giovedì 24 marzo 2016

Tolkien, signore della mitopoiesi II - Vita, morte e immortalità

Questa volta, il mio post è inteso come parte di qualcosa di più grande.
Dovete sapere che l'anno del tolkieniano, giacché i tolkieniani non sono così pochi e aumentano di anno in anno, ruota intorno ad alcune date simboliche che permettono agli appassionati/studiosi (grave è che le due cose non coincidano) di avere qualcosa da festeggiare, e di riunirsi di conseguenza.
Le date principali sono il 3 gennaio, anniversario della nascita del Professore (3 gennaio 1892) e il 25 marzo.
Questo è bello, perché il 25 marzo non fa riferimento alla vita di Tolkien o a un evento della "nostra" storia, ma ad uno della storia del legendarium (che quindi conta comunque come nostra storia, solo, in un'epoca molto remota): il 25 marzo dell'anno 3019 della Terza Era della Terra di Mezzo, mentre alle porte del Morannon e in vari altri luoghi infuriava la guerra, Frodo e Sam riescono a portare a termine la missione della distruzione dell'Unico Anello, segnando la disfatta e la distruzione di Sauron. Quel giorno, nel calendario gondoriano, avvierà il primo anno della Quarta Era.

La Tolkien Society ha stabilito nel 2003 che il 25 marzo sia il Tolkien Reading Day, dando via alla tradizione che in tale data (o comunque in tale periodo) gli appassionati si riuniscano e leggano un brano del Professore discutendo e commentando, magari accompagnando il tutto con della birra come i membri del club degli Inklings, quei luminari dell'università di Oxford che si riunivano nei pub inglesi per discutere delle loro storie e dei grandi temi dell'uomo. Furono loro i primi a conoscere le storie degliHobbit e di Narnia.
Ogni anno, inoltre, la Tolkien Society stabilisce un tema, uno spunto, per indirizzare gli interventi e i dibattiti del TRD. La scelta del tema "Vita, morte e immortalità" stabilito per quest'anno richiede una difficile selezione, perché tutto il ciclo mitico del legendarium ruota intorno alla contemplazione della morte e del desiderio di immortalità (oltre che al tema della Caduta).
La Tolkien Society, nel proporre questo spunto, ha fatto riferimento all'esperienza biografica di Tolkien, data anche la ricorrenza della Battaglia della Somme, cui il bardo inglese prese parte.
Fu nel 1917, dopo aver vissuto quella e altre grottesche esperienze in trincea, che Tolkien elaborò il primo racconto del suo ciclo, quella della caduta di Gondolin, la più illustre delle capitali elfiche del Beleriand (propaggine nord-occidentale della Terra di Mezzo, scomparsa dopo la Prima Era) presa da Orchi, Draghi e Balrog a causa di un tradimento interno. Già in questo episodio si palesa che la storia della Terra di Mezzo è la storia di una caduta, o meglio, di una serie di cadute, man mano che il male perdura e che quanto di buono esiste viene oscurato. E coloro che più di ogni altro soffrono per questo inarrestabile incedere sono gli Elfi.
L'immortalità degli Elfi ha un solo limite, e cioè che essi esisteranno finché esisterà il mondo, legati (condannati? Non è mai stata colpa loro, sono stati creati così) alla sua sorte, destinati a seguirlo quando, quale che sia il modo o la causa, esso cesserà di esistere. Fino ad allora, gli Elfi sono immortali, e non solo in termini di durata della vita: se uccisi in battaglia, contrariamente a credono i più sanno i più, essi hanno la possibilità di tornare, dopo che il loro fëa (anima), abbandonato il suo hröa (corpo) sia tornato nelle Aule di Mandos, dimensione ultraterrena simile all'Ade ma senza connotazioni negative, e quivi abbia trascorso il tempo necessario, dopo il quale, se lo desidera, potrà tornare nella Terra di Mezzo con le medesime sembianze che aveva precedentemente.
Gli Uomini hanno ricevuto un differente dono da Eru, per compensare la loro inferiorità fisica e mentale rispetto agli Elfi, il loro essere soggetti a malattia, vecchiaia e tutti quei mali che sembrano usciti dal vaso di Pandora e che gli Elfi non conoscono: la loro anima, slegata dal corpo, non è più soggetta alle sorti del mondo e si allontana da esso, verso una meta nota solo a Eru e a nessun altro. Questo dono è la morte, e forse è per questo che, sempre a proposito del vaso di Pandora, gli Uomini hanno una speranza che agli Elfi manca.
Gli uni immortali, gli altri soggetti alla morte. Un vincolo al mondo per gli Elfi, un dono fuori da esso per gli Uomini. Si può dire che i primi vivano un eterno e sicuro presente, mentre i secondi un breve attimo prima di un futuro incerto.

"The End of the Age" di Ted Nasmith
Cos'è invece la vita, in Tolkien?
Osserviamo come vivono i suoi personaggi: partendo da "Lo Hobbit" abbiamo una descrizione della vita di Bilbo, abitudinario, puntuale, "le avventure fanno fare tardi a cena", e del modo in cui essa si trasforma a partire dall'incontro con i Nani e Gandalf, che irrompono a casa sua senza mostrare alcuna osservanza delle sue abitudini da gentleman inglese. Il viaggio insieme a loro lo costringe a lavorare sodo per imparare ad adattarsi alle abitudini avventurose di Thorin e degli altri, ma rivela in lui "molto più di quanto non creda" e lo cambia per sempre. Nel "Signore degli Anelli" lo ritroviamo come una sorta di unicum, di persona bizzarra all'interno della sua comunità, perché ha sperimentato uno stile di vita completamente opposto rispetto a quello degli Hobbit. Seguendo il viaggio di Frodo e Sam, appartenenti alla stessa realtà, si evidenzia la differenza fra la comunità degli Hobbit e quelle di Uomini, Elfi e Nani, la prima statica (immagine della società moderna in cui vive l'autore), le altre invece molto più dinamiche; gli Uomini viaggiano da un regno all'altro per prendere parte alla guerra, gli Elfi passano da Granburrone a Lothlórien per visitare i propri cari, e sappiamo della spedizione nanica guidata da Balin per recuperare Moria, o delle battaglie affrontate dal popolo di Erebor (restaurato nella Montagna Solitaria dopo la Battaglia dei Cinque Eserciti) e dagli Uomini della Valle contro le forze di Sauron negli stessi giorni della battaglia dei campi del Pelennor e di quella del Morannon.
Non parliamo poi dei personaggi del "Silmarillion", perché dalla fuga dei Noldor da Valinor alla Terra di Mezzo per recuperare i Silmaril rubati da Morgoth, dall'inizio, dunque, della Guerra del Beleriand, gli Elfi si spostano continuamente da una parte all'altra per fondare regni, combattere battaglie e superare prove. Beren, Túrin, Eärendil, la storia di ognuno di questi eroi è legata a una lunga serie di viaggi, soprattutto ricerche (dei Silmaril per Beren, della madre e della sorella per Túrin, dell'aiuto dei Valar per Eärendil). Il tema della cerca (quest in inglese), lo stesso de Lo Hobbit, lo stesso di ISdA, è chiaramente di ispirazione medievale, deriva dalla cerca del Graal e dai numerosi viaggi compiuti dagli eroi dei testi che Tolkien conosceva così bene.

Non è solo la cerca a determinare i movimenti di questi personaggi, è la loro stessa natura: di Fëanor (leader dei Noldor, colui che crea i Silmaril e che trascina con sé gli altri Noldor nel viaggio per recuperarli dopo il loro furto) è chiarita fin dal principio l'indole temeraria, il fuoco che gli brucia dentro, così ardente da consumare il suo corpo dopo la sua morte; per quanto pigro e inizialmente pavido, anche Bilbo ha in sé un'inclinazione al viaggio e alla scoperta, che trasmette a Frodo insieme alla sua passione per le leggende e le grandi cose che avvengono intorno alla Contea; anche Frodo è di conseguenza inquieto, desideroso di muoversi e di fare (per quanto non certo fino al punto di affacciarsi nel cratere di Monte Fato). Dopo la Caduta di Sauron, che ricordiamo in questa ricorrenza, e dopo il ritorno a casa, il viaggio di Frodo non finisce, e così, su una nave elfica in partenza dai Porti Grigi, esso continua verso l'assoluto, verso Valinor. In chiave romantica, giacché vedo Tolkien come un neoromantico, servitore di quelle forze epiche e medievali rifiorite nella letteratura ottocentesca e poi nuovamente "passate di moda" fino al suo arrivo, Frodo e tutti gli eroi che ho nominato sono spinti dalla passione, dal sentimento, dal Sehnsucht, sicché la vita non è per loro il conseguimento di una meta, un cammino che parte da un punto e termina in un altro, ma un continuo superamento, una ricerca, come dicevo, finalizzata però non al ritrovamento di un oggetto ma all'atto stesso del cercare. E quando arriva la morte, e il tempo in questa terra così bella giunge al termine, il viaggio continua oltre il mondo e oltre le strade, "verso l'incrocio con una più larga", mentre per gli Elfi, che nella mia mente assocerò per sempre all'immagine delle navi bianche che lasciano la Terra di Mezzo nel tramonto, la vita è soprattutto una comunione con l'assoluto, cioè Valinor e i suoi abitanti, e per quanto infinita e in qualche modo sempre simile a sé stessa, essa è anche una forma di beatitudine.
Con la sua opera, Tolkien ci parla della vita attraverso la morte e della morte attraverso la vita, perché è l'una a dare senso all'altra, e quei personaggi che sembrano non essere destinati alla morte ci portano a interrogarci sul suo valore. La storia di Númenor e del suo popolo, Uomini benedetti di una vita lunga e florida ma incapaci di beneficiarne al pensiero degli Elfi immortali, e di quel destino di morte lontano ma in ogni caso inevitabile, ci insegna che la morte non è una minaccia o una punizione, serve a dare un valore alla vita ed è anche il modo in cui poniamo nei suoi confronti che ci rende chi siamo. Tolkien parlò sempre di una dimensione, quella evangelica, alla base di tutte le narrazioni secondarie perché punto di incontro fra storia e leggenda: qui, l'Assoluto che sceglie di morire come un uomo, compiendo la rinuncia estrema per conseguire la più alta gloria e il più alto bene, vincola nella maniera più perfetta la vita e la morte e ci rivela la Verità, aprendoci le porte verso un'immortalità, le stesse che il Professore ci ha rinarrato tessendo una storia a immagine di quella.

Familiare, vero? "Grey Havens" di Alan Lee, principale conceptual designer dei film di ISdA insieme a John Howe.

giovedì 17 marzo 2016

I mondi del Corvo

Era da tempo che pensavo di parlare di "The Crow", Il corvo (1994).
Èil film che vedo regolarmente ogni anno, pensando ogni volta, dopo aver finito, che lo rivedrei immediatamente; so buona parte dei dialoghi a memoria, lo cito anche senza accorgermene, mi commuovo nel rievocarne le parti più emotivamente intense.
Accanto al film, devo parlare del fumetto dal quale è tratto, "The Crow"(1988-1989) di James O'Barr. Per quanto il mio personaggio fumettistico preferito sia Ghost Rider, Il corvo è quello che considero, per svariati motivi, il fumetto migliore che abbia mai letto. Il corvo è una creazione artistica composita che esula dai limiti del fumetto, con i capitoli alternati da brani dei poeti maledetti francesi o testi dei classici del gothic rock. Il fumetto stesso è anche un omaggio alla cultura decadente, al languore, alla melanconia, ad una prospettiva poetica verso il mondo dei morti.
Ma ancora più interessante sarà parlare della storia di Eric e Shelly confrontandola con quella scritta oltre un secolo prima da Edgar Allan Poe nel suo celebre poemetto "The Raven" (1845).
La traduzione di entrambi i titoli in italiano come "Il corvo", e la confusione che questa comporta, certamente favorisce un confronto di questo tipo. Perché istintivamente, senza riflettere, viene da dire "no, il film è ispirato al fumetto, e fumetto e poesia hanno oggetti diversi".
È davvero così?

Non sono forse entrambe storie di perdita, squarci nella vita di due uomini colti nel dolore della mancanza della donna che amano?
Occorre fare una premessa: molto diverse sono le origini delle due opere d'arte, poesia e fumetto. La prima ha una finalità squisitamente letteraria, e, come scrive Poe nel suo saggio "Filosofia della composizione", ha assunto la forma che noi leggiamo per rispondere a una ricerca metrica e poetica originale e in grado di ottenere il favore della critica e dei lettori; il secondo, l'autore ne ha parlato più volte, deriva da un'esperienza biografia drammatica -la morte della sua fidanzata in un incidente stradale, per la quale si è sempre sentito responsabile- e dal senso di colpa che ne è scaturito, cresciuto, come un'infezione, finché l'artista gli ha dato forma attraverso l'inchiostro e la carta, per gettare in faccia al mondo la crudeltà di cui era stato vittima.

Perché, dunque, con premesse diverse, sono nate due storie così vicine tra loro ad un livello molto più profondo della sola presenza di un uccello?
Certamente, l'intenso sapore romantico delle due è un punto dal quale partire: "The Raven" vive il Romanticismo vero, storico, risponde al gusto dell'epoca per la malinconia, l'oscurità, la tensione verso la dimensione ultraterrena e lo stretto binomio di amore e morte; "The Crow" si sposa con il movimento gothic degli anni 80 (quello che in Italia si usa chiamare genericamente "dark"), le band gothic rock, il noir...tutte quante derivazioni del gusto ottocentesco creato anche da Poe. Il Romanticismo, perlomeno nella mia visione delle arti e della loro storia, è straordinario proprio perché ha recuperato una componente fondamentale del mondo e del pensiero, la metà oscura delle arti e della ragione, l'ha rivelata attraverso una luce nuova -manifestazioni come il romanzo gotico, la poesia cimiteriale, l'imitazione delle ballate medievali- e ha fatto sì che rimanesse impiantata nella coscienza dell'uomo moderno, evolvendosi con lui attraverso le nuove espressioni artistiche. Ma il romanticismo di "The Crow" non è solo questo, perché le citazioni sono di Baudelaire, Rimbaud, poeti che vivono la dimensione decadente che di quel romanticismo è figlia.

Il mondo dei due uomini è in corso di deperimento -l'idea del decadentismo è questa- e la causa di ciò è la morte di due donne, Lenore per il protagonista poeiano, Shelly per Eric. Non sappiamo cosa sia successo a Lenore, mentre la storia di Shelly ed Eric è nota al pubblico in due versioni, quella del fumetto (i due hanno un guasto durante un viaggio in macchina, e mentre sono bloccati si avvicina drammaticamente la macchina della gang di T-Bird, i cui uomini uccidono Eric e stuprano Shelly, che muore in ospedale) e quella del film (i malviventi si dirigono a casa dei due per intimidirla a causa di una campagna di attivismo, la stuprano e gettano Eric dalla finestra dopo avergli sparato; lei muore in ospedale).
È dunque chiaro che Eric, tornato in vita attraverso il corvo per vendicarsi dei suoi aguzzini, sia una presenza sovrannaturale distinta dal protagonista di The raven, un uomo normale, almeno per quanto ne sappiamo. Non per questo i due non possono essere messi a confronto: per quanto vivo, Eric è comunque un morto, non per il fatto di aver varcato la soglia, essersi perlomeno affacciato alle porte dell'aldilà, ma perché si ritrova a camminare sulla terra senza Shelly. E questa mancanza lo divora, lo tormenta, gran parte del fumetto è costituita da flashback, rievocazioni strazianti di quanto fosse felice la vita con lei. Una componente presente anche nel film, ma che non rende allo stesso modo per motivi di tempo (e dei problemi che ebbe la sua realizzazione dopo la morte di Brandon Lee).
I due eroi sono malinconici, si è capito. Il primo, figura intellettuale, si rifugia in "testi di un sapere ormai sconosciuto", il secondo, variazione del tema del supereroe, ha un obiettivo preciso, uccidere i colpevoli di quello che è successo, ed un fine, tornare nell'aldilà con Shelly. Per quanto "The Crow" sia violento e diretto, trasmette un'idea di speranza: Eric è già stato nell'altro mondo e sa che appena vi sarà tornato potrà rimanere con Shelly per sempre. Non parliamo poi del film, la cui frase più celebre è "non può piovere per sempre". Nulla del genere viene detto per il protagonista della poesia, nessuna risposta viene proferita dal corvo alle sue domande su Lenore e il mondo ultraterreno, se non un laconico "mai più".

Parliamo ora del corvo.
Perché Poe sceglie il corvo?
Per trovare un pretesto che gli permetta la ripetizione del ritornello alla fine di ogni strofa. Una voce che ripeta di continuo "nevermore", che non può essere quella di un uomo, e che per questo il poeta ha affidato ad un animale, un animale perfettamente inserito nel contesto sinistro della poesia.
Perché O'Barr sceglie il corvo?
Perché sa bene che il corvo è il simbolo più adatto a rappresentare il mondo dei morti. Il corvo ha un ruolo di spicco in tutte o quasi le mitologie del mondo, spesso con il ruolo di psicopompo, agente deputato a trasportare le anime nel mondo dei morti.
Non credo sia possibile definire un comune corvo quello della poesia: è descritto in termini di nobiltà, fierezza e grande antichità, e d'altra parte i suoi occhi "ardono", come quelli di Caronte. Il poeta suggerisce la possibilità che, nella sua tristezza e nel crescendo della follia che lo porta a rivolgersi all'uccello, il suo protagonista lo investa di attributi che non sono suoi, ma non esclude che esso sia davvero uno spirito celeste o demoniaco in forma di animale. L'importante è la sua funzione: esso mette in luce i sentimenti dell'uomo, perché nel momento in cui questi comprende che il corvo ripeterà sempre la stessa parola, e gli pone domande estremamente importanti, su Lenore, sull'esistenza o meno di qualche gioia al mondo, per sentirsi rispondere in maniera negativa e pessimistica, appare chiaro che quell'uomo desidera causare a se stesso sofferenza ("di’ al meschino che t’implora,/
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!
", vv. 88-89, "di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù,/ potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!/ Una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!" vv. 93-95).
La sofferenza è un crescendo sempre maggiore, come il tono delle domande, che culminano con la caduta dell'uomo stremato dal dolore. Lo stesso autore, nel già citato saggio, parla di un piacere consapevole, una ricerca cosciente del dolore.
E non posso fare a meno di notare come anche Eric, nel fumetto di O'Barr, procuri dolore a se stesso sia fisicamente (tagli sulle braccia) che psicologicamente (rievocando in continuazione Shelly e i ricordi con lei).
Il corvo di "The Crow" instaura un rapporto più articolato con l'umano, ma ha anch'esso la caratteristica di ripetere una frase: nelle visioni, in prossimità degli eventi più drammatici, Eric sente sempre il corvo intimargli "Non guardare". Il primo momento in cui ciò accade è particolarmente rilevante, perché è il momento del primo incontro col cosiddetto Skull Cowboy, figura enigmatica dall'aspetto di uno scheletro vestito da cowboy che appare in poche occasioni, e in qualche modo rappresenta la morte, o quantomeno la condizione di morto vivente di Eric. Sarebbe dovuto comparire anche nel film, ma fra i cambiamenti che seguirono la morte di Brandon Lee vi fu anche la rimozione di questa scena.


Poco sappiamo sul lato mitologico di questo ritorno dalla morte: nel fumetto non viene detto nulla, Eric è tornato, deve compiere quello che deve, e il corvo lo monitora, come per ricordarglielo. Nel film, viene detto in maniera essenziale, facendo riferimento a un sistema di credenze non meglio specificato, che il corvo riporta indietro le anime trapassate in seguito a eventi particolarmente drammatici, per dare loro la possibilità di "rimettere a posto le cose".
In qualche modo, è il sublime ciclo di illustrazioni di Gustave Doré che completa questo quadro di racconti su corvi ultraterreni: le 25 xilografie che accompagnano "The Raven", da alcuni considerate il capolavoro di questo grande artista romantico, scandiscono e dilatano un componimento in realtà assai breve, e immergono la storia in un'ulteriore dimensione onirica in cui, mentre il bizzarro incontro fra l'uomo e il corvo ha luogo, angeli ed anime evanescenti si muovono sullo sfondo, oltre le porte, intorno alle finestre. Altre illustrazioni invece si allontanano, colgono la natura, visioni di luoghi selvatici illuminati dalla luna piena, conferendo una dimensione più vasta, quasi epica, alla narrazione. Di tanto in tanto, l'anima di Lenore, sempre invocata, appare nella stanza dell'eroe poeano, sfuggente, perché è un ricordo.
Infine, e soprattutto, domina, accennata da simboli occasionali, la Morte, che in una delle incisioni, la più maestosa, campeggia sul mondo, macabra parodia della Speranza dipinta da George Frederic Watts e soprattutto risposta lampante ad ogni domanda: queste storie, con le loro differenze e somiglianze, sono storie di morte, la morte che condiziona la vita, che agita l'uomo sicuro e insicuro al contempo nella propria mortalità, e che non sarà mai pago di interrogare se stesso, la natura, e quell'arte che fra lui e la natura getta un fragile ponte, sul perché della morte. "The Raven" e "The Crow" sono storie di morte e del lutto vissuto dai vivi, sul sentimento che lega i due mondi, sulla Bellezza che in qualche modo la poesia riesce a trarre dalla morte, e sulla forza di quelle pulsioni intime ed oscure legate all'anima, ai rapporti fra le persone, e alla contemplazione di un mondo che cerchiamo di tenere lontano, ma che continua a reclamarci.


giovedì 3 marzo 2016

Senso unico verso l'inferno di metallo

Una riflessione di qualche settimana fa mi ha portato ad elaborare un pensiero. Nulla di rivoluzionario, giusto una nuova metafora per rappresentare qualcosa che conosciamo tutti.
Editato il 4 maggio 2017: quella riflessione non si è consumato nell'arco di poco tempo, superata da un pensiero differente. Mi è rimasta ed è divenuta parte della mia "visione poetica". Nell'aggiornare il post, l'ho modificato pesantemente, facendolo diventare, da un piccolo spunto da raccontare a qualche amico al bar, una provocazione vissuta e sentita.
Inoltre, come si vedrà, o almeno mi auguro, questo è la premessa ad un post successivo.

Potrei introdurre l'oggetto di questo discorso come "il tempo", anche se non è esattamente quello.
Il senso del tempo che possediamo noi è diverso rispetto alla concezione degli antichi, e all'idea di un ciclo si è sostituita, grazie a molteplici fattori, tra cui la rivoluzione culturale avvenuta col Cristianesimo, quella di un percorso lineare che procede da un punto ad un altro, con idealmente un inizio (la creazione) e una fine (Giudizio Universale, fine del mondo), o perlomeno un inizio netto e un procedere di cui non si conosce l'esito, ma che si sa che non tornerà indietro. È così che oggi percepiamo il tempo, o almeno, la maggior parte di noi.
Certamente, in millenni di storia umana, senza contare i milioni di anni prima dell'uomo, e lasciando stare gli eoni di Cthulhu e degli Dei Esterni, noi e il mondo abbiamo vissuto molti cambiamenti. La storia è un progressivo acquisto, un aumento, soggetto a volte a delle perdite che sono ugualmente elementi in più, valori negativi da non sottrarre, ma riportare tra parentesi accanto agli altri, in ordine.
Non che io intenda dire che la storia procede sempre verso il meglio. E veniamo al punto.
L'idea mi è venuta mentre riflettevo su quanto io disprezzi questa epoca. Che è una riflessione abbastanza ricorrente, e di certo il mio disprezzo non si placa quando non ci rifletto sopra, ma in tal frangente ho concepito la metafora che è l'oggetto di questo post.
Mi auguro che nessuno sia così ingenuo da proiettarmi addosso la propria ingenuità e rinfacciarmi le difficoltà di ogni epoca del mondo, per far risaltare i vantaggi che ha il secolo corrente rispetto a quelli già corsi. Perché grazie, fin lì ci ero già arrivato.
Quanto di buono possediamo non dovrebbe farci dimenticare l'altra faccia della medaglia: una società fredda e spersonalizzata, sistemi -non solo di produzione, ma anche sociali- enormi e senza un volto che schiacciano le persone cui dovrebbero garantire una vita felice con la consistenza umidiccia del loro tocco asettico e sintetico. Se metà di questi termini sanno di frase fatta, è proprio perché la stessa impressione ce l'abbiamo in tanti, masse insofferenti al terzo millennio -e al fatto stesso di dover costituire delle masse, anche quando involontariamente- così numerose da poter forse reagire alla macchina, ma troppo legati ad essa per farlo. Dulcis in fundo, il contemporaneo proliferare del fantastico nelle arti è dovuto proprio alla repulsione per questo mondo, alla volontà di evasione -quella che per Tolkien va intesa non come la diserzione del soldato, ma il bisogno di libertà del carcerato-, che dà voce a un sentimento di nostalgia per tempi puri, di bisogno di far parte per sé stessi e attuare il proprio eroismo cambiando ciò che non si vuole più, e anche un altro sentimento, meno nobile e più pericoloso: l'idea che il mondo sia ormai troppo marcio per sanarlo. Un processo di putrefazione allo stadio più avanzato, cui si assiste col senso di colpa di chi è stato accanto al cadavere senza intervenire. Del resto, come vedremo, probabilmente non sarebbe stato neanche possibile.
Tendenzialmente, queste storie di fantasia, frutto di certi processi culturali avvenuti nella storia che non è il caso di ripercorrere adesso, ruotano intorno all'idea che abbiamo del passato. Sempre il passato è parso migliore del presente a chi lo guardasse come passato; indipendentemente dal parere di chi lo guardasse come presente, sia chiaro. Andando a ritroso, fra romantici che rimpiangono il Medioevo e umanisti che rimpiangono l'Antichità, troviamo gli antichi che parlano e scrivono dell'Età dell'oro, quando il mondo non solo era migliore, ma perfetto, senza che servissero il lavoro o il dolore per ottenere anche i beni più immediati.
Le fantasie sul passato, in particolare, ruotano intorno all'idea che noi abbiamo della natura. Perché anche in un'epoca così industrializzata e "civilizzata" ("quella che si suole chiamare civiltà", direbbe Tolkien), e forse ancora di più proprio per via dell'industria e della "civiltà", sentiamo di non essere nati così, ma di provenire dalla stessa dimensione da cui provengono tutti gli altri animali, di seguire regole scritte nel nostro DNA, la legge dell'istinto, più forte di quelle regole che abbiamo dato a noi stessi a posteriori, quelle con cui vorremmo soffocare quella parte della nostra natura che non ci piace. Probabilmente, le civiltà più antiche sono nate da gruppi che concordavano di liberarsi di alcune delle loro usanze primitive; in merito a questo, comunque, non competo.

Lucas Cranach - Paradiso

La forma che si è radicata meglio e di più nell'immaginario collettivo è quella dell'Eden. La descrizione che il Genesi ci fornisce del giardino dell'Eden non fa menzione di dettagli fiabeschi come alberi che offrono spontaneamente i loro frutti e cibo che sbuca dal terreno, e per questo ci risulta più credibile: sappiamo semplicemente di un mondo primordiale immerso nel verde in cui gli esseri viventi convivono pacificamente e nulla turba l'ordine naturale. In effetti, a meno di eventuali invasioni aliene e saltando qualche estinzione di massa, è così che doveva essere la Terra fino a due milioni di anni fa. Lo stato degli esseri viventi nella natura, certamente, è lontano da quella e da altre immagini di armonia, ed è molto più crudele di quanto si tenda a pensare.
Almeno, non ha mai avuto la pretesa di fingersi qualcosa di diverso da quello che è veramente.
Veniamo a noi, a quella specie animale che nel Genesi spicca rispetto alle altre già al momento della creazione, pur senza essere a conoscenza di tutte le sue potenzialità: fino a quando Adamo ed Eva compiono il loro atto di disobbedienza, si trovano in un rapporto privilegiato con Dio, e possono interloquire con lui in maniera più "diretta" rispetto agli uomini delle epoche successive; poiché nel suo stato naturale l'Uomo era vicino a Dio/Assoluto/Infinito/Totalmente altro, fisseremo, senza per questo sfociare nel panteismo, il punto di inizio del percorso lineare del tempo in questo Dio-natura.
Poi vi è stata una lunga serie di eventi che Tolkien, nelle analogie del suo legendarium con la storia del "nostro mondo", chiama "cadute"(la stessa immagine, che compare in tutti i miti del mondo, avrei potuto trarla da altre fonti, ma probabilmente l'accezione della caduta che ha Tolkien è la più vicina alla mia): l'Uomo, mela o non mela, s'è distinto in modo assoluto dalle altre specie, ed ha cominciato a scoprire, inventare, costruire, raccogliere la sua esperienza per andare sempre meglio. Basti considerare l'apocrifo Libro di Enoch, con la storia degli angeli caduti che insegnano agli uomini la tecnologia e le conoscenze "magiche" e vengono puniti, senza volersi appellare al più celebre Prometeo. per rendersi conto del fatto che, comunque la si ponga, dal punto di vista della natura, del divino, di Dio con i suoi angeli, di Zeus, di tutti quelli che esistevano prima dell'Uomo, queste innovazioni sono più negative che positive. Il motivo più evidente è che tutto questo allontana la specie umana dalle altre, la pone in una posizione di vantaggio e di dominio assoluto, un dominio tale da potersi evolvere ancora, culminare nella possibilità di modificare lo stesso pianeta in cui vive. Magari c'è anche un motivo meno evidente, Dio e Zeus avranno saputo anche che giunti a quello stadio gli uomini li avrebbero abbandonati, e avranno cercato di fermarlo per non restare da soli, cosa che fanno diversi genitori.
La cosa, comunque la si metta, è accaduta.
A questo punto, procedendo nel nostro percorso partito dal punto appena esaminato, saremo probabilmente curiosi di sapere se ci sia un punto d'arrivo. Il senso del mio discorso è aver speculato sulla sua esistenza e avergli trovato un aspetto e un nome.
Mentre ci pensavo, avevo in mente i quadri di H.R. Giger (1940 - 2014) pittore e scultore svizzero. Visionario, geniale, spaventoso nel suo stile caratteristico che fonde il naturale, il meccanico e l'erotico, Giger è uno dei miei artisti preferiti, e riunendo i suoi quadri si potrebbe formare un mosaico, forse metaforico, forse iperrealistico, di quello verso cui stiamo andando.


Giger ha affermato che, benché i suoi quadri possano anche essere interpretati come futuristici, lui dipingeva ciò che vedeva intorno a sé, nel presente, quindi usarli per parlare del futuro significherebbe voler dare alla sua arte un significato a posteriori. Ma se le basi del futuro sono nel presente, lo specchio datogli da quest'arte si presterà anche per parlare del futuro. Magari aveva una vista solo un po' più acuta.
Questo è quello che vedeva, in ogni caso: dimensioni oniriche ma iperdettagliate, fatte di cavi, placche, percorsi articolati, dove tutto è metallico, sofisticato tanto da non sembrare nemmeno umano, e spaventoso. Non solo per i volti enigmatici, le forme innaturali, i corpi ibridi dei biomeccanoidi, gli esseri che ha inventato Giger, biologici e meccanici contemporaneamente (uno dei quali, attraverso un lavoro ulteriore, è divenuto quello che noi chiamiamo Alien), ma proprio perché l'idea di un mondo così inquieta profondamente. O almeno, inquieta alcuni di noi: non ho certo la pretesa di dire che nessuno possa trovarli affascinanti, funzionali, belli, migliori del bello convenzionale.
Non posso fare a meno di chiedermi se non siamo anche noi, in parte, dei biomeccanoidi.
Abbiamo sviluppato tecniche che ci permettono di essere più efficienti in quello che facciamo, ne abbiamo sviluppate per non dover più svolgere alcune di queste cose, in modo da poterci dedicare ad altre cui poi in realtà non ci dedichiamo, abbiamo trasformato l'ambiente in cui vivevamo (disinteressandoci di quello che accadeva all'ambiente stesso e a tutti gli esseri che ci vivevano) perché fosse più adatto alle nostre esigenze. Ma se è stato per meglio, perché a me sembra che stiamo così male? Forse perché siamo stati trasformati dalle cose che abbiamo creato, fino a divenire cose a nostra volta? Forse perché dopo esserci allontanati dal mondo da cui provenivamo abbiamo avuto il coraggio di voltarci e strappargli le viscere per nutrircene, professando il credo che nulla valga quanto la vita umana? Perché, siamo onesti almeno intellettualmente e ammettiamolo una buona volta, quando si sente dire in giro che la tecnologia non è più mezzo ma fine, e fine principale, non è retorica o passatismo, ma disgustosa verità. Prima c'erano solo ricchezza, successo, potere, cose da fumetto, ma davanti all'aiuto della Macchina, che aumenta vertiginosamente le potenzialità umane, anche queste ambizioni sono divenute accessorie.
L'ultimo stadio un mondo dove qualsiasi aspetto della nostra esistenza sarà stato meccanizzato, industrializzato, prodotto in serie, conformandosi alla costituzione di qualcosa di opposto a Dio-natura, un anti-Dio, è quasi arrivato. Presto o tardi assumeremo le sue sembianze.
Il nome di questo stato è Diavolo-macchina. Il punto d'arrivo del mio discorso sul tempo è un inferno di metallo.


Fuor di metafora, non penso che ci sarà veramente uno stadio terminale.
L'umanità continuerà sulla sua strada, sperimentando nuove soluzioni. C'è sempre la stessa volontà, che c'era anche per gli antichi: non morire. Le risposte delle religioni hanno dissetato quel bisogno per un po', ma sono troppo astratte, richiedono troppo sforzo e non danno prova che quella fede sia ben riposta, un motivo per impegnarsi. La scienza, invece, prima o poi troverà un modo.
L'uomo troverà il modo per non morire, e non morendo non avrà limiti. Nulla per cui si possa effettivamente parlare di uomo. A quel punto, quell'intelligenza artificiale, solo in parte sempre minore legata a una componente biologica, si potrà chiamare demone. Ai demoni però non piace pensare che ci sia qualcosa al di sopra di loro: ed essi chiameranno sé stessi dèi.
Ottimisticamente (poiché il progresso è anche ottimismo) estenderanno le loro attività all'intero universo. E a quel punto snatureranno anche lui. Forse lo pervertiranno per rendere il loro gioco eterno, ma preferirei che l'universo morisse con dignità, trascinandoli, se possibile, via con sé.
Ma la cosa peggiore è che mi sembra quasi che fossimo destinati a questo. Che questo processo sia iniziato il primo giorno del primo uomo sulla Terra, in misura quasi insignificante, e che nel corso dei millenni sia divenuto sempre più intenso. E che non possiamo farci niente: non possiamo interrompere qualcosa che è avanzata così tanto, qualcosa di così importante, soprattutto, qualcosa che non poteva non accadere. Se penso alla storia della mela e del serpente, la vedo come una prova non superata, che significa che abbiamo avuto una possibilità di evitare questo destino, e l'abbiamo persa. Ma sono più propenso a credere che sia stato solo un pretesto: eravamo fatti in modo da compiere quella scelta sin dall'inizio. La strada verso l'inferno di metallo è a senso unico. Quindi possiamo solo sperare che il mondo abbia presto fine e la degenerazione non prosegua, o che un evento cosmico assurdo, o magico, o magari un'invasione aliena, dia una svolta inattesa al processo.
Oppure, è questa la cosa più difficile, che l'umanità intera, giunta in possesso di una forza di volontà e di una solidarietà cui ha sempre aspirato, ma che finora non ha mai posseduto, maturi la responsabilità che serve per fermare la deriva, per imporsi sulle proprie creazioni, per riprendere consapevolezza di sé e di un fine più alto, e impari ad adoperare le proprie risorse nel modo giusto.
Confido nell'evento cosmico.

Necronom IV.
Il demone di Giger.
 Questo post è stato scritto grazie all'atmosfera creata, oltre che dalle illustrazioni, dall'album Melana Chasmata dei Triptykon -scelto principalmente per il legame fra questa band e Giger, che è autore delle copertine degli album- di cui è molto consigliato l'ascolto.
Triptykon - Melana Chasmata