidhogg, o lo stadio adulto che tutte le larve possono raggiungere dopo la maturazione, e il fatto che, anche dopo averlo sconfitto, è possibile trovare e usare una delle sue larve nella Missione 12 -ma non farlo ci garantirà un bonus extra alla fine della missione- potrebbe provare la seconda ipotesi, o essere semplicemente una piccola errore dello sviluppo del gioco. Io penso di optare per l'altra spiegazione.


Nidhogg è un demone originale del gioco, il cui bestiario contiene molte vecchie conoscenze, ma ricorda sotto molti aspetti, al punto da portarci a ipotizzare una parentela, un boss di Devil May Cry 4, la serpentiforme Echidna, anch'essa formata da un corpo da drago, un torso antropomorfo, e varie appendici di natura vegetale. Nel mondo di Devil May Cry, dove i demoni si originano spesso dai sentimenti umani e organizzare una tassonomia è impossibile e insensato, esistono legami canonici tra categorie il cui aspetto è simile, come tra i demoni della serie Sin e Death, o i Blade e i Frost; Nidhogg ed Echidna, entrambi eredi della ricca tradizione mitologica dei serpenti, potrebbero essere un altro esempio.
Inoltre, voluto o meno che sia, attraverso di loro si crea un parallelismo e una potenziale fonte di coesione della lore tra gli elementi del quarto e del quinto Devil May Cry: l'oggetto chiave per superare gli alberi demoniaci di DMC4 è un frutto chiamato "Sephirothic Fruit", ottenuto dopo aver sconfitto Echidna e proveniente dal suo stesso ventre, come fosse un uovo. La sua descrizione riporta che esso detiene il potere che lega le piante demoniache; come detto sopra, il Sephiroth è esattamente contrapposto al Qliphoth nella Cabala. Così, dai due demoni-serpente derivano dei "frutti" capaci di consumare e distruggere le radici dei due alberi demoniaci; in tal senso, il loro aspetto ofidico riporta alla mente il serpente dell'Eden, causa della caduta dell'Uomo, anche se questi dimorava non sull'Albero della Vita, ma su quello della Conoscenza.

Del ciclo vitale del Qliphoth fa parte poi una razza demoniaca che vale la pena di approfondire qui, costituendo il grosso dei nemici affrontati nel gioco, erede delle Marionette, dei Msira, dei Sette peccati capitali e degli Spaventapasseri che costituivano la carne da cannone dei quattro capitoli precedenti: le insettoidi Empuse. Indubbiamente i miei minion preferiti della saga.
Le Empuse sono demoni insettoidi, vagamente simili a delle formiche antropomorfe con solo quattro arti, il cui design, a mio modesto ma attento parere, è tra i più geniali di Devil May Cry. Ciò è soprattutto per via delle loro teste, in cui la forma tipica della testa di una formica è costituita da tre volti umanoidi dai lineamenti raccapriccianti, uno centrale che pare urlare -ricordando in ciò i Red Orb, la valuta di gioco con cui si acquistano le abilità, che a sua volta somigliano molto al Bejelit di Berserk- e due laterali che si protendono nelle mascelle dell'insetto. Questo, accompagnato dalle escrescenze sul capo, che un personaggio cinematografico popolare in questo periodo chiamerebbe "sacche scrotali", rende il loro un volto difficile da dimenticare. Soprattutto perché questo assortimento di orrore contrasta con la loro debolezza: si tratta di demoni deboli, lenti e privi di intelligenza, la cui funzione è quella di bere il sangue delle vittime del Qliphoth, per poi trasportarlo all'interno dell'albero, anzi, se non attaccati, cercheranno le fonti di sangue disponibili per poi scavare dei tunnel e allontanarsi dal combattimento.
Le varianti di Empusa presenti nel gioco svolgono differenti funzioni, e oltre a quella basilare si incontrano l'Empusa verde, volante e simile a una mosca, che trasporta al posto del sangue un nettare verde con cui cura i demoni di ogni specie, preferibilmente quelli più pericolosi, e che dopo averlo fatto si rifornisce di sangue per produrre ulteriore nettare, e l'Empusa rossa, nella quale il sangue assorbito si è cristallizzato ed è una risorsa per i Devil Hunter che colpendo il loro addome possono accumulare i Red Orb.
Come in ogni alveare che si rispetti, al comando si trova l'Empusa Regina, simile a una massiccia mantide religiosa, capace non solo di infliggere gravi danni con i suoi arti a falce, ma di afferrare e azzannare i Devil Hunter (combatterla mi ha ricordato le Aranee di Devil May Cry 3); come mostra la prima scena in cui la si incontra, l'Empusa Regina non si fa scrupoli a uccidere anche le sue stesse operaie -e in generale qualunque demone le sbarri la strada- soprattutto perché consumare il sangue che hanno assorbito le permette di entrare in uno stato potenziato, una sorta di ebbrezza. Anche quando viene sconfitta è pericolosa, perché si lascia esplodere in modo da portare con sé anche il suo uccisore.
Il nome di questa disgustosa razza di parassiti deriva dalla mitologia greca, e designa, opportunamente, dei mostri femminili ascrivibili alla macro-categoria dei vampiri. Le Empuse mitologiche costituiscono il corteo di Ecate, la dea della magia, patrona della caccia e delle potenze infere; sono simili a donne, ma possono assumere qualunque aspetto, e prediligono quelli degli animali sacri a Ecate, come il cane. Gli autori le descrivono spesso con una gamba di asina, o di bronzo, che rimane in vista anche quando l'Empusa si trasforma. Similmente ad altri esseri demoniaci femminili del folklore antico, come la Lamia, erano temute specialmente perché si credeva che, mentre scorrazzavano di notte, si introducessero nelle case per bere il sangue e divorare la carne degli abitanti. Infine, possiedono il potere del fuoco, che possono usare a proprio piacimento, grazie al quale, se uccise, provocano devastanti incendi. In questo caso, Devil May Cry non si appropria solo di un nome, come in altri casi, ma crea una razza demoniaca che corrisponde alla sua controparte mitologica in più punti, il consumo di sangue e l'infido attacco finale.


Nero e Nico

Torneremo sui mostri e l'ambientazione nel corso dei prossimi paragrafi, ma questa è più o meno la situazione di partenza, il mondo in cui i Devil Hunter devono affrontare la loro nuova battaglia in Devil May Cry 5.
L'inizio del gioco vero e proprio è con la Missione 1, ambientata il 15 giugno, ore 16:24 del pomeriggio, che si apre con una delle sequenze più spettacolari di tutta la saga: i titoli di testa. Una giostra di acrobazie in slow motion concepita per una ragione chiara, restituire a DmC il servizio che questo aveva reso a DMC. DmC: Devil May Cry, il famigerato reboot, che nelle intenzioni dichiarate voleva rendere la saga più figa in un'ottica occidentale, riuscendo bene in molti ambiti ma non esattamente in questo qui, iniziava con una scena in slow motion simile -ma non così bella, andiamo. Come se non bastasse, la scritta alla fine dei titoli di DMC5, "This game does not promote smoking or the use of cigarettes", sfotte la presenza di queste in DmC, sempre nell'ottica di dare una certa caratterizzazione al protagonista.

Le prime Missioni scorrono così, con questa coppia che un po' scoppia che attraversa una metropoli fantasma vittima di un'invasione demoniaca. Un'invasione le cui tracce più spaventose, più degli edifici in rovina, del vuoto e del silenzio (spesso e volentieri spezzati dalla comparsa dei demoni) sono i corpi pietrificati delle vittime del Qliphoth e delle Empuse, disseminati per tutti gli ambienti urbani.
Nero in Devil May Cry 5 è stato realizzato sulla base di due criteri, la somiglianza fisionomica con Vergil, dopo le conferme ufficiali del loro rapporto, e il raggiungimento del massimo della prestanza fisica. Il percorso che affronta in questo gioco è molto interessante, perché Nero non è Dante e non è neanche un nuovo protagonista alle prime armi: è la sua seconda apparizione in un episodio di Devil May Cry, e si appresta a compiere una missione importante, ben più dello sventare i piani di una sette religiosa dissennata come in DMC4; un po' come Dante, la cui prima avventura, Devil May Cry 3, lo vedeva fermare il tentativo di un altro uomo, Arkham, di possedere il potere demoniaco di Sparda. Tre volte su cinque, le trame dei Devil May Cry contrappongono gli eroi a uomini ambiziosi che organizzano folli rituali per ottenere il potere di un demone, mentre negli episodi restanti, appunto, il primo e il quinto, l'antagonista è un potentissimo sovrano demoniaco che invade la Terra. Come Dante ha fermato Mundus nel primo Devil May Cry, così Nero dovrà fermare Urizen questa volta. Ed è interessante come tra i due antagonisti sia stato tracciato un legame mediante il Qliphoth, o come ricorrano diversi demoni del primo capitolo.
Insomma, Devil May Cry 5 può essere considerato il Devil May Cry 1 di Nero. Ma, poiché le acque del fiume del tempo scorrono sempre diverse, le circostanze sono profondamente diverse, sia perché Dante ai tempi aveva qualche anno in più (la sua età è sempre stata una materia complicata, ma è chiaro che nel primo episodio è un uomo adulto) sia perché Nero si trova nell'interessante situazione di non essere l'unico Devil Hunter impegnato nel caso, e di non avere la pesante eredità di Sparda sulle sue spalle. Nero è solo Nero, non conosce le sue origini come non le conoscono gli altri, ed è libero di essere chi vuole. Anche se le vicende del suo viaggio cambieranno profondamente questa situazione.

L'esercito degli ultimi giorni

Ultima creatura da associare al Qliphoth è Gilgamesh.
Gilgamesh condivide il nome con un'arma di Devil May Cry 4, il set di guanti e gambali usato da Dante (e acquisito subito dopo l'uccisione di Echidna, proprio come Gilgamesh il demone appare dopo quella di Nidhogg, se proprio dobbiamo essere pignoli), caratterizzato dalla capacità di tramutare il materiale organico con cui entra in contatto in un metallo indistruttibile.
Finalmente, Devil May Cry 5 espande anche questo punto della lore: Gilgamesh è in realtà il nome di un metallo reperibile solo nel mondo demoniaco, dotato appunto della proprietà sopra descritta. Nel momento in cui una delle radici del Qliphoth, in continua espansione, è entrata in contatto con una lastra o un giacimento di quel metallo -ma Nico suggerisce che qualcuno abbia provocato tale unione deliberatamente- hanno provocato la nascita di questo gigantesco orrore meccanico, uno dei nemici più grandi affrontati in Devil May Cry. Richiami particolari tra l'arma, il demone e il Gilgamesh dell'epica mesopotamica non se ne vedono.
La lotta di Nero contro Gilgamesh occupa l'interezza della Missione 6, una missione che spicca in quanto inusuale per Devil May Cry, sia perché, fino al quarto capitolo, solo le missioni finali erano state costituite soltanto da una boss fight, sia perché si tratta di una boss fight in movimento, in cui Nero segue gli spostamenti di Gilgamesh, combattendolo sia a terra che salendo sul suo stesso dorso, sul modello di Shadow of the Colossus ma con uno stile più à la Horizon Zero Dawn. Opinione forse impopolare, ma mi è piaciuto molto, perché ha aggiunto qualcosa di nuovo, concentrato solo in un livello, all'interno di Devil May Cry, saga caratterizzata anche dal prendere a piene mani dalla cultura pop e inserire tutto ciò che risulti abbastanza figo da entrare. Inoltre, Nero che affronta Gilgamesh rinvia a un tipo di immaginario tipico dei film supereroistici che DMC5 ha come modello.

Al di fuori di questi demoni, le forze di Urizen sono costituite dalle numerose specie di demoni minori che compaiono nel corso del gioco, benché non sia mai certo quali siano ai suoi ordini e quali siano semplicemente comparsi in quel luogo di passaggio che è il Qliphoth per cacciare.
Spiccano, poi, due generali, come vediamo nel corso della Missione 5: un cavaliere nero e una strega con tre volti, sopra un orribile uccello. Mentre il Cavaliere Nero è un'armatura alimentata da Trish, dopo che è stata catturata da Urizen, la strega, Malphas, è interessante in quanto unico demone di statuto maggiore che troviamo agli ordini di Urizen.
Malphas è il nome di un demone classico della demonologia, sovente associato e rappresentato come corvo, ricorrente anche nei videogiochi. La Malphas di Devil May Cry appare come, appunto, tre busti di donna riuniti al centro di alcune pietre magiche, il tutto trasportato da un mostruoso demone simile a un gigantesco pulcino deforme, ed è tra le presenze più affascinanti del gioco per diverse ragioni.
La prima è che inserisce un tipo di suggestione particolare, relativo alla stregoneria e alla concezione trina della Dea, che si ricollega direttamente a Ecate, citata poco più su. Piuttosto che richiamarsi al cinema o ad altri videogiochi, il suo aspetto richiama alla memoria magia ed esoterismo.
La seconda è che in molti hanno visto in Malphas Devil May Cry che cita Bayonetta, saga che in parte ne deriva e con la quale sono stati diversi i contatti nel tempo, dove Malphas è un demone corvino che può essere evocato dalla protagonista. Anche se, osservandolo, è molto più simile al nuovo Griffon.
La cavalcatura di Malphas, dal canto suo, ricorda molto da vicino una vecchia concept art di DMC1, caro a molti appassionati, raffigurante quello che sembrava essere un cucciolo del Griffon adulto dalle caratteristiche horror, in linea con lo stile di Resident Evil. Quella bozza, come molte altre che raffiguravano demoni simili a manipolazioni genetiche, fu scartata, e riscoperta anni dopo grazie alla Devil May Cry HD Collection e agli artbook. Finalmente, anche se in formato molto diverso da quelle che dovevano essere le idee iniziali -così diverso da avermi lasciato insoddisfatto- il concept è riuscito ad arrivare nel gioco.
Dalle informazioni del gioco, sembra che inizialmente la strega e il mostro fossero due entità distinte, fuse per magia, e che questo somigli a un pulcino perché effettivamente è un pulcino, trasformato in questa forma prima di raggiungere lo stadio adulto, che sarei molto curioso di vedere.



Bibliografia

Devil May Cry: 3124 Graphic Arts, Udon Entertainment, 2015.
Devil May Cry HD Collection, Capcom, 2012.
Devil May Cry 5, Capcom, 2019.
Devil May Cry 5 - Official Art Works, KADOKAWA, 2019.
Devil May Cry 5 - Visions of V -, Tomio Ogata, LINE MANGA, 2019.
https://devilmaycry.fandom.com