giovedì 23 febbraio 2017

Anime di mostri: La caccia selvaggia, le origini

Buonasera e benvenuto. Siedi o resta in piedi, se preferisci, bevi qualcosa se ti può essere d'aiuto, dopodiché prestami tutta la tua attenzione, e io ti prometto che alla fine troverai d'aver fatto bene a concedermela.
La storia che ti racconterò oggi desideravo raccontartela da molto tempo: insieme a poche altre, alcune già narrate, alcune che attendono ancora, è una di quelle che anni fa, per quanto si erano legate a me, desiderai poter divulgare al punto tale da creare questo sito per farlo. E da allora, col crescere di questo e il suo proseguimento, ho messo appunto un metodo, un metodo per il quale, se inizialmente questi post si basavano solo su conoscenze già acquisite, adesso essi si costituiscono su uno studio e un approfondimento che mi tengono con loro per molto tempo.
È dunque così, non certo al termine, ma dopo una breve, iniziale, fruttuosa, parte di questo studio, che oggi ti racconterò che cos'è la caccia selvaggia. Forse l'hai sentita, nel suo tempestoso scorrere attraverso il cielo, o l'hai scorta, in una silente marcia tra gli alberi e le radure, o forse ancora di lei ti ha parlato qualcuno che ha avuto tale fortuna -che in realtà, più probabilmente, è una sventura. Più probabilmente, non sai che cosa sia. Dunque accetta il mio invito, prenditi del tempo, perché le storie importanti ne richiedono sempre un po', e ascolta questa storia di dèi, di uomini e di mostri.

Åsgårdsreien, di Peter Nicolai Arbo, 1872.
È sicuramente la più iconica rappresentazione della caccia selvaggia.


La Caccia selvaggia è la visione di anime che, in determinati momenti e per determinate ragioni, si muovono a cavallo o errano accompagnate da animali da caccia nel mondo dei mortali, sia sulla terra che attraverso il cielo. Questa varrà come definizione generale applicabile alla maggior parte dei casi, non a tutti, ma si tratta di un tòpos riconoscibile anche quando non si svolge in queste modalità: i due esempi più noti nella letteratura italiana sfuggono a questa definizione, poiché nel primo, la Commedia di Dante, si tratta di cani da caccia che inseguono i dannati all'Inferno, e nel secondo, il Decameron di Boccaccio, si tratta di un'anima che ne caccia un'altra. Varrà dunque in questa sede ciò che si è detto sulla Danza Macabra, riprendendo la frase di Aristotele sul tempo citata da Pietro Vigo nel saggio di cui mi sono avvalso: "so che cos'è se non me lo chiedete".
Un buon punto di partenza sarà dire che la caccia è presenta nel folklore di tutta l'Europa occidentale, e la sua origine antichissima, insieme al fatto che miti attinenti li ritroviamo in luoghi e popolazioni turche e altaiche, permette di ipotizzare che delle radici fossero già presenti nel folklore indoeuropeo. In Francia, la caccia è conosciuta come Chasse infernale, Chasse furieuse, Mesnie furieuse, e anche Chasse Arthur e Chasse Gallery; in Germania come Wilde Jagd, Wildes Heer, Wutischend Heer, Wutendes Heer; il suo nome inglese è Wild Hunt, mentre in Scozia è Sluagh, in Svizzera si parla di Struggele selvaggia, e in Spagna di Exercito antiguo; in Italia è la Caccia infernale o Caccia del Diavolo, nonché Caccia morta nel lombardo, Corteo dla Berta o Càsa d'i canètt in Piemonte, Cazza selvadega in Trentino, Ciaza Mata in Val di Non, Kasa selvadega in Valsassina. In Norvegia è Oskoreia e Asgardreia.

"Wodan's Wild Hunt" di Friedrich Wilhelm Heine, 1882
Quando Jacob Grimm e i suoi successori iniziarono lo studio delle origini dei miti germanici partirono dal legame tra la caccia e il dio Odino, in merito al quale ho accennato in questo post; dopo aver consultato un po' di materiale, che indicherò nella bibliografia di questo post (esatto, questo è il primo post dell'Anima ad avere una bibliografia), ritengo necessario rettificare: Odino è uno dei molti fattori connessi fra loro e a causa delle moltissime varianti del mito, derivanti a sua volta da elementi più antichi. La sfera mitologica si lega a quella religiosa e a quella sociale, e tutte le ipotesi sulle origini del mito contengono una parte di verità.
Odino, oltre che figura centrale del pantheon germanico e scandinavo, viene associato ad alcuni degli ambiti più importanti della società dei popoli che lo adoravano, sia la guerra, in merito alla quale si credeva che scegliesse egli stesso coloro che sarebbero caduti, per poi chiamarli a sé, condotti dalle Valchirie, e farne i suoi guerrieri scelti, Einherjar, alla testa dei quali cavalca, montando il destriero nero a otto zampe, Sleipnir, nelle dodici notti  motivo per il quale gli sono riferiti gli epiteti di "padre dei prescelti,"padre dei caduti" e altre varianti sul tema; che lo stato dell'estasi, di trance, di sublimazione e di ispirazione, motivo per il quale egli è anche il dio della poesia, ma soprattutto, in relazione all'argomento in questione, motivo che lo lega a una lunga tradizione di culti e pratiche sciamaniche incentrate sul concetto dell'anima che si muove indipendetemente dal corpo. Il legame tra il culto di Odino e lo sciamanesimo è qualcosa cui sono stato introdotto mentre mi documentavo per scrivere il post sull'elegia anglosassone "The Wanderer", e con cui adesso mi sono trovato nuovamente a rapportarmi.

A questo si aggiunge un altro elemento, presentato in una tesi di Otto Höfler, riguardante un nucleo culturale e sociale presente all'origine del mito, la sua derivazione da culti estatici e rituali su cui si costituiva l'aristocrazia guerriera degli antichi popoli germanici.
Non bisogna poi dimenticare che, presso molte culture, il culto dei morti attesta un sentimento di reciprocità, per il quale si crede che essi continuino ad operare come numi tutelari presso i vivi; lo dimostrano i culti dei Lari e dei Penati presso i Romani, lo dimostra il concetto di fravashi nello zoroastrismo, spirito affidato a una persona per proteggerla e regolarne le sorti immortali, e lo dimostra una variante della caccia presente nel folklore spagnolo, la "società dell'osso" (traduzione mia dal francese "Société de l'Os" presente nel materiale da cui ho attinto), che secondo le storie porterebbe fertilità e buoni auspici.
In molte versioni ascrivibili al tòpos della caccia, le leggende parlano di compagnie di anime buone che sostano presso le dimore delle persone, alle quali, se pietosamente e gentilmente ospitate, procurano un anno di fertilità e abbondanza: la caccia si lega così anche al ciclo delle stagioni, a processi di ripetizione, e ciò non stupisce, visto il forte legame tra le sue apparizioni e il solstizio d'inverno.

Un altro elemento che deve aver contribuito alla formazione del mito nell'immaginario collettivo degli antichi deriva dalla storia militare: le testimonianze dell'uso di dipingere sé e il proprio equipaggiamento di bianco e attaccare durante la notte per scatenare il terrore nelle fila nemiche sono riportate da Erodoto (Historiae) e Polieno (Manuale di strategia) che hanno scritto dei Focesi che si ricoprirono di gesso nella battaglia contro i Tessali, Tacito (De origine et situ Germanorum), che menziona una pratica del genere presso gli Arii. La memoria collettiva e la trasmissione orale, verosimilmente, hanno reso reale la finzione, e uomini camuffati da spettri lo sono diventati per davvero nelle storie.
Oltre a ciò, Pausania, nella Guida descrittiva della Grecia, racconta che a Maratona si udissero, almeno al suo tempo, i rumori dei guerrieri e dei cavalli per tutta la notte, e che la sventura colpisse chi li udisse; Damascio di Damasco (Vita di Isidoro) racconta una cosa simile sull'area davanti alle porte di Roma dopo una battaglia contro gli Unni, dove le anime dei guerrieri dei due schieramenti, dopo la morte dei loro corpi, continuarono a combattere accanitamente per tre giorni e tre notti.

Ecate
Ora, il mito di Odino copre una parte delle storie che si raccontano sulla caccia selvaggia, ma i lettori mediterranei dovrebbero ricordare un mito nostrano molto antico e dal contenuto affine, altrettanto fondamentale: Ecate (Ἑκάτη), la dea greca dei crocicchi e della magia, legata all'Oltretomba, era detta guidare, la notte, una furiosa muta di cani da caccia, uccelli notturni e altri animali associati al mondo dei morti. Figura tra le più ricche di significati e affascinanti nel panorama mitologico mondiale, Ecate è anche legata al ciclo lunare, che in molte varianti è associato al passaggio della caccia selvaggia.
Accanto a lei, anche un'altra dea lunare, Artemide, che condivide con Odino l'aver ricevuto nell'antichità sacrifici umani, si lega ai miti di battute di caccia notturne e animali spettrali, permanendo attraverso il nome romano, Diana, che accanto a quello di Erodiade -da intendere o come la sanguinaria figura presente nel Vangelo o come un nome che unisca Era e Artemide- guida la caccia selvaggia nei racconti tardo antichi e medievali.
D'altra parte, una dea dagli attributi sinistri molto evidenti si rinviene anche nella mitologia nordica: è Hel, o Hela, figlia di Loki, dal corpo da un lato di giovane e dall'altro di cadavere in putrefazione, che presiede al mondo dei morti e lo governa al punto di condivere, come l'Ade greco, il nome della sua persona con quello del suo regno. Hel, da cui deriva il nome dell'inferno nelle lingue germaniche moderne, ha molto in comune con Ecate, e tra le altre cose, l'essere stata un tempo una dea della terra legata alla fertilità, salvo, successivamente, essere soppiantata dalle divinità maschili e cambiare ambito.
Hel
Il nome di Hel si combina con quello di Arlik, un dio che rappresenta l'antenato primordiale delle tribù dei Turchi nord siberiani, e che è ricordato anche come Erlik dagli altaici e Yerliq dagli Uiguri gialli (popolo di lingua turca e religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina), poiché questo è un dio cacciatore: i loro nomi, così, si ritrovano in quello di Herlequin, una delle incarnazioni più frequenti del signore della masnada selvaggia, attraverso il quale possiamo anticipare il legame tra questa e la dannazione infernale (Hölle König, "re dell'inferno").
Chiamato con molti nomi, Herlequin, o Hellequin, o Hellequinus ricorre nel folklore francese e inglese come demone a capo della caccia in un contesto più tardo, quello medioevale, cui sarà dedicato il secondo atto del post. Il suo nome acquisisce un valore antonomastico, perché anche se le storie principali che lo contengono sono due, ricorre in diverse fonti tra XIII e il XV secolo nella locuzione francese mesnie Hellequin o nel latino exercitus/turba/(vari termini per indicare degli uomini in armi) Hellequini come espressione più adoperata per indicare la caccia selvaggia, che qui assume più i connotati di una caccia infernale.
Tra questi esempi, è chiamato Hellequin nel Roman de Fauvel, racconto allegorico sulla chiesa, Hanequin nel Roman de Richart, Hennequin della Songe du Vieil Pèlerin di Philippe de Mézières, che racconta vari costumi europei, Hellequinus nello Speculum maius, la grande enciclopedia di Vincenzo di Beauvais. In realtà questo non deve stupirci, perché nel Medioevo e fino al XVI secolo è normale che i nomi propri siano soggetti a più varianti, che riflettono usi regionali e si modellano sui vari dialetti. Le forme di questo nome sono però molto interessanti per l'etimologia che mettono in luce: da Hennequin si può isolare la parola han, che in alto francese significa "gallo", anche in relazione al tedesco Hahn e l'inglese hen. Nel sanscrito, che come tutte quelle prese in esame è una lingua indoeuropea e deriva da un antenato comune, una parola simile è hamsa, che significa cigno o oca, e Hamsa è il nome dell'uccello raffigurato insieme a Brahma, il dio creatore presso l'Induismo, come sua cavalcatura (possibile anche un nesso col latino anser, oca).
Túatha Dé Danann
Al contempo, troviamo ane che può significare sia uccello che cane, e a seconda del caso può trasfomarsi in ene, e formare enille o eneille che significano "piccolo cane". Da questa parola si arriva a Dana, nome che indica una divinità celtica legata alla natura (ma non dimentichiamo le altrettanto celtiche Morgana o Viviana), già menzionata da Cesare come equivalente di Minerva, assimilabile ad altre dee celtiche come la celebre Morrigan, e che naturalmente ci ricorda Diana; questa dea assume spesso l'aspetto di un uccello. Dana dà il nome ai Túatha Dé Danann, menzionato nelle fonti come un popolo fiabesco di cui farebbero parte gli dèi del pantheon celtico, forse lascito nella memoria di una migrazione o invasione preistorica, sicuramente, in quanto popolo di migratori avvolti dalla leggenda, non del tutto estranei al tema in oggetto, anche perché, secondo alcune storie, essi vennero in Irlanda attraverso il cielo.
Anche -quin, talora percepito come diminutivo, può assumere il significato di cane, attraverso il passaggio attraverso il Medioevo del latino canis in forme dialettali come kien, quien e cien.
La conclusione, almeno secondo il saggio di Walter Philippe da cui derivano tutte queste informazioni linguistiche -che indipendentemente dall'esito danno dimostrazione del potere della lingua e dei fitti legami tra tutte le nostre storie- è che il nome Harlequin, indicando un essere del mondo animale, un po' cane e un po' volatile (magari, letteralmente, un "gallo-cane"), abbia mantenuto il suo significato mitologico e sia stato adoperato per riferirsi a qualcosa di antico e dalla natura mista anche molto tempo dopo il suo uso nel mito. Il fatto che il cane simboleggi fin dall'antichità il mondo dei morti (Cerbero, Garmr) e il gallo la resurrezione, permette di dare un significato compiuto e coerente a questo nome.

Veniamo alle storie su Herlequin.
La prima è quella di re Herla, raccontata dal cronista britannico Walter Map (fine del XII secolo) nella sua raccolta di storie e aneddoti intitolata De nugis curialium. Alla corte di re Herla si presentò un giorno un misterioso nano (pigmy), descritto come simile a un fauno con pelo ispido e zoccoli, e dopo avergli preannunciato l'arrivo, lo stesso giorno, di ambasciatori franchi per concordare il suo stesso matrimonio, gli propose di accettarlo come ospite per il suo matrimonio, con l'impegno di recarsi da lui, l'anno seguente, per presenziare al suo. Il nano sparì senza dargli il tempo di rispondere, e gli ambasciatori giunsero puntualmente. Venuto il giorno del matrimonio, al ricco banchetto re Herla trovò il nano, e insieme a lui un intero popolo di suoi simili, con un corredo di piatti e posate dorati e oggetti e cibi lussuosissimi, e una tale organizzazione del lavoro da rendere inutili i servizi degli uomini del re. Dopo avergli rammentato il suo impegno, il nano, al termine del banchetto, si congedò nuovamente.
L'anno successivo, il nano si presentò per riscuotere il debito, e il re, allestiti i rifornimenti, partì insieme alla sua corte per il luogo dove l'avesse condotto il nano; il percorso lo portò attraverso una caverna in un reame sotterraneo, pieno di ogni genere di bene e pietra preziosa (si ricordi la tradizionale associazione dei nani al mondo sotterraneo, e del mondo sotterraneo alla ricchezza, e sia degli uni che dell'altro alla morte, così come l'identificazione e la quasi omonimia di Plutone, dio degl'inferi e Pluto, dio della ricchezza). Terminato l'uffizio, il nano affidò a re Herla un cane da tenere in grembo durante la cavalcata, intimando a lui e ai suoi compagni di non scendere da cavallo finché non fosse scesa la bestiola; e così si separarono.
"The Marriage of King Herla"
Ma una volta tornati in superficie e dopo essersi imbattuti in un vecchio pastore, cui Herla chiese del regno e di sua moglie, fecero una scoperta sconcertante: il pastore, che comprendeva a stento la sua lingua in quanto sassone, mentre il re era bretone, gli rispose che il nome di quella regina corrispondeva a quello della moglie di un certo re Herla scomparso da ormai duecento anni. E appena uno degli uomini provò a smontare da cavallo, senza aver atteso il segnale del cane, fu ridotto in cenere nel momento in cui toccò il suolo. Così, re Herla e la sua corte, costretti a rimanere in sella per vivere anche se l'epoca non era più la loro, cavalcarono e cavalcarono nei secoli, perdendosi nei nomi e nelle varianti del mito di Harlequin (Harle King).
La storia di re Herla, oltre all'indubbio fascino sinistro e al grande potere narrativo, ci parla per i molti possibili significati e archetipi che vi si possono rintracciare: miti e fiabe medievali, per esempio, indulgono spesso in relazioni diplomatiche tra i monarchi della terra ed esponenti del mondo sovrannaturale. Una possibilità esposta da Walter Philippe (v. Bibliografia) è che il viaggio di Herla servisse come legittimazione presso quel mondo del suo governo. Il nano, naturalmente, è un personaggio malvagio in gran parte delle sue comparse fin dalle saghe nordiche (Reginn e Fafnir della saga dei Nibelunghi su tutti), e Walter Map gli attribuisce anche una barba rossa (il rosso in casi del genere assume una valenza negativa); soprattutto, il nano è fortemente associato al mondo dei morti, nella letteratura scandinava ci sono episodi di nani che viaggiano liberamente tra i due mondi, e nella Saga degli Ynglingar si narra di un re, Sveigdir, che giurò appena salito al trono di dedicarsi alla ricerca di Odino, e che una sera, mentre tornava a casa, vide una grossa pietra su cui stava seduto un nano che lo invitò a seguirlo nella roccia per vedere l'Allfather: il re entrò nella roccia, la roccia si chiuse, il re non uscì mai più. E spesso ciò che fanno le anime dei morti sulla terra è proprio portare dei vivi con sé.

L'altra storia ce la racconta invece il monaco anglo-normanno Orderico Vitale, vissuto tra l'XI e il XII secolo e autore della Historia Ecclesiastica, uno dei più importanti storiografi del tempo.
Un prete di nome Gualchelmo, mentre camminava di notte dopo aver visitato un ammalato, scorse dei rumori attraverso il sentiero come fossero quelli di un grande corteo che avanzasse verso di lui; fece per nascondersi dietro ad alcuni alberi, quando un omone minaccioso e armato di clava, paratoglisi davanti, lo fermò e gli intimò di star fermo a guardare. La processione cui Gualchelmo si trovò ad assistere, e che per comprendere dobbiamo rapportare al passaggio delle corti itineranti nel Medioevo (tra cui quella di Enrico II Plantageneto, che Walter Map paragona a quella di Herla con intenti satirici): per primi venivano fanti e "addetti ai lavori" che trasportavano materiali di vario genere, stoffe, provviste, animali; per secondi, dei colossali trasportatori di bare, ai quali il gigante armato di clava si affiancò nella marcia, e sulle loro bare stavano dei nani con la testa gigantesca, e in mezzo a loro, trascinato da creature nere, un poggio su cui stava un uomo torturato da un demone con degli uncini fiammeggianti; poi delle donne, che cavalcavano su cavalli le cui selle erano ricoperte di punte, sì che il vento, al trottare delle bestie, le sollevava di poco dalla sella facendole cadere ogni volta su quelle punte con rinnovato dolore; quindi loro, preti, monaci, capeggiati da abati e vescovi togati di nero, e tutti chiamavano per nome Gualchelmo implorandolo di pregare per loro. Gualchelmo, che aveva sentito storie di una simile processione senza mai avervi creduto, volle procurarsi una prova della sua visione per non subire la stessa sorte, e tentò di rubare uno dei cavalli; qui, però, venne fermato da alcuni cavalieri infernali, e fu salvato solo grazie all'invocazione di Maria e all'intervento di un altro cavaliere, suo fratello, morto alcuni anni prima.
Come anche la storia di Herla, quella di Gualchelmo deriva da un materiale preesistante modificato e rielaborato, che rientra nella sfera degli exempla, storie raccontate per il loro valore esemplare al fine di trasmettere un messaggio morale.

Si tratta di una storia che va collocata in un contesto in cui la chiesa reinterpreta le vecchie credenze e le adopera in favore del suo messaggio, e il numero più ampio di varianti e di storie della caccia selvaggia si collocano proprio in questo punto. Ne parleremo la prossima volta.
Quanto ad Herlequin, benché l'autore non lo dica, si suppone che corrisponda al gigante armato di clava che ferma Gualchelmo. La coesistenza della sfera demoniaca e di quella legata alla terra e alla fertilità, concetto che vale per la caccia selvaggia in senso più vasto, ha fatto sì che il personaggio avesse anche un'accezione positiva; al contempo, le festività carnevalesche, nelle quali si esorcizzava la paura per i demoni e le forze del male, hanno col tempo caricato il re dell'inferno di una funzione apotropaica. Non si dimentichi, poi, nella Commedia di Dante, l'episodio, occupante i canti XXI e XXII dell'Inferno, delle Malebranche, i diavoli che puniscono i barattieri nella quinta bolgia del doloroso regno: nel verso 118 del XXI canto viene nominato Alichino, uno dei membri della brigata che accompagna brevemente Dante e Virgilio per poi ingannarli. Si tratta della prima trasposizione del nome Hellequinus nella nostra letteratura.
Sarà questo a portare al passaggio ad Arlecchino, forse la più nota ed emblematica maschera della Commedia dell'Arte italiana, il cui passato ultraterreno conserva tracce ancora visibili, nella sua grottesca maschera nera, nel bastone con cui talora si accompagna e nella sua indole sottilmente maliziosa.
Questa ambivalenza della caccia selvaggia è costitutiva della sua storia, e contribuisce a crearle intorno un alone di mistero: presenza estranea al mondo o parte integrante di esso, corteo di anime di morti o di vivi che hanno raggiunto uno stato più alto, compagni degli dèi celesti o di quelli infernali, la caccia selvaggia e coloro che ne fanno parte percorrono la storia e il mito, talvolta accompagnati da un fragore inumano, talvolta da un silenzio tombale. Sono un segno del passato, raccolgono le vestigia di coloro che furono, ma sono anche un presagio del futuro, un avvertimento, forse nefasto, che può essere d'aiuto se sapientemente interpretato.

Bibliografia

Le mythe de la Chasse sauvage dans l'Europe médiévale, a cura di Walter Philippe, Paris, Champion, 1997
La caccia selvaggia e le sue leggende, Xavier Dondeynaz, Virtuosa-Mente, 2009
The Penguin Book of the Undead: Fifteen Hundred Years of Supernatural Encounters, a cura di Scott G. Bruce, Penguin Books, 2016

giovedì 16 febbraio 2017

Nosophoros, ovvero il vampiro

Parlare di vampiri è diverso dal parlare di mostri. Il rapporto che nella nostra cultura ci lega ai vampiri è più complesso di quello verso la maggior parte dei mostri, che è essenzialmente basato sulla repulsione o sull'attrazione, e più frequentemente sulla coesistenza dei due. L'idea del vampiro nasce come concetto negativo per antonomasia, perché racchiude le massime minacce per l'uomo: oltre ad essere pericoloso, sia per le sue intenzioni che per la sua essenza, è un morto che vive, alterando l'essenziale principio che separa i vivi dai morti e minacciandoci, di conseguenza, per il semplice fatto di esistere; è un predatore, un rivale con cui competere nel proprio spazio vitale, come il lupo, ma è ancora più temibile del lupo, in quanto è umano: il fatto che sia umano non comporta soltanto un'astuzia e un'abilità assenti negli animali, ma lo porta ad esulare da un'altra categorizzazione dell'uomo, quella che pone tutti gli animali da una parte e l'essere umano dall'altra, che garantisce all'uomo il vantaggio sulla forza bruta e istintiva delle altre specie fornito dalla sua preziosa e unica facoltà di raziocinio. E il vampiro è palesemente animalesco, perché non costruisce, non pratica arte, non instaura relazioni, ma vive unicamente per nutrirsi; rientra, purtuttavia, anche nella categoria dell'umano, perché vi è appartenuto e se lo ricorda, così da avvalersi di quelle facoltà su cui si basa la sicurezza dell'uomo, e configurarsi come nemico perfetto e invincibile.
A questo si può aggiungere, a seconda delle versioni, un'altra componente: in quanto legato alla morte e al sottosuolo, la natura del vampiro si costituisce anche sulla malattia. È comunemente sostenuto dagli studiosi di antropologia e folklore che l'uomo primitivo, digiuno di conoscenze mediche, nello sperimentare come la terra in cui venivano seppelliti i morti diffondesse malattie contagiose, abbia elaborato i miti su morti che escono dalla terra per perseguitare i vivi, costruendoli a partire da questo oltre che da un insieme di idee e di archetipi mentali che derivano dalla paura, massima tra le paure, dell'ignoto, e dell'ignoto più grande, che è la morte. Nonché, da un complesso e misterioso rapporto tra la morte e l'erotismo, come vedremo più avanti.
L'idea di vampiro per come la percepiamo comunemente deriva principalmente dal paganesimo slavo, e ciò certamente è dovuto anche al romanzo di Bram Stoker, che riporta credenze e superstizioni degli abitanti della Transilvania: il vampiro deriva da un'antica concezione dell'anima, per la quale essa sopravvive al corpo dopo la morte rimanendo sulla terra, e in taluni casi, per la malvagità delle persone in vita, per l'influenza delle potenze infernali, per l'opera di una strega, persino per il morso di un lupo mannaro o per l'essere nati figli dell'una e dell'altra figura malefica, o per tantissime variabili che costituiscono una casistica sconfinata se congiunte a quelle del folklore di altri paesi, quest'anima ritorna nel corpo e lo porta a camminare nuovamente sulla terra.
Ora, questo appartiene al passato. Alla tradizione slava in particolare, e prima che ad essa, a storie del mondo mesopotamico, persiano, ebraico, greco, romano, islamico, in un corpus che cresce nel corso dei secoli e delle fasi culturali, con particolare aumento nel Medioevo per poi cambiare aspetto nel Settecento, quando le scoperte mediche e scientifiche pongono fine alle credenze nei vampiri. Ma non ai vampiri.

Premettevo all'inizio che, accanto alla repulsione, esiste il sentimento di attrazione verso i non morti, e questo lo riconduciamo all'arte e al mondo moderno, col fiorire della letteratura gotica nell'Ottocento e i suoi vampiri, in primis quello del racconto di John Polidori del 1819, creatore di un nuovo genere di vampiro, elegante, aristocratico, modellato sulla persona dello stesso Lord Byron cui fu inizialmente attributo; e poi, solo più tardi, il conte Dracula, immortalato da Bram Stoker nel capolavoro del 1897, Stoker che a questa figura ha dato nome, sembianze e domicilio, in Transilvania, anche in luce del pregio del suo romanzo. Modernamente, è questo il vampiro che sentiamo di più, attraverso il cinema del primo Novecento, grazie a Bela Lugosi, cui si devono le sembianze archetipiche del conte, a Sir Christopher Lee, che l'ha interpretato ben sedici volte, e più recentemente a"Bram Stoker's Dracula" di Francis Ford Coppola, che nell'attenersi (programmaticamente e fino a poco prima della fine) al romanzo di Stoker, ha inserito un tema assente nel romanzo, un tema che ha fatto la fortuna non solo del film, ma dei vampiri del terzo millennio: se il vecchio Dracula concupiva giovani donne esclusivamente per fame e per lussuria, più uno stupratore che un cavaliere, quello interpretato da Gary Oldman è un eroe che porta con sé il peso di un amore secolare, causa della sua stessa condizione vampirica (insieme a una superbia luciferina, una sfida a Dio di portata archetipica), e che fa di quella, non della fame, il motore della vicenda, spostandosi a Londra in cerca della donna in cui rivede colei che ha perduto anticamente, la quale, con un ruolo certamente più attivo di quello della sua controparte letteraria, risolverà il suo dramma, dandogli la morte che, nei suoi occhi, risplenderà di compiutezza e non di rabbia o di paura.
La prima edizione inglese di Dracula
di Bram Stoker (1897).
Non indugerò sull'estensione di questo cambiamento attraverso "The Vampire Chronicles" e "The Vampire Diaries", sulla sua deriva in Twilight -inconsapevole, dato che l'autrice ha semplicemente usato un nome di cui non conosceva l'oggetto- , sulla sua ripresa in "Le notti di Salem" di Stephen King, sulle varianti di "Buffy the Vampire Slayer" o "Underworld", o sui vampiri della Marvel Comics e della serie di film su Blade, nemmeno sulle storie della DC Comics in cui Batman ha a che fare con queste creature e diventa uno di loro, o su quelli italiani visti sulle pagine di Dylan Dog e Dampyr, o ancora sulla celebre serie di videogiochi Castlevania. Spazio al romanzo e al personaggio di Dracula sarà riservato in un post futuro, e certamente, prima o poi, parlerò di Castlevania: Lords of Shadow, dove i vampiri rappresentano solo una parte della vicenda, ma che è uno dei giochi cui sono più legato. Per tutto il resto è meno probabile.
Il punto è che queste due componenti, l'attrazione e la repulsione, laddove si è portati ad essere affascinati, prendendo in esame un altro mostro, dal licantropo, per la medesima ferinità e disumanizzazione dell'aspetto per i quali lo si teme, nel vampiro non possono coesistere, perché a indurre paura e disgusto sono il livore cadaverico e l'odore della terra sepolcrale che non si armonizzano e vengono sostituiti dalla figura composta ed elegante del gentiluomo in abiti vittoriani e, massimo dell'orrore, due canini un po' più lunghi del normale, che il gentiluomo in questione è abile a non mostrare quando non servono.
Il contenuto di questo post non risolverà la dicotomia che ho presentato in maniera generale: si limiterà a dire che cosa preferisco io. E, dal momento che sono schierato dalla parte dei mostri, a prescindere dal valore artistico difficilmente preferirò, a un mostro, l'umanizzazione di questo mostro.
Credo sia per questo che l'unico vampiro che mi abbia mai suscitato timore col suo solo aspetto, timore di cui riesco a sentire ancora gli echi, è quello che comunemente chiamiamo Nosferatu.

Il film del 1922 di Friedrich Wilhelm Murnau, il cui titolo originale è "Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens", oltre ad essere un capolavoro del cinema espressionista, del cinema tedesco e del cinema dell'orrore, ed oltre ad essere uno dei migliori adattamenti del romanzo di Stoker, ci presenta quello che è ragionevole considerare il più spaventoso vampiro della storia delle arti figurative, o almeno uno tra i primi cinque. Perché, per quanto lo scrivente non abbia visto un quantitativo così alto di film e di immagini sui vampiri, ne ha visti abbastanza da avere un'idea del settore, e mentre, tolti gli aristocratici conti di Lugosi e Lee, gli altri vampiri suscitano un orrore breve dettato dalla crudeltà delle loro smorfie, dei denti appuntiti e degli sguardi pieni d'ira, che si perde dopo averli visti abbastanza volte e averli individuati nel loro essere forme di congiunzione tra l'umano e il bestiale, vicine al demoniaco, il vampiro interpretato da Max Schreck inquieta dall'inizio alla fine del film, poiché, come i suoi predecessori nelle macabre fantasie degli antichi, esibisce la sua provenienza da un mondo che non è palese come quello animale, né lontano come quello dei demoni: il mondo dei morti. Il conte Orlok, questo il nome del "non spirato", dovuto alle problematiche legali per le quali tutti i personaggi del film hanno nomi diversi da quelli del romanzo, è bianco, di un bianco vuoto, cadaverico; è avvizzito, secco, sembra un corpo il cui stato fisico impedirebbe di muoversi, e che porta sulla scena qualcosa di atipico, di non comune, per il solo fatto di muoversi: per l'appunto, è un cadavere, un morto che sta in piedi e si muove; quei movimenti, poi, sono a loro volta motivo di disturbo, perché sono a scatti, lenti, meccanici, degli spasmi dovuti a una volontà non naturale che si muove contro lo stato naturale del rigor mortis. A metà del film, nella scena, ripresa dal libro, in cui il protagonista trova e scoperchia una bara nella quale trova il corpo del conte Orlok completamente immobile, in quanto, in quel momento, tornato allo stato di cadavere, si realizza meglio di che stato si tratti.

Né sarebbe sufficiente definirlo un cadavere che cammina, magari perché qualcuno di esterno lo ha riportato in vita, uno stregone, un negromante, oppure uno spirito malvagio che sia entrato nel suo corpo vuoto e lo stia utilizzando come involucro, come mezzo per agire nel mondo fisico; questo cadavere ha due denti, gli incisivi, più lunghi degli altri e appuntiti come quelli di un animale, mentre le dita delle mani hanno unghie molto lunghe, appuntite, ricurve: anche qui, fattezze di animale, artigli, che fanno di Nosferatu un cadavere predatore, un cadavere, dunque, che si muove e si tiene in piedi attraverso la caccia ad altri esseri viventi, come un animale carnivoro. Questo è il vampiro nel mondo antico, questo è Nosferatu. Mondo antico in cui manca una creatura cui ci si riferisca esplicitamente per l'essere un non morto che si nutre di sangue, ma che presenta questi attributi sparsi tra le lamie greche e le strigi latine, che escono di notte per nutrirsi di bambini, i draugar scandinavi, morti viventi dotati di abilità sovrannaturali, i ghoul arabi, che si nutrono di cadaveri, i brykolakas del folklore greco più tardo, che non si decompongono e si alzano una notte alla settimana per nutrirsi dei vivi, gli incubi e le succubi, che conducono rapporti sessuali notturni rispettivamente con donne e con uomini, e ne troviamo anche nelle leggende di paesi lontani in Asia, in Africa, in America, anche in Australia, perché l'idea del vampiro poggia su concetti propri non già delle culture, che sono tante e diversificate, ma dell'uomo, che è uno solo.
Il film, nella versione che ho visto -giacché dei film muti è frequente trovare in giro edizioni con comparti audio diversi- mi ha catturato con la sublime colonna sonora che alterna le musiche sognanti e calde della città di Wisborg (creata con riprese di Wismar e di Lubecca), in cui è ambientato, e quelle cupe e drammatiche dei Carpazi -che ricorrono anche nelle scene ambientate a Wisborg in cui viene menzionato il conte Orlok, come in quelle ambientate nei Carpazi in cui il protagonista Thomas Hutter scrive alla moglie Ellen riaffiorano i temi della città, sicché i due personaggi, l'amata e il mostro, racchiudono l'essenza dei due luoghi del film-, nonché con quel modo di riprendere e di recitare che costituisce l'Espressionismo. Il punto più alto e spaventoso di questo. oltre al vampiro, è il datore di lavoro Knock, che prende i panni del Renfield del romanzo, l'unico ad essere consapevole della natura del conte Orlok, presso il quale invia il protagonista per trattare l'acquisto di una casa a Wisborg. Knock, asservito -non sappiamo in che modo- al conte Orlok, dà segni di squilibri mentali già all'inizio del film, e possiamo solo supporre come la sua follia sia divenuta tanto pericolosa da farlo rinchiudere in manicomio, dove sgomenta i dottori con l'improvviso uso di mangiare gli insetti e il continuo gridare "Blut ist leben!" ("Il sangue è la vita"). Posso solo supporre che, prima ancora di imitare il vampiro, Knock fosse impazzito per il peso della conoscenza dell'esistenza di una creatura del genere, che, se in altri uomini suscita paura o disgusto, e in quelli più coraggiosi il desiderio di distruggerla, in lui ha provocato un desiderio di imitazione, sicché, dal contrasto tra la natura dell'uomo e la natura del mostro, la mente risulta devastata.
Le atmosfere sono da brivido, i passaggi fra le scene all'interno del castello del conte sembrano scandire un incubo, e tutta la prima parte del film, con il viaggio di Thomas, le reazioni degli avventori della locanda in cui si ferma al solo menzionare il conte Orlok, il libro sui vampiri che gli viene donato in cui Thomas, anche la scena del "lupo mannaro" (nelle riprese viene utilizzata una iena) che caccia nottetempo in quelle terre, costruisce una climax che sfocia nell'arrivo al castello e nelle prima comparsa del conte. La scena segue quella del romanzo, il vampiro che motiva con l'ora tarda l'assenza della servitù e il suo astenersi dal mangiare, e ne racchiude ancora un'altra, il protagonista che si taglia inavvertitamente un dito e il suo ospite che si getta avidamente sul taglio. A differenza del romanzo e degli altri adattamenti, però, mancano la nobiltà e l'eleganza del vampiro, e l'ospite, per i motivi che ho sopra elencato, non ha nulla nella sua persona che ispiri la minima fiducia. Segue l'episodio di Thomas che si risveglia la mattina dopo con due piccoli fori sul collo, e poi ancora quello, assente nel romanzo, del vampiro che vede una piccola fotografia della moglie di Thomas e ne loda la conformazione del collo. La notte successiva si ha una delle scene più spaventose del film, quando la cadaverica figura entra nella stanza di Thomas (con la porta che si apre da sola) e procede verso di lui col suo avanzare spettrale. Risvegliatosi il giorno dopo, Thomas trova la bara e vede il vampiro secco al suo interno, e scopre di non poter più fuggire in quanto il conte l'ha chiuso all'interno. Quando però, quella notte, vede che questi, insieme a degli sgherri, deposita delle barre piene di terra su un carro e si chiude in una di esse, per potersi così imbarcare e raggiungere Wisborg, Thomas si cala dalla finestra e fugge dal castello per tornare a casa in tempo.
Inizia così la seconda parte del film, che riprende solo inizialmente il libro e lo modifica in una maniera che trovo geniale: ci viene mostrato il viaggio della nave, il cui equipaggio, un marinaio per notte, scompare o muore senza che se ne comprenda la causa, generando un tremendo tormento nei sempre meno numerosi superstiti; questi, tra l'altro, scoprono scoperchiando le bare che queste sono piene di topi.
Nel libro sui vampiri viene detto esplicitamente che questi per sopravvivere stanno all'interno di bare che contengono la terra dei morti della Morte Nera: sicché, quando la nave giunge a Wisborg, come, possiamo immaginare, fece un'altra nave nel lontano 1348, essa porta con sé il morbo e scatena una pestilenza di proporzioni bibliche sulla piccola cittadina.

È qui che si chiude l'anello di questo post: Murnau cambia i nomi dei personaggi perché, nel 1922, i diritti sul romanzo di Stoker appartengono ancora alla famiglia; e così, accanto al termine Orlok che sostituisce il nome del conte, Murnau chiama il suo mostro Nosferatu, termine sul cui significato si è a lungo dibattuto, e sicuramente i significati più pertinenti sono quelli della lingua rumena presso la quale il "nosferat" è un tipo di non morto, e "nosferatu" si può ricondurre a "nesuferitu" (ripugnante) o "necuratu" ("spirito impuro"). Benché queste interpretazioni siano le più probabili, ne è stata suggerita un'altra molto interessante, che fa risalire Nosferatu al greco "nosophoros", "portatore di malattie"; è affascinante proprio perché questo è non solo ciò che è Nosferatu in questo film, ma anche ciò che erano i vampiri nelle credenze antiche.
Benché in questo film manchi il potere contagioso del morso del vampiro (presente invece nel remake di Herzog), questo vampiro porta con sé la peste come elemento strutturale; non è interessato tanto a ciò quanto al suo nutrimento, in generale, e alla affascinante moglie di Thomas, in particolare, ma non può fare a meno di trascinarsi dietro l'epidemia come un'ombra, come un cavaliere dell'Apocalisse. La peste, che è chiamata con l'epiteto di una delle sue manifestazioni più spaventose nella storia, che ha sapore di antichità e di medioevo, e che trasforma la tranquilla cittadina in un luogo sull'orlo della crisi nelle scene tristi e intensamente poetiche in cui gli addetti bussano alle porte per raccogliere i morti e bare bianche girano per le vie.
Il potere della malattia, la paura della morte e degli strani fenomeni che la accompagnano si concretizza e trionfa come in un grande affresco, mentre il vampiro si è insediato in un vecchio rudere che sta proprio dirimpetto alla casa degli Hutter, che un giorno, guardando dalla finestra, scorgono il conte nella sua macabra inespressività che li osserva da una finestra, senza neanche fingere o camuffare. Un predatore, ma anche uno spione, un guardone, che manifesta in ciò la natura sessuale del suo desiderio legata a quella alimentare, ma di cui non dà dimostrazione con alcuna espressione di lussuria, poiché, come scrive Stephen King, i vampiri sono morti dalla cintola in giù, operano il sesso attraverso la sola bocca, e attraverso quella, piuttosto che immettere la propria sostanza nel corpo dell'altro, privano l'altro della sua.

All'eroica Ellen è affidata la conclusione: dopo aver letto sul libro del marito che una donna pura di cuore può far sì che il vampiro, per giacere con lei, dimentichi l'alba, la cui luce gli è fatale, ella si affaccia da quella finestra e invita il vampiro a entrare (ricordandoci che, nel romanzo di Stoker, i vampiri hanno bisogno di un invito per entrare in un luogo in cui non siano già entrati). In una delle sequenze più celebri del cinema, in cui non vediamo il vampiro, ma la sua ombra, salire le scale che lo porteranno all'oggetto del suo desiderio, Nosferatu si introduce nella di lei camera e l'ombra della sua mano artigliata pare ghermire il cuore di Ellen. Mentre lei, con rassegnazione e coraggio, non gli oppone resistenza, il vampiro le si pone accanto e sugge avidamente il suo sangue per tutta la notte: all'alba, quando in lei non è rimasto più nulla e il mostro si alza, resta paralizzato nel momento stesso in cui passa davanti alla finestra, con le braccia sollevate nel tentativo di schermarsi, e sparisce, come se non fosse mai stato.
Il mostro è scomparso, e la città è salva, ma i numerosi morti, cui si aggiunge Ellen mentre Thomas invano cerca di svegliarla dimostrano che l'incubo è avvenuto davvero.
È così che l'ombra di Nosferatu è stata proiettata per la prima volta, ma non si è certo fermata lì.

Potrei infatti interrompere la storia, se il remake del 1979, diretto da Werner Herzog e intitolato "Nosferatu, Phantom der Nacht", non fosse non soltanto bellissimo, ma in grado di aggiungere qualcosa al mito.
Anche se meno rispetto a quelle di Max Schreck, le fattezze da vampiro di Klaus Kinski sono entrate a far parte dell'iconografia dei vampiri e di Nosferatu stesso, per l'efficacia del trucco e l'aspetto orrido del personaggio, certo, ma soprattutto per la straordinaria performance dell'attore, che riesce, in un certo senso, a coniugare le due diverse concezioni di vampiro esposte all'inizio, sempre rimanendo più attaccato alla prima: il vampiro di Herzog, che qui si presenta come conte Dracula in quanto non ci sono più le difficoltà legate ai diritti sul romanzo (salvo la curiosa differenza che i nomi delle due donne più importanti della storia, Mina e Lucy, sono invertiti), ha molte più linee di dialogo rispetto alle essenziali battute del "non spirato" di Murnau; conversa dunque con l'ospite Jonathan Harker, ha dei modi lievemente più curati rispetto al predecessore -ma aggredisce con maggior foga il commensale quando si taglia il dito- , cita anche in maggiore misura il Dracula del romanzo (come nella celebre frase sul canto dei lupi "figli della notte"), ed è, cosa più superba alla mia percezione, estremamente malinconico:
"Il tempo è un abisso profondo con lunghe infinite notti, i secoli vengono e vanno... Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose."
Rispetto al Dracula del romanzo, che menziona la cosa in maniera approssimativa ed enigmatica, e al conte Orlok, che la tace, questo Dracula dice in maniera non esplicita ma palese di essere in circolazione da molti secoli; non fa il nome di Vlad III Tepes "Draculea" (figlio di Dracul, che significa sia diavolo che drago), si limita a dire di essere discendente di un'antica famiglia di sangue nobile, il punto è che ha su di se un'esperienza lunga e monotona (mi ha ricordato il Baudelaire dello Spleen "ho dentro più ricordi che se avessi mille anni"), in quanto ha trascorso tutto quel tempo come vampiro, nutrendosi per sopravvivere, senza curarsi di altro. Dice anche:
"Io ora al sole non attribuisco più nessuna importanza, né alle scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto. Io adoro solo l'oscurità e le ombre, dove posso essere solo coi miei pensieri."
Lo svolgimento del film è simile a quello dell'originale, con scene che si svolgono secondo la stessa modalità; la lunga parte dedicata al viaggio sulla nave è molto ridotta, mentre maggior spazio è dato al dilagare della peste, che appare vissuta in maniera ancora più drammatica quando, a una smarrita Lucy che assiste alla rovina della città, delle persone sedute a un tavolo all'aperto propongono di unirsi a loro dicendo "Questa è la nostra ultima cena. Abbiamo tutti la peste".
Altre aggiunte di rilievo sono la scena d'apertura del film, una panoramica da brivido su statue di uomini e mostri con tratti caricaturali ed esasperati per dolore, paura o peggio ancora, e il ricorrere dell'immagine del pipistrello che entra dalla finestra di una stanza, che prefigura, che scorre in parallelo, che rappresenta l'oscura presenza che si introduce nel mondo luminoso dei protagonisti.


Lucy (la Mina Harker del libro), interpretata dalla bellissima Isabelle Adjani, è l'altra significativa differenza rispetto al primo film, in quanto il suo ruole è ancora maggiore rispetto a quello, già molto significativo, di Ellen: la sua iniziativa contro il vampiro è elaborata nel corso di più tempo, e la protagonista della seconda parte del film diviene lei in quanto Jonathan, tornato a casa, è talmente stravolto dal terrore, dal viaggio e dal morso del vampiro, da non ricordare nemmeno chi lei sia, e rimanere per quasi tutto il film seduto in un angolo incapace di reagire. Lei e Nosferatu hanno persino un incontro, prima dell'ultima notte: alle spalle di una Lucy posta davanti a uno specchio che non lo riflette, il conte le richiede l'unione, affermando che una loro "alleanza" sarebbe di giovamento sia per loro che per Jonathan, ma Lucy rifiuta e respinge il vampiro con la sua purezza. Una volta appreso come sconfiggerlo, isola Jonathan con un crocifisso e un'ostia consacrata sbriciolata intorno a lui, si adagia sul letto e lascia che il vampiro la consumi, fino a non essere più in grado di separarsi da lei, anche udendo il suono del gallo, e a stramazzare sul pavimento una volta finito, per essere infine trafitto al cuore dal paletto di legno del dottor Van Helsing. È interessante che a questo punto ci sia un colpo di scena: Jonathan si risveglia dal suo torpore con incisivi appuntiti e lunghi artigli, fa arrestare Van Helsing con l'accusa di omicidio, ordina a una serva di spazzare via le briciole, e una volta affermato di avere molto da fare lo si vede, nell'ultima scena del film, cavalcare a rotta di collo per il deserto, forse verso il vecchio castello del conte. Herzog rinnova e aggiunge al modello attraverso il tòpos del morso contagioso del vampiro e fa del protagonista l'erede di Nosferatu, forse per dire che, di lui, non ci si può liberare.

La figura di Nosferatu ha avuto poi grande seguito nel cinema dell'orrore, nella letteratura, nei fumetti, nelle arti figurative, perché ha creato un nuovo archetipo, riportando ai moderni qualcosa di quel timore autentico dei vampiri che si provava in epoche lontane per la mancanza di conoscenza, nonché per la consecutiva abbondanza di fantasia, la fantasia creatrice che tiene il mondo unito quando le sue forze lo portano a disgregarsi.
La sua è un'immagine inconfondibile che tutti riconoscono, che la trovino su un poster, in una citazione all'interno di qualche altro film, o nel finale di un episodio di Spongebob, come è capitato a me. Molti le preferiranno comunque il conte aristocratico del cinema hollywoodiano, anche in virtù dei suoi drammi, e va bene così, perché la mia preferenza è dettata anche da un voler andare oltre l'umano, piuttosto che, come altri, cercare l'umano in ciò che umano non è. E credo che ci sia qualcos'altro in questa non umanità, poiché, al di là del gusto personale, ritengo chiunque concordi che l'aspetto di Nosferatu è decisamente più spaventoso, soprattutto al primo impatto, di quello degli altri vampiri: una figura magra, avvolta nel nero, con volto e mani bianchi, lunghe dita, occhi sbarrati dentro orbite scure, le figure di cui si avvalgono di più gli artisti della paura presentano sempre qualcuno tra questi tratti. Certe incarnazioni dell'uomo nero, dal Bughul di Sinister a Babadook, con lo Slender Man in prima linea, ma anche il wendigo del folklore americano, finanche al mostro occasionale del corto amatoriale dell'orrore, sono tutte versioni di un'immagine che per qualche motivo fa paura agli esseri umani, li disturba, soprattutto, li fa sentire minacciati. Forse non scopriremo mai perché, ma questi mostri, che ci osservano dal quel mondo di ombre che rimane sempre a un passo da noi, per quanto le luci aumentino costantemente, delimitano la nostra posizione e ci ricordano che non siamo ancora diventati i padroni di tutto, per il semplice fatto che, almeno loro, non possiamo sconfiggerli.