giovedì 30 marzo 2017

Lovecraft, colui che sussurrava nel cimitero del cosmo

Ho deciso di scrivere, finalmente, il post introduttivo dedicato a Lovecraft, citato già in un paio di occasioni senza averlo però presentato opportunamente, e naturalmente mi si profila davanti un compito difficile.
Cosa potrei dire adesso, in uno scritto che non intende certo essere esaustivo, proponendosi semplicemente di favorire la lettura di articoli più specifici in futuro, ma che pure dovrà possedere una propria dignità, che non sia già stato detto infinite volte su uno degli artisti più rivoluzionari dell'ultimo secolo?
Con Lovecraft nasce non solo un nuovo modo di intendere la letteratura dell'orrore, e quella del fantastico in generale, ma un sistema di pensiero, dovuto a un rivolgimento culturale di cui sperimentiamo ancora le conseguenze, che ha ancora molto da dirci, e oltre a nomi e concetti, così celebri nella cultura popolare dell'ultimo mezzo secolo, da aver trasceso il loro autore ed essere noti spesso anche a chi non l'ha mai letto né conosce il suo nome (il Necronomicon su tutti), si devono a lui intrecci, dinamiche narrative e un modo caratteristico di non descrivere l'orrore, che hanno fatto scuola e sono stati ripresi ed imitati.
Sovente si parla di lui con una certa pomposità di stile e di aggettivazione in particolare, rifacendosi magari al suo stesso modo di scrivere, insistendo su alcuni termini chiave quali "orrore", naturalmente, "onirico", "cosmico", soprattutto, e il termine eldritch, "strano", "spettrale", che nella lingua inglese è diventato sinonimo del sottogenere lovecraftiano stesso; un modo per dare originalità al mio post sarà parlare del Maestro in maniera più semplice.
Anche se devo ammettere che è difficile resistere al fascino del suo linguaggio.

H. P. Lovecraft nel 1934.
Howard Phillips Lovecraft (Providence, 20 agosto 1890 - Providence, 15 marzo 1937) è autore di diverse decine di racconti, il cui numero raddoppia contando quelli scritti in collaborazione o per conto di altri; dei romanzi brevi il cui numero varia in base a quanti dei racconti si considerano romanzi; alcune poesie, tra cui la raccolta di trentasei sonetti intitolata "Funghi da Yuggoth"; una nutrita saggistica e una mole sterminata di lettere e appunti, che risultano molto utili per comprenderlo. 
L'esperienza letteraria va connessa all'esistenza di Lovecraft, quella di un uomo che ha vissuto da solo per la maggior parte della sua vita, che accompagnò il suo celebre saggio "Supernatural Horror in Literature" (1925-1927, tradotto "L'orrore sovrannaturale in letteratura") con un'autobiografia intitolata "Some Notes on a Nonentity" ("A proposito di una nullità", 1933) in cui spiegava di non aver vissuto eventi degni di nota, in termini "esteriori", e quanto raccontava era il suo percorso interiore, fatto di interessi culturali vari, inizialmente alternati, poi congiunti in un insieme complementare, di una formazione scolastica insufficiente cui aveva rimediato con una ricerca personale che gli conferì una cultura vastissima ed eclettica. Fondamentale, fin dall'inizio, il suo interesse per il fantastico, e il sovrannaturale innanzitutto, con una particolare fascinazione per il mondo orientale e le storie de Le mille e una notte; altri interessi determinanti nel suo percorso sono l'attrazione per il Settecento e per le scienze, con una particolare devozione verso l'astronomia.
Da bambino subì diversi traumi legati alla perdita del padre, del nonno (che gli fece leggere le "Fiabe" dei fratelli Grimm e "Le mille e una notte"), della nonna (che gli aveva passato l'interesse per l'astronomia), alle stranezze varie cui lo sottopose la madre iperprotettiva, che si prese cura di lui insieme alle due zie, fino a soffrire di esaurimenti nervosi e altri problemi che lo accompagnarono per tutta la vita; proprio da bambino cominciò a scrivere storie, storie legate alle sue prime letture in cui figuravano già il fantastico e il macabro, e sempre da bambino cominciò ad essere perseguitato dagli incubi, dei quali il più celebre è quello dei Nightgaunts, i Magri notturni menzionati nel post sulla Caccia selvaggia nella modernità. Dagli incubi, anch'essi suoi compagni per tutta la vita, Lovecraft trasse spunto per molte delle sue storie.
Un numero di Weird Tales che riporta
la pubblicazione de "La maschera di Innsmouth"
(1931), uno dei racconti più celebri.
L'aver frequentato saltuariamente la scuola, sia per problemi di salute che per le paranoie della madre, che sovente non gli permetteva di uscire di casa, acuì la sua propensione all'introversione e alla solitudine -benché non fosse del tutto privo di amici-, e causò le abbondanti lacune nella sua formazione, cui rimediò con svariate letture. Durante la giovinezza coltivò anche la poesia, abbandonata da adulto, poiché non si riteneva particolarmente versato, e cominciò a pubblicare storie attraverso alcune associazioni di scrittori dilettanti; sarà più tardi che il suo nome si legherà a quello della rivista pulp "Weird Tales", un periodico di bassa qualità basato su copertine e titoli sensazionalistici e intrattenimento puramente di consumo, che vide, nel suo periodo di gloria, i nomi di Lovecraft, di Robert Ervin Howard, padre di Conan il barbaro, e Clark Ashton Smith, nome legato alla fantascienza e continuatore di Lovecraft.

Tra i suoi modelli, il più autorevole è Poe, che cita anche volentieri nei suoi racconti: in realtà, come osserva Giuseppe Lippi, ad oggi il massimo luminare in Italia per la conoscenza di Lovecraft, il profeta dell'incubo intende imitare Poe, e ciò si ravvisa, oltre che nel modo in cui parla della morte e dei morti nei suoi primi racconti, nell'uso frequente di iniziare le sue storie con una considerazione filosofica, pronunciata con aria di solenne gravità, della quale viene data prova nel corso della trama; ma nella sostanza, Lovecraft rimane distante da Poe, poiché, mentre quest'ultimo affronta i fenomeni in maniera razionale, il suo discepolo indulge e ricerca di indulgere il più che può nell'onirico e nella decostruzione della ragione, come vedremo più avanti. Gli altri modelli, per lo più descritti nel saggio sopra citato, sono autori del suo tempo o poco precedenti che lui ritiene i migliori, come Robert W. Chambers, autore della raccolta "Il re giallo", Arthur Machen, autore de "Il grande dio Pan", Algernon Blackwood, il cui racconto "I salici" è l'opera del genere che preferisce, e Lord Dunsany. Da quest'ultimo, Lovecraft deriva l'elemento più noto della sua letteratura, più caratteristico e affascinante per quanti si approcciano a quest'opera, e che io stesso mi sono trattenuto dall'inserire all'inizio del post e affrontare con sensazionalismo, in quanto anche per me è uno dei più interessanti.
C'è, infatti, un motivo ancora maggiore della sua importanza come scrittore dell'orrore, se per me è un modello così rilevante; e questo motivo acquisisce ancora più valore in quanto si lega a un genere come questo: Lovecraft, da un certo momento della sua produzione fino alla fine della sua vita, crea con i suoi scritti un sistema. È la mitopoiesi, e c'è anche qualcos'altro.
Il sistema in questione consiste in un universo di fondo, condiviso dai suoi racconti, teatro degli avvenimenti fuori dall'ordinario su cui si costituisce l'orrore. Molte storie avvengono in città o villaggi inventati, la cui posizione nella geografia americana è perfettamente indicata; ci sono pseudobiblia, libri inventati come espediente narrativo mediante il quale sostenere le storie, e altri oggetti di fantasia perfettamente contestualizzati. Al di fuori del mondo, poi, vengono indicati altri luoghi, la cui posizione rispetto ad esso oscilla fra la distanza astronomica, quella delle dimensioni parallele e quella del sogno; e in questi luoghi sono presenti creature non umane, che ricorrono, a loro volta, in più storie diverse.
Ed ecco, l'elemento tratto da Lord Dunsany, ma dal significato del tutto mutato, cui accennavo prima: l'invenzione di un pantheon di dèi, con nomi e attributi di invenzione del mitopoieta, la cui effettiva esistenza ed effettivo culto sono sostenuti dagli elementi fittizi finora elencati.
Va però precisato che Lovecraft, con tutto il suo amore per il sovrannaturale, è ateo, materialista e meccanicista, e a poco a poco la sua concezione di questi dèi diviene più precisa: non si tratta di potenze spirituali, ma di alieni, nella prima categoria che stiamo per esaminare, e di concetti universali complessi, ma mai divini per come li intenderemmo noi, in un altro.
Disegno di Lovecraft della statuetta raffigurante
il Grande Cthulhu, dalla lettera a R. H. Barlow,
11 maggio 1934 (John Hay Library, Providence).
I primi sono i Grandi Antichi (Great Old Ones): sono esseri provenienti da altrove rispetto alla Terra, di potenza e caratteristiche tali da sfuggire a qualunque parametro terrestre. In epoche molto remote, eoni nel passato. alcuni di essi, "filtrati dalle stelle", hanno raggiunto questo piccolo pianeta azzurro e vi si sono stanziati, restando sul fondo dell'oceano in attesa, dormienti, dell'arrivo del momento in cui si sarebbero risvegliati e avrebbero provocato il caos.
Il più celebre dei Grandi Antichi, assurto ormai a simbolo della narrativa lovecraftiana tutta, talvolta vituperato dalla cultura di massa, ma ancora capace di suscitare sgomento in quanti lo conoscano, è il Grande Cthulhu. 
I secondi vengono chiamati Dei Esterni (Outer Gods, anche se è importante precisare che il termine è assente in Lovecraft, che al più parla di Other Gods, "Altri Dei"), e trascendono la natura già prodigiosa dei precedenti, dei quali sono infinitamente più potenti. Ma occorre precisare anche qui che non c'è niente di metafisico, e che la loro incommensurabilità non deriva da nulla che sfugga alle leggi del cosmo, ma che, piuttosto, segue leggi di scala infinitamente diversa, funzioni universali che l'uomo non potrebbe mai comprendere. Parliamo di entità che si trovano lontano nel cosmo, un cosmo strutturato da Lovecraft (attraverso un processo avvenuto nel corso di gran parte della sua vita, e non certo tutto in una volta) secondo una concezione volta ad enunciare un'idea filosofica originale, affine al nichilismo ma diversa, che si suole chiamare "cosmicismo": l'idea che la vita umana, e quella di tutti gli esseri viventi, e la Terra, non siano prive di senso, ma semplicemente, quale che esso sia e ammesso che ci sia, questo senso non conta niente rispetto all'infinità del cosmo, dove si trovano entità, gli Dei Esterni appunto, che non si interessano al mondo, né agli uomini, (salvo una considerevole eccezione) per un semplice fattore di incompatibilità della propria mole con la loro, infima. Nel momento in cui uno di questi intendesse eliminare il nostro pianeta, non sarebbe in alcun modo evitabile, e se accadesse, in una prospettiva cosmica, non importerebbe a nessuno, non rimarrebbe nulla e nelle profondità dell'universo questo cambiamento, che sarebbe comunque insignificante, se paragonato a fenomeni di maggiore entità, non sarebbe nemmeno avvertito.
L'archetipo del Dio Esterno è Yog-Sothoth, che ricorre in più di un'occasione come entità esterna che i personaggi dei racconti intendono far passare nella nostra dimensione, e viene descritto come un infinito ammasso di bulbi che si contorcono. L'eccezione precedentemente nominata fra parentesi è Nyarlathotep, messaggero degli Dei Esterni, rispetto ai quali è superiore per intelletto e iniziativa: Nyarlathotep è interessato alla Terra e ai suoi abitanti, ma piuttosto che operarne la distruzione, trae piacere dal provocare la perdità della ragione dei suoi abitanti, intervenendo, talvolta, in sembianze umane, per tale proposito.
Ma quello più spaventoso e importante è Azathoth: cieco e idiota, privo dell'intelletto, che forse ha avuto ma ha perduto, Azathoth risiede al centro del cosmo e si agita eternamente in una folle danza permessa dal suono del flauto dei suoi servitori...oppure sogna di farlo, e la musica serve a tenerlo assopito. Quel che è certo è che, se questa condizione cambiasse, e lui interrompesse ciò che sta facendo, anche solo per un istante, il cosmo intero collasserebbe.

Yog-Sothoth, di Dominique Signoret.
All'interno di questo sistema, come si diceva, l'uomo non conta nulla, né conta qualcosa qualsiasi sua azione, e logicamente non è possibile cambiare questa condizione, di cui, fortunatamente, quasi nessuno è al corrente.
I racconti di Lovecraft mostrano cosa succede quando qualcuno ne viene al corrente: follia, perdita della sanità, alienazione. Anche questi sono termini chiave nella narrativa lovecraftiana, che, nel suo delineare una concezione esistenzialistica moderna, merita indubbiamente il posto di rilievo che non aveva all'inizio, ma che sta a poco a poco conquistando, nel Parnaso della letteratura mondiale.
Come già detto, Lovecraft fu un uomo schivo, non immediato nelle relazioni sociali, che viveva più nella propria interiorità che nel contatto con gli altri; "il solitario di Providence", come viene ancora chiamato, benché coltivasse, comunque, alcune amicizie, soprattutto con altri collaboratori delle riviste per cui scriveva, con i quali mise in atto progetti e persino scherzi letterari. Il suo percorso individuale lo aveva portato a sentirsi estraneo rispetto agli altri, e attraverso le sue esperienze interiori e la sua cultura, nonché i terribili incubi che lo perseguitavano, era pervenuto alla creazione di quadri concettuali di cui i racconti possono essere visti come una metafora, se non delle vere e proprie parabole.
Al contempo, si rendeva conto del fatto di vivere in un'epoca nella quale ogni certezza dell'uomo, consolidata nel corso di un processo secolare, veniva confutata dalle scoperte cui pervenivano le nuove discipline scientifiche: pareva che l'universo non fosse più, o non fosse mai stato, quello che si era a lungo creduto che fosse. La posizione dell'uomo, in questo sistema, sembrava ancora più precaria. In questo senso, Lovecraft dà voce alle ansie culturali del suo periodo storico, nonché alle proprie, alle incertezze e al senso di smarrimento; e in quanto partecipe di tutto ciò, non dà alcuna risposta rassicurante, ma proietta questo quadro sul cosmo intero, e, al culmine del paradossale, usa il linguaggio del sovrannaturale per descrivere un cosmo dove qualunque spiritualità e idea di assoluto sono estinte, fino ad integrare elementi di scienza nel tessuto delle sue fantasie, non solo per privarle di qualunque parvenza di spiritualità, ma per renderle ancora più disturbanti.
Nei suoi racconti, Lovecraft lega infatti la paura alle percezioni più basilari della mente dell'uomo, quella dello spazio, del tempo, quella che separa la realtà e la suggestione: la sua arte consiste nel suscitare la paura attraverso l'alterazione di qualcosa che è dato per scontato sia fatto in un modo e non possa cambiare. Una liricizzazione in un campo individuale, quello dei protagonisti delle sue storie, di quanto avviene a livello collettivo all'umanità del suo tempo. Giuseppe Lippi cita, nella sua introduzione alla raccolta completa dei racconti di Lovecraft, una frase di Jacques Barzun (1907-2012): "Per provare il disagio a cui mira una ghost-story, bisogna cominciare con la certezza che i fantasmi non esistono." E la narrativa aveva ormai da molto abituato i lettori a vedere fantasmi passare attraverso le pareti.
Azathoth e la sua corte, di Dominique Signoret.
Ecco perché in Lovecraft, dopo le prime fasi giovanili, le figure tradizionali delle storie dell'orrore, come i vampiri o i lupi mannari, non compaiono, ma vengono sostituite da altre, e quelle che rimangono, streghe, stregoni, folli, traggono la loro mostruosità da qualcosa di nuovo, rispetto ai tradizionali dèi pagani o demoni vari. Perché i Grandi Antichi, e attraverso di loro, che sono come degli adoratori, gli Dei Esterni, sono entrati in contatto con gli abitanti di questo pianeta, non solo con gli uomini, ma con le razze non umane che vivevano sulla terra molto, molto prima degli uomini, le cui tracce vengono mostrate in alcuni racconti. E quanti possono entrate in contatto con queste entità lo pagano con la loro sanità mentale, poiché si tratta di stati di esistenza completamente alieni a quello umano, e di dimensioni parallele diverse, remote, con spazi e costruzioni che -su questo Lovecraft insiste spesso- non seguono la geometria euclidea, e sfuggono probabilmente a qualunque altro sistema sia stato ideato per comprendere la realtà. Eppure, per quanto distruttiva, la consapevolezza di questo dato è la consapevolezza di quale sia la verità, mentre l'illusione di ordine, di senso d'importanza di tutto quello che l'uomo ha costruito e proiettato al di fuori di sé sull'universo, dando a ciò i nomi degli dèi delle religioni della Terra e attribuendo a queste idee una qualche forma di potere e di significato, tale da conferirne all'uomo stesso, non è altro che una ingenua, commiserevole e ridicola illusione.
Si può dire, e lo osserva Giuseppe Lippi nell'introduzione del 1990 a un'altra antologia, "H.P. Lovecraft - I miti dell'orrore", che lo scrittore di Providence operi un'inversione della bipartizione comune delle esperienze umane in positivo e negativo: la morte, centrale nei primi racconti, è quasi basilare, è la condizione di tantissimi degli esseri che popolano le sue storie, e soprattutto dei Grandi Antichi, dei quali ci viene detto

«Nella sua dimora a R'lyeh il morto Cthulhu attende sognando.»
(Il richiamo di Cthulhu, 1926)

Mappa dei luoghi americani che fanno da sfondo
alla maggior parte dei racconti.
Si tratta di esseri il cui stato abituale è la morte, ma che nella morte hanno la facoltà di sognare. E questa facoltà di sognare è il perno del rovesciamento concettuale operato da Lovecraft: sogno e realtà che perdono il loro significato sono un enunciato imprescindibile per comprendere questi racconti, nei quali gli eventi si svolgono spesso in un contesto onirico, o dai contorni che lo ricordano, senza che tuttavia ciò li renda meno reali, bensì, più reali della realtà. Nel racconto "Attraverso le porte della chiave d'argento" (1933) ciò viene esplicitato dalla formula «Ciò che noi chiamiamo sostanza e realtà è solo ombra e illusione, e ciò che chiamiamo ombra e illusione è sostanza e realtà.»
La vita, continua il poeta -perché questi sono enunciati di poetica, cioè della costruzione di un concetto sul quale imbastire la propria attività artistica-, è data da un susseguirsi di immagini, e non c'è motivo per ritenere che quelle date dai sensi siano superiori in qualunque modo a quelle partorite nei sogni.
Ne "La tomba" (1917) scrive:
«Gli uomini di più ampio intelletto sanno che non c'è netta di­stinzione tra il reale e l'irreale, che le cose appaiono come sembrano solo in virtù dei delicati strumenti fisici e mentali attraverso cui le percepiamo.»
E questa unione indistinta tra reale e irreale Lovecraft la manifesta in molteplici modi, il primo dei quali è l'avere ambientato molte delle sue storie nel New England, nel Massachussets e in altri stati americani adiacenti, nei quali località effettivamente esistenti, libri effettivamente scritti e reperibili e avvenimenti storicamente accaduti sono posti accanto ad altri di pura invenzione, dei quali i più celebri sono la città di Arkham, il fiume Miskatonic e il villaggio costiero di Innsmouth.

Questa sospensione tra il reale e la fantasia, il sogno e le dimensioni remote del cosmo fanno da sfondo al discorso lovecraftiano sulla follia.
Dice l'autore:
«Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l'incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che fi­nora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arreca­to troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d'insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occu­piamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.»
(Il richiamo di Cthulhu, 1926)
Rappresentazione del Necronomicon.
In questo, oltre che nella sua funzione letteraria, consiste l'invenzione del Necronomicon, il "libro delle leggi dei morti" che si dice sia stato rilegato in pelle umana e scritto col sangue, disponibile nelle sue copie presso diverse biblioteche sparse per il mondo, ma solo all'interno dei racconti, e che si dice sia stato scritto dal famigerato "Arabo Pazzo" Abdul Alhazred (il cui nome deriva dalle fantasie d'infanzia di Lovecraft sul mondo orientale). Questi, dopo aver ricercato in vita i misteri legati agli dèi oscuri e aver visitato luoghi leggendari, avrebbe messo per iscritto le sue scoperte, e le avrebbe divulgate, morendo, per questo, divorato in pieno giorno da un mostro invisibile davanti a numerosi testimoni increduli. I segreti contenuti nel libro sono talmente mostruosi da fare impazzire chiunque li legga, perché contengono le formule che permetterebbero il passaggio degli stessi Dei Esterni nella dimensione della Terra, insieme a quelle per far passare entità minori, ma letali per l'uomo, gli shoggoth, vampiri stellari, polipi volanti e byakhee che insieme agli altri costituiscono il bestiario di Lovecraft, un bestiario variegato in cui ogni razza è legata alle altre in rapporti di servitù, di adorazione religiosa o di inimicizia. E così come nei bestiari medievali i vari animali incarnano concetti ed esemplificano lezioni morali, i mostri lovecraftiani sembrano esprimere, con la loro sola ripugnanza, lo stato di corruzione assoluta dell'universo, la follia dell'uomo, l'insensatezza dei suoi sistemi di pensiero e la sua estraneità rispetto alla vera sostanza, che è illusione e sogno, al punto da chiedersi chi sia veramente ad essere fuori luogo.
Perché tutti i dati sembrano essere dalla parte dei mostri.

Come si può appurare da questa prima escursione, quello di Lovecraft è un sistema mitologico vasto e complesso, coerente e solido nelle sue astratte strutture. Per quanto diverso rispetto alle mitologie tradizionali, ne mantiene la volontà di fondo e la forma: un organismo di storie che vivono e danno vita a un mondo intersecato con quello comune, costituite non solo per dare risposta a qualche domanda, ma per raffigurare il mondo che si vede nelle sembianze con cui esso appare a una vista più profonda, attraverso un linguaggio costituito su forme così trionfalmente mostruose da non poter tornare indietro dopo averle sperimentate, perdendo la ragione:
«Al di là dei mondi, vaghi fantasmi di cose mostruose, indistinte colonne di templi blasfemi che poggiano su massi senza nome al di sotto dello spazio e raggiungono vuoti vertiginosi sopra le sfere della luce e della tenebra. E su tutto, in questo ripugnante cimitero dell'universo, si ode un sordo e pazzesco rullo di tamburi, un sottile e monotono lamento di flauti blasfemi che giungono da stanze inconcepibili, senza luce, di là dal Tempo; la detestabile cacofonia al cui ritmo danzano lenti, goffi e assurdi i giganteschi, tenebrosi ultimi dèi.»
(Nyarlathotep, 1920)

Bibliografia

Lovecraft, H.P., "L'orrore sovrannaturale in letteratura", a cura di Malcolm Skey, traduzione di Silvia Roberti Aliotta, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1989.
Lovecraft, H. P., "I miti dell'orrore", a cura di Giuseppe Lippi, Arnoldo Mondadori, Milano 1889/1890.
Lovecraft, H.P., "Tutti i racconti", a cura di Giuseppe Lippi, Arnoldi Mondadori, Milano 1989 (2010).

giovedì 23 marzo 2017

Eärendil, i versi da cui nacque la Terra di Mezzo

Ci troviamo in un periodo dell'anno in cui il sentimento tolkieniano si fa sentire anche più del solito, anche da chi lo sente sempre: il 25 marzo, data della distruzione dell'Anello e della fine della Terza Era della Terra di Mezzo secondo la cronologia del Signore degli Anelli, è da ormai diversi anni la data del Tolkien Reading Day, giorno destinato alla condivisione di Tolkien e delle sue parole. Ogni anno, la Tolkien Society stabilisce un tema guida su cui orientare le letture e i vari eventi che hanno luogo ovunque gli appassionati si riuniscano per celebrare la ricorrenza. L'anno scorso si è parlato di vita, morte e immortalità, e L'Anima del Mostro ha dedicato un post all'argomento. Il tema scelto per questa edizione, "Poesia e canti nella narrativa di Tolkien", mi consente di fare un passo indietro rispetto al romanzo, per tornarci alla fine del post, e raccontare qualcosa sull'origine di tutto, su ciò che è nato per primo.
"Eärendil il Marinaio", di Ted Nasmith.

Ancor prima della storia dell'Anello, ma prima anche di quella di Beren e Lúthien, della Fuga dei Noldor o della tragica fine di Túrin Turambar, viene una poesia che si intitola "The Voyage of Earendel the Mariner", composta nel 1914. Una poesia che deriva da una suggestione potente, dietro la quale c'era molto più di quanto possa sembrare a un primo approccio.
È più o meno risaputo, presso la comunità tolkieniana, che il nome e la figura di Eärendil derivino da alcuni versi del poema in anglosassone, o Old English, tramandatoci col titolo di Christ e tradizionalmente diviso in tre parti, delle quali la prima è detta The Advent ed è incentrata sulla Prima Venuta di Cristo sulla Terra, la seconda The Ascension e incentrata su Passione, Morte e Resurrezione, più o meno unanimemente attribuita a Cynewulf, uno dei più illustri autori di questa lingua, e la terza sulla Seconda Venuta di Cristo in occasione del Giudizio Universale. Tutti e tre i poemi sono conservati nel manoscritto di Exeter, che contiene anche le famose elegie anglosassoni, tra cui The Wanderer e The Seafarer.
I versi in questione fanno parte del Christ I e sono il 104 e il 105, ma per completezza riporto fino al verso 108:




Eala earendel,         engla beorhtast,                      Salve earendel,     più luminoso degli angeli,
ofer middangeard         monnum sended,              sulla terra di mezzo     inviato agli uomini,
ond soðfæsta         sunnan leoma,                         e tu verace     splendore del sole,
torht ofer tunglas,         þu tida gehwane               chiarore oltre le stelle,     tu ogni tempo
of sylfum þe         symle inlihtes!                          (della luce) di te stesso    ciascuno illumini!

In una delle sue lettere Tolkien racconta di essersi imbattuto in questi versi dopo il 1913, quando aveva cominciato a studiare l'Old English professionalmente -prima di allora vi si era dedicato per passione, durante i suoi studi di Latino e Greco- e di essere rimasto colpito dal potere contenuto, oltre che nella formula "Eala earendel engla beorhtast,/ofer middangeard monnum sended", nel nome "earendel", in cui identificava la presenza di una storia e di una provenienza tali da poterlo considerare un nome proprio, piuttosto che uno comune. Nel Christ, earendel è il nome della stella del mattino, che splende chiara durante l'alba prima che sorga il sole, quella che noi sappiamo essere Venere. Questo astro, che noi sappiamo essere un pianeta, ma così non era per gli antichi, ha un'enorme fortuna in tutte le letterature.
Phanes.
Nel mondo classico il suo nome è Phosphoros, presso i Greci, e Lucifer in latino, entrambi nomi che significano "portatore di luce". Lo stesso Venere, nell'apparire nel cielo al tramonto del sole, viene chiamato dagli antichi anche Espero, stella della sera. Nella mitologia greca, o per meglio dire nella lettura oscura ed esoterica che ne danno i misteri orfici, il portatore di luce è chiamato Phanes, "luce" appunto, un essere antropomorfo, androgino, alato, con quattro occhi e un serpente intorno al corpo, nato dall'uovo generato da Kronos da solo (un Kronos che non è il Titano figlio di Gea e padre di Zeus, ma l'essere unico primordiale) o insieme ad Ananke (la Necessità) che regna sull'universo per alcune ere, salvo poi affidarlo, una volta stancatosi, a Nyx, la notte, che a sua volta lo cede ad Urano. Questa versione del mito cosmogonico, per i curiosi, si trova nel Papiro di Derveni. Phanes è poi equiparabile a Eros, il dio dell'amore, che nella Cosmogonia di Esiodo è il primo degli dèi ad emergere dal Kaos.
L'astro della sera è anche una guida per i naviganti, e in questa veste figura anche nell'Espero di Mihai Eminescu, uno dei miei poemi preferiti, che non perdo occasione di citare.

E il mondo nordico? Ebbene, anche qui troviamo dei miti sulla stella che ha ispirato Tolkien.
Nel Dialogo sull'arte poetica (Skaldskaparmal) di Snorri Sturluson, certamente il più celebre letterato islandese del Medioevo, autore dell'Edda in prosa che è ad oggi la massima fonte sulla mitologia scandinava insieme all'Edda poetica, viene raccontato il mito del gigante Aurvandill: costretto a portare sulla testa un frammento della cote lanciatagli addosso dal gigante Hrungnir, che aveva ucciso in combattimento, il dio Thor ricevette la visita dell'indovina Gróa, moglie di Aurvandill, che usò i suoi incantesimi per liberarlo. Mosso dalla gratitudine, prima che l'indovina avesse finito, Thor le raccontò di aver fatto tempo prima un viaggio insieme al suo sposo, trasportandolo da Jötunheimr, il mondo dei giganti, su una gerla fissata sulla sua schiena, e che quando, per via del freddo, l'alluce del gigante si era congelato, Thor lo aveva spezzato e l'aveva scagliato nel cielo, dove era diventato la stella chiamata Aurvandilstà (letteralmente, alluce di Aurvandill -cfr inglese "toe", alluce appunto). Per i curiosi, purtroppo Thor disse a Gróa che suo marito sarebbe tornato da lei molto presto, e la gioia di lei fu tale da interrompere l'incantesimo, sicché la cote di Hrungnir è rimasta dov'è e si dice che, ogniqualvolta qualcuno getti una cote per terra, la cote sulla testa di Thor si muova.
Snorri Sturluson, illustrazione di
Christian Krogh.

Aurvandill si fa risalire a un composto in lingua Proto-Germanica (lingua di cui non è rimasto nulla e di cui si è ricostruita l'esistenza per via delle affinità fra le varie lingue germaniche) *auzi-wandilaz, che significherebbe "vagabondo luminoso". *auzi, per intenderci meglio, è probabilmente imparentato col greco eos, alba, il sanscrito uṣā́s di analogo significato e il latino aurora. Oltre al norreno Aurvandill e all'anglosassone Earendel conosciamo il longobardo Auriwandalo, il gotico Auzandil, e l'alto tedesco antico Orentil ed Erentil, e la sua latinizzazione medievale è Horuuendillus. Quest'ultimo nome compare nei Gesta Danorum di Saxo Gramaticus, principale opera di storia medievale danese, nonché fonte ricchissima di miti e leggende, che nella narrazione della storia sono mescolati agli avvenimenti effettivamente accaduti;  qui è uno degli eroi di cui vengono narrate le gesta. Nel poema epico Orendel o Erentel, che fa parte della raccolta di manoscritti chiamata Heldenbuch e contenente le storie di molti eroi, si narra del protagonista omonimo, un re che viene trovato in mare da bambino (proprio come Scyld Scefing, il fondatore della dinastia danese su cui si apre il Beowulf). Viene definito il primo eroe che sia vissuto.
L'Edda poetica fornisce un'altra informazione sul rapporto fra Thor, i giganti e le stelle: nel carme Harbarthsljoth, "Carme magico di Harbardhr", dove Thor risponde alle domande del barcaiolo Harbardhr, sotto le cui spoglie si cela Odino in persona, nella nona strofa il dio più giovane afferma:

«Uccidevo Thjazi,     gigante fiero,
in alto gettai gli occhi     del figlio di Allvaldi
     nella chiara sfera celeste:
sono i due segni maggiori     delle mie imprese
     che tutti gli uomini scorgono da allora.
     E nel frattempo che facevi, Harbardhr?»

In sostanza, il nome Earendel porta con sé una straordinaria eredità, sia per le sue origini mitiche e il suo legame con alcuni concetti chiave di ogni mitologia che per i numerosi personaggi della letteratura germanica che lo hanno portato. Non si dimentichi, d'altra parte, che lucifero, usato come titolo, ricorre in alcune traduzioni del Nuovo Testamento per indicare la stella del mattino in quanto simbolo di Cristo, e altrove Cristo stesso.
"Luce di Eärendil", da deviantart
Link: http://breath-art.deviantart.com/art/light-of-Earendil-443783272
Ciò è affascinante anche perché, nella forma che il mito ha assunto nel tempo, Eärendil è uno dei personaggi più simili a Gesù di tutto il legendarium. La storia del Marinaio Mezzelfo l'ho già raccontata in questa sede. Il suo nome, nel sistema linguistico del legendarium, si lega a un'altra sfera semantica: è l'unione di due parole del Quenya, la lingua elfica più antica, eär, "mare", e il suffisso -ndil che indica amicizia o amore, e si può dunque tradurre "amante del mare". Il nome datogli dalla madre è invece Ardamir, o Ardamirë, "gioiello di di Arda" (cioè del mondo). Nel Silmarillion, il suo intervento alla fine della Prima Era, quando la vittoria definitiva di Morgoth, favorita dai figli di Fëanor, sembra scontata, provoca un cambiamento insperato, un'eucatastrofe, come avrebbe detto il Professore, che porta alla sconfitta dell'Oscuro Signore. Eärendil è l'eroe che dona ai Valar, di sua spontanea volontà, uno dei Silmaril, laddove Fëanor aveva maledetto chiunque avesse osato toccarli e si era ribellato al divieto impostogli di partire per la Terra di Mezzo: se l'atto di Fëanor è la prima disobbedienza, la rottura del patto di fiducia con Dio che nella Bibbia viene compiuto da Adamo, la restaurazione compiuta da Eärendil è quella compiuta attraverso il sacrificio di Cristo; e invero, anche Eärendil deve sacrificare qualcosa, poiché dopo la sua "ascesa", dopo essere stato posto nel cielo dai Valar perché porti il Silmaril da una parte all'altra del cielo, illuminando il mondo con la sua luce e tenendolo al sicuro, non potrà mai più tornare a terra.
Vale inoltre la pena di osservare in questa sede la persistenza, in questa storia, di un altro archetipo mitologico, uno dei più antichi del mondo: durante la Guerra dell'Ira vengono scatenati da Morgoth, per la prima volta, i Draghi alati, quale arma risolutiva ancora più temibile di tutte quelle usate in precedenza dall'Ainu decaduto (Glaurung e i draghi che prendono parte all'assedio di Gondolin sono infatti privi di ali, dei wyrm come Fafnir e la maggior parte dei draghi della letteratura germanica antica). Il più temibile di questi Draghi è Ancalagon il Nero; contro quest'ultimo si scontra lo stesso Eärendil sulla nave Vingilot, e dopo una battaglia estenuante riesce a vincerlo e a farlo precipitare sulla fortezza di Morgoth del Thangorodrim, distruggendola. In quanto eroe luminoso e portatore della luce già nelle origini del suo nome, Eärendil eredita il ruolo di dèi luminosi come Marduk, Ra, Apollo e Svarog, ciascuno dei quali è protagonista di un mito in cui deve uccidere un serpente, o drago, spesso nero e sempre associato alle forze del Caos, per garantire l'armonia del cosmo.
Eärendil e Ancalagon
Ancalagon è descritto come infinitamente grande,
ma questa immagine mi piace perché mostra 
i due contendenti impegnati in uno scontro diretto, 
non mediato dalla nave, e Ancalagon risulta simile
alle numerose raffigurazioni dei draghi associati
 al male nell'iconografia religiosa.
Quello del marinaio è un archetipo narrativo frequente in Tolkien: oltre ad Eärendil, o allo stesso Gandalf, che insieme agli altri stregoni giunge nella Terra di Mezzo dal mare (Gandalf è comunque, innanzitutto, un viandante, wanderer), è un marinaio Eriol, il protagonista della cornice narrativa contenuta nei Lost Tales ("Racconti ritrovati" e "Racconti perduti" dell'edizione italiana) che giunge all'isola di Tol Eressëa, spinto dal desiderio di avventure, e vi incontra gli Elfi che gli narrano le storie degli Ainur, dei Noldor e dei Grandi Eventi che costituiscono la versione di base di quello che è poi divenuto il Silmarillion. Eriol stesso è definito "figlio di Eärendel" all'inizio del testo, scritto fra il 1916 e il 1917, quando la poesia di Eärendel, nella sua prima stesura, esisteva già.
The Seafarer, la più nota delle elegie anglosassoni insieme a The Wanderer, fu probabilmente un altro modello per Tolkien, che collaborò anche a una sua edizione filologica: la sua suggestione si avverte nel capitolo di Eärendil nel Silmarillion, dove viene detto che l'amore per il mare era il suo sentimento più forte, un richiamo cui non poteva sottrarsi, e lo stesso è detto nell'Ainulindäle a proposito degli Elfi in generale.

Di quella poesia, ci informa Christopher Tolkien, il mitopoieta ha realizzato quattro versioni.
La prima si intitola "The Voyage of Éarendel the Evening Star", "Il viaggio di Éarendel la Stella della Sera", e come era solito fare, Tolkien la presentò anche col titolo in anglosassone, "Scipfæreld Éarendeles Ǽfensteorran". In seguito, rinominò la poesia "Éalá Éarendel Engla Beorhtast", secondo il verso originale da cui ciò era derivato, ed eliminò il titolo in inglese moderno. Varrà la pena ricordare qui che Tolkien, questo verso che per lui era così bello ed importante, lo tradusse in Quenya:
Aiya Eärendil Elenion Ancalima                      Salve, Eärendil, più luminosa delle stelle
Questa frase, che Frodo grida nella Tana di Shelob mentre afferra la fialetta che contiene la luce di Eärendil (cioè la luce di un Silmaril), è la traduzione del verso del Christ, con un'unica differenza, la parola "stelle" al posto di "angeli", non presenti come esattamente tali nel mondo tolkieniano.

La versione più celebre è certamente quella che compare nel Signore degli Anelli, nel capitolo "Molti incontri": qui a comporla è Bilbo Baggins, che vi si dedicava da prima dell'arrivo di Frodo a Granburrone; la poesia non è, comunque, interamente sua: al sopraggiungere di Aragorn durante l'incontro con Frodo, il vecchio Hobbit, dopo un affettuoso saluto e alcune presentazioni, gli dice:
«Ho bisogno del tuo aiuto per qualcosa di molto urgente. Elrond dice che questa mia canzone deve essere pronta prima della fine della serata, e io non riesco ad andare avanti. Mettiamoci in un angolino e diamole il tocco finale!»
Quando il canto ha inizio, Frodo viene trasportato «in un sogno di musica che si trasformava in acqua gorgogliante e poi all'improvviso in una voce. Pareva la voce di Bilbo che cantava versi. Vaghe all'inizio, le parole si fecero più chiare». Ed ecco quello che Frodo udì, in inglese e nella traduzione in italiano di Vicky Alliata di Villafranca:

"Eärendil e Elwing", Steamey.

Eärendil was a mariner                                                    Eärendil era uomo di mare,
that tarried in Arvernien;                                                  Eppur si attardava ad Arvernien;
he built a boat of timber felled                                          Costruì una barca di legno
in Nimbrethil to journey in;                                               Per recarsi sino a Nimbrethil;
her sails he wove of silver fair,                                         D'argento tessute le vele,
of silver were her lanterns made,                                      D'argento eran pure le lanterne,
her prow was fashioned like a swan,                                E la prua in forma di cigno,
and light upon her banners laid.                                        E la luce sulle bandiere.

In panoply of ancient kings,                                              Un'armatura dei re antichi,
in chained rings he armoured him;                                    In maglia di anelli intrecciati;
his shining shield was scored with runes                           Sullo scudo intagliate le rune
to ward all wounds and harm from him;                            Contro tutti i pericoli e i mali;
his bow was made of dragon-horn,                                    Un arco di corno di drago,
his arrows shorn of ebony,                                                 Le frecce di ebano duro.
of silver was his habergeon,                                               D'argento splendente la cinta,
his scabbard of chalcedony;                                               E il fodero di crisopazio;
his sword of steel was valiant,                                          Valorosa la spada d'acciaio,
of adamant his helmet tall,                                                Inflessibile l'elmo orgoglioso
an eagle-plume upon his crest,                                          Sormontato da una piuma d'aquila;
upon his breast an emerald.                                               Uno smeraldo gli splendea sul petto.

Beneath the Moon and under star                                       Sotto la Luna e sotto le stelle
he wandered far from northern strands,                              Dai nordici lidi andò vagabondando,
bewildered on enchanted ways                                           Per meravigliosi sentieri incantati,
beyond the days of mortal lands.                                        Sino a un mondo al di là dei mortali.
From gnashing of the Narrow Ice                                       Dal gelido tormento dello Stretto Ghiaccio
where shadow lies on frozen hills,                                     Ove l'ombra ricopre le colline glaciali,
from nether heats and burning waste                                 Dalle fiamme e il fuoco di antri arroventati,
he turned in haste, and roving still                                     Egli fuggì via e ancor vagando
on starless waters far astray                                               Su acque cupe e su laghi fatali
at last he came to Night of Naught,                                   Giunse infine un giorno alla Notte del Nulla,
and passed, and never sight he saw                                   E vi s'inoltrò e non vide mai tracce
of shining shore nor light he sought.                                 Di rive, di spiagge, di luci o di rocce.
The winds of wrath came driving him,                             I venti incolleriti, furibondi lo travolsero,
and blindly in the foam he fled                                         E tra schiuma e schiuma fuggì ciecamente
from west to east and errandless,                                      Senza più sapere dove est e ovest fossero,
unheralded he homeward sped.                                        Cercando la via di casa disperatamente.

There flying Elwing came to him,                                    In quel momento Elwing gli apparve davanti,
and flame was in the darkness lit;                                     E brillò una fiamma nell'oscurità;
more bright than light of diamond                                    Più fulgida e splendente di luce di diamanti
the fire upon her carcanet.                                                Era la favilla sulla sua fronte.
The Silmaril she bound on him                                        Donò a lui il Silmaril,
and crowned him with the living light                             Incoronandolo di luce e di vitalità,
and dauntless then with burning brow                             Così intrepido e forte e prode Eärendil
he turned his prow; and in the night                                Riprese il comando della sua nave.
from Otherworld beyond the Sea                                    Nella buia notte di questo mondo oltre il mare
there strong and free a storm arose,                                Si levò d'improvviso una tempesta violenta,
a wind of power in Tarmenel;                                         Un vento di potere e potenza a Tarmenel.
by paths that seldom mortal goes                                    Trascinò veloce la sua barca la tormenta
his boat it bore with biting breath                                   Per sentieri che i mortali non percorrono mai.
as might of death across the grey                                   Attraverso maru remoti e abbandonati,
and long-forsaken seas distressed:                                 Attraverso grigi flutti incantati
from east to west he passed away.                                 Da oriente a occidente senza tornare mai.

Through Evernight he back was borne                         Condotto da onde nere e ruggenti
on black and roaring waves that ran                             Per leghe infinite, su abissi profondi,
o'er leagues unlit and foundered shores                       Ove prima che iniziassero i giorni vi erano terre,
that drowned before the Days began,                           Nella Notte del Nulla, nelle ombre frementi,
until he heard on strands of pearl                                 Udì su rive di perle
where ends the world the music long,                          Ove frangono i flutti, ove muoiono i mondi,
where ever-foaming billows roll                                  Una musica eterna vibrare
the yellow gold and jewels wan.                                  Tra l'oro e le gemme trasportate dal mare.

He saw the Mountain silent rise                                   Silente e pensosa la Montagna si ergeva
where twilight lies upon the knees                               E nel suo grembo Valinor il vespro teneva;
of Valinor, and Eldamar                                                Eärendil scorse al di là del mar
beheld afar beyond the seas.                                         Splendente, lontano, remoto, Eldamar.
A wanderer escaped from night                                   Sfuggito era infine alla notte,
to haven white he came at last,                                    Giunto in un limpido porto,
to Elvenhome the green and fair                                 Nella casa degli Elfi ove tutto è verde e conforto.
where keen the air, where pale as glass                        Ove l'aria è fragrante e il ciel cristallin,
beneath the Hill of Ilmarin                                           Ove ai piedi del Colle di Ilmarin
a-glimmer in valley sheer                                            Splendide e fulgenti nelle vallate
the lamplit towers of Tirion                                         Di Tirion le alte torri illuminate
are mirrored on the Shadowmere.                               Si rifletton sul Lago Ombroso.

He tarried there from errantry,                                    Lì placò la stanchezza del viaggio,
and melodies they taught to him,                                Imparando melodie soavi,
and sages old him marvels told,                                  Ascoltando come in miraggio,
and harps of gold they brought to him.                       I racconti e le storie degli avi.
They clothed him then in elven-white,                        Lo vestirono di elfico bianco,
and seven lights before him sent,                                Ed ei partì per contrade nascoste,
as through the Calacirian                                            Sette luci sul suo cammino stanco,
to hidden land forlorn he went.                                   Come se attraversasse il Calacirian.
He came unto the timeless halls                                  Giunse nei luoghi ove il tempo non scorre,
where shining fall the countless years,                        Ove gli anni risplendono eterni,
and endless reigns the Elder King                              Ed il Remoto Re governa perenne
in Ilmarin on Mountain sheer;                                    Ad Ilmarin sulla Montagna solenne;
and words unheard were spoken then                        Gli svelarono segreti e misteri
of folk of Men and Elven-kin.                                    Sul conto degli Elfi e degli Uomini veri.
Beyond the world were visions showed                     Del mondo gli mostraron visioni
forbid to those that dwell therein.                               Proibite ai comuni mortali.

A ship then new they built for him                            Poi un nuovo vascello costruirono per lui
of mithril and of elven-glass                                      In cristallo elfico intagliato;
with shining prow; no shaven oar                              Non aveva bisogno di remi,
nor sail she bore on silver mast:                                 E sull'albero d'argento sbalzato
the Silmaril as lantern light                                        Nessuna vela avevano issato:
and banner bright with living flame                           Il Silmaril era allo stesso tempo
to gleam thereon by Elbereth                                     Lanterna brillante e bandiera al vento
herself was set, who thither came                              Posta sulla nave dalla mano di Elbereth;
and wings immortal made for him,                            Ella diede ad Eärendil delle ali immortali,
and laid on him undying doom,                                 E dei perenni incantesimi fatali,
to sail the shoreless skies and come                           Per poter giungere navigando nei cieli
behind the Sun and light of Moon.                             Dalla Luna e dal Sole al di là dei veli.

From Evereven's lofty hills                                        Dalle alte colline di Sempresera
where softly silver fountains fall                               Ove l'acqua delle fontane scorre leggera,
his wings him bore, a wandering light,                      Le ali lo portarono, pari a luce vagante,
beyond the mighty Mountain Wall.                           Oltre l'imponente Muro di Montagne.
From World's End then he turned away,                    Ma un giorno dalla Fine del Mondo andò via,
and yearned again to find afar                                   Per la sua amata casa piena di nostalgia,
his home through shadows journeying,                      E si rimise in viaggio ondo ritrovarla
and burning as an island star                                     Sfavillante come un'isola di stelle;
on high above the mists he came,                             Giunse così in alto oltre nubi e nebbie,
a distant flame before the Sun,                                 Una scintilla al cospetto del Sole,
a wonder ere the waking dawn                                 Un prodigio di fronte all'alba nascente
where grey the Norland waters run.                          Ove delle Terre Nordiche scorre il grigio torrente.

And over Middle-earth he passed                             Sulla Terra di Mezzo passò volando
and heard at last the weeping sore                            E udì i lamenti, la tristezza ed il pianto
of women and of elven-maids                                  Di molte elfiche voci femminili
in Elder Days, in years of yore.                                Nei Tempi Remoti, negli anni lontani.
But on him mighty doom was laid,                           Ma egli sapeva di essere condannato
till Moon should fade, an orbéd star                         A vagare come un astro infocato
to pass, and tarry never more                                    Finchè la Luna non fosse sbiadita,
on Hither Shores where mortals are;                         Prima di poter posare le dita
for ever still a herald on                                            Sulle Sponde di Qui ove vivono i mortali;
an errand that should never rest                                Mai il messaggero si potrà riposare
to bear his shining lamp afar,                                    E nemmeno il suo compito abbandonare
the Flammifer of Westernesse.                                  Che è di cercar lungi il suo lume senza ingiuria,
                                                                                 Il Flammifer dell'Ovesturia.


"Le porte della notte", John Howe.

Nei Lost Tales, pubblicati nel 1986, Christopher Tolkien ha inserito l'ultima versione del canto di Eärendil. La storia qui riportata vede il Marinaio navigare per il suo ultimo viaggio prima di assumere il suo ruolo di eroe risolutivo della storia dei Silmaril, Eärendil era stato inserito nella mitologia dell'autore come, appunto, immagine mitica, incarnazione del marinaio in perenne ricerca, come il Seafarer sopra citato o un a noi più familiare Ulisse. E proprio come quest'ultimo, la sua storia termina con un viaggio estremo, un viaggio che sarà il suo ultimo (non mi riferisco alla storia raccontata da Dante, molto successiva rispetto all'epoca omerica, ma alle diverse versioni che raccontano di viaggi di Ulisse dopo il ritorno ad Itaca e terminanti con la sua morte in un paese straniero per una ragione o per un'altra). Il verso di lui che lancia la sua barca riecheggia della versione del 1914. La poesia non dice cosa gli accada esattamente, ma solo che, in quanto immagine di questo sentimento umano di Sehnsucht, i suoi viaggi lo portino fino a un nessun luogo, fino a luoghi completamente al di là da qualsiasi qua, fino a sparire.
La traduzione in italiano dei Racconti Perduti (1987) è di Cinzia Pieruccini.

Eärendel arose where the shadow flows                          Sorse Éarendel dove la tenebra fluisce
At Ocean’s silent brim;                                                       Dell'Oceano alla riva silenziosa;
Through the mouth of night as a ray of light                   Per la bocca della notte, quel raggio che                                                                                                                                                    [lambisce
Where the shores are sheer and dim                                    La costa dov'è pallida e scoscesa
He launched his bark like a silver spark                          Lanciò la barca come scintilla argento
From the last and lonely sand;                                            Dalla sabbia estrema e solitaria;
Then on sunlit breath of the day’s fiery death                 E alle brezze del giorno che muore in un                                                                                                                                                    [incendio
He sailed from Westerland.                                             Egli salpò dall'Ovestlandia.

He threaded his path o’er the aftermath                         Quale sentiero seguì la lunga scia
Of the splendour of the Sun,                                              Del Sole ultimo e abbagliante,
And wandered far past many a star                                Molti altri superando per la via
In his gleaming galleon.                                                     Nel suo galeone luccicante.
On the gathering tide of darkness ride                           Allora la marea del buio sale
The argosies of the sky,                                                      E passano i celesti bastimenti,
And spangle the night with their sails of light               Spargon la notte le vele chiare
As the streaming star goes by.                                            Mentre la stella scivola nei venti.

Unheeding he dips past these twinkling ships,              Lui non vi bada: oltre navi di luce
By his wayward spirit whirled                                            Si tuffa, dal ribelle spirito lanciato
On an endless quest through the darkling West            In cerca senza fine, che per il buio Ovest lo                                                                                                                                                    [conduce
O’er the margin of the world;                                              Fino ai margini del mondo sconfinato;
And he fares in haste o’er the jewelled waste               Viaggia veloce sul deserto di gemme
And the dusk from whence he came                                   E sul crepuscolo da cui proviene
With his heart afire with bright desire                           Di vivo desiderio il cuore in fiamme
And his face in silver flame.                                              Mentre il suo volto un fuoco argenteo tiene.

The Ship of the Moon from the East comes soon        La Nave della Luna all'Est è presto in viaggio
From the Haven of the Sun,                                                E dal Porto del Sole giunge ora,
Whose white gates gleam in the coming beam            E le bianche porte risplendono al bel raggio
Of the mighty silver one.                                                     Della possente argentea signora.
Lo! with bellying clouds as his vessel’s shrouds         Ecco, per funi ha nuvole agrottate
He weighs anchor down the dark,                                        E leva l'ancora nel buio fondo,
And on shimmering oars leaves the blazing shores     Con remi scintillanti lascia spiagge infuocate
In his argent-timbered bark.                                                  Nella sua barca dalla carena argento.

Then Éarendel fled from that Shipman dread              Al che Eärendel fuggì da quel terrore
Beyond the dark earth’s pale,                                      Del Marinaio, oltre la terra e il suo confine scuro
Back under the rim of the Ocean dim,                         E sotto l'orlo dell'Oceano di pallore
And behind the world set sail;                                        Dietro al mondo veleggiò sicuro
And he heard the mirth of the folk of earth                 Udì la gioia delle terrestre genti
And the falling of their tears,                                          E le loro lacrime e gli affanni,
As the world dropped back in a cloudy wrack            Mentre il mondo s'incupiva nei tormenti
On its journey down the years.                                        Del suo lento viaggio lungo gli anni.

Then he glimmering passed to the starless vast           Nella distesa senza stelle allor lucente
As an isléd lamp at sea,                                                   Egli viaggiò quale una lampada sul mare,
And beyond the ken of mortal men                              E oltre ciò che sa il mortal sapiente
Set his lonely errantry,                                                     Rivolse il solitario suo vagare,
Tracking the Sun in his galleon                                    Col galeone seguì del Sole i passi
Through the pathless firmament,                                     Dove sentieri non ha il firmamento,
Till his light grew old in abysses cold                          Finché la luce sua invecchiò nei freddi abissi
And his eager flame was spent.                                        E il suo fuoco avido fu spento.

La storia di Eärendil, in conclusione, dimostra il successo di un artista della subcreazione, come la definiva lui, che nel rielaborare, nel trasformare, nel creare storie grazie a quelle che conosceva, è riuscito a creare un ciclo di leggende nuove e caratteristiche, che riescono a parlare al nostro spirito e a conquistare la nostra anima perché si attengono agli stessi principi delle storie antiche. Gli dèi e gli eroi del mito antico cambiano nome ma non perdono la loro essenza, le ricerche procedono, gli interrogativi continuano ad essere posti senza requie, e le stelle raccolgono e portano il segno delle imprese che i mortali hanno compiuto prima di diventare gli dèi dell'era successiva.
Per quanto le frasi che pronuncia nelle pagine a lui dedicate e i resoconti dei suoi pensieri siano davvero esigui, cosa che lo rende una figura lontana, quasi persa nel mito (ciò è dovuto, peraltro, al diverso livello di rielaborazione del materiale che lo riguarda rispetto ad altri capitoli) Eärendil colpisce dal primo contatto che si ha con lui, e ispira e fa sognare ogni volta, perché è un personaggio letterario più straordinario di quanto sembri, così come un essere affatto ordinario nel suo mondo: un Mezzelfo, erede di stirpi illustri sia degli Eldar che dei Mortali, l'ultima speranza della Terra di Mezzo, un eroe di guerra, un ammazzadraghi, una costellazione, ma anche altro: è un eroe che diviene un dio, è un umile che diviene il più grande, è pagano per il tempo in cui vive, è cristiano per le sue origini e la sua eredità, è tutto questo ed è molto altro, e fintanto che continuerà a navigare dall'Est all'Ovest, sulla sua nave volante, col Silmaril vicino a sé, nessuno sarà mai indifferente alla sua suggestione, e i canti su di lui non si spegneranno.

giovedì 9 marzo 2017

Anime di mostri: La caccia selvaggia vive ancora

Bentornato per l'ultima notte di questa cavalcata.
Due settimane sono trascorse raccontando antiche leggende e miti poco conosciuti di dèi e anime umane a cavallo nel cielo o sulla terra, per condurre i morti nel mondo oltre la morte, o per scontare le colpe accumulate in vita. E, almeno per chi ha fatto questo viaggio in sella ai cavalli volanti, è stato un viaggio straordinario.
Parlare di queste storie e di queste immagini ataviche ci ha portati ad andare indietro nel tempo, dall'antichità agli albori del Cristianesimo fino alla fine del Medioevo. Oggi, pertanto, torneremo al presente, riunendoci ai cavalieri fantasma che corrono ancora su di noi dopo aver fatto la conoscenza di quelli, più antichi, che hanno terrorizzato l'Europa -e non solo- tra l'inizio dell'età moderna e il revival dei miti oscuri nell'Ottocento.

"E non dimentichiamo il terrore che viene dall'altro mondo, la Caccia selvaggia che infesta i cieli
nelle notti di luna piena." Di che cosa si tratti lo vedremo alla fine.
Nel Liber de situ Iapygiae del 1553, Antonio de Ferrariis detto il Galateo descrive, da un punto di vista geografico e culturale, la regione pugliese della Japigia, considerata un luogo remoto e oscuro, e passa in rassegna episodi misteriosi e leggendari ad essa associati indicandone spiegazioni e cause: riporta, tra questi, le visioni, frequenti soprattutto presso gli antichi, di uomini che avanzavano a cavallo o a piedi attraverso il cielo, sovente equipaggiati come un esercito, a suo parere dovuti alle proiezioni di oggetti lontani. Riferisce poi, anche, di un caso in cui fu vista, dal tratto di costa tra Otranto e il monte Gargano, una flotta proveniente da Oriente che mise tutti in agitazione finché non fu scoperto che si trattava di un miraggio. L'autore precisa che questi fenomeni non erano circoscritti al volgo ignorante, ma anche alla gente istruita; vive comunque in un'epoca in cui, a queste storie, si crede di meno.
François Rabelais, l'autore dei romanzi di Gargantua e Pantagruele, descrive, nei capitoli LV e LVI del quarto romanzo, un fenomeno sinistro che capita ai suoi personaggi durante un viaggio: nonostante siano soli, Pantagruele e i suoi compagni si accorgono di sentir parlare alcune voci, sia maschili che femminili, di adulti, bambini e persino cavalli, inizialmente indistinte ma sempre più chiare man mano che loro sforzano la propria attenzione. Da un nocchiero della zona, i personaggi apprendono che in quel luogo, l'inverno precedente, è stata combattuta una cruenta battaglia tra Arismapi, popolo di monocoli scozzesi, e Nefelibati, che hanno la capacità di camminare sulle nuvole; durante la battaglia, a causa del freddo, le parole e i rumori della guerra sono stati congelati, ma in estate si sciolgono e vengono udite ancora: prestando più attenzione, Pantagruele e gli altri notano che quelli sono rumori guerreschi. Oltre all'immagine di un popolo che si muove nel cielo e a questa proiezione spettrale della guerra, la storia ci interessa perché si richiama alle antiche narrazioni degli storici che raccontano di episodi non troppo diversi da questo nei vecchi campi di battaglia.

Torquato Tasso, poeta e narratore straordinario, grande teorico della narrativa fantastica e genio consumato dalla propria arte, inserisce la vicenda storica delle Crociate in un mondo dominato da forze sovrannaturali in una lotta simmetrica a quella tra l'esercito cristiano e quello musulmano, quella tra angeli e demoni. Nel XIII canto della Gerusalemme Liberata, il mago musulmano Ismeno, per impedire ai cristiani di attingere legna dalla foresta di Saron, utilizza la sua magia per invocare le potenze infernali. Queste, restìe in un primo momento, si riversano sulla terra quando Ismeno le minaccia di proferire il nome di Dio.
Qui s’adunan le streghe, ed il suo vago
con ciascuna di lor notturno viene;
vien sovra i nembi, e chi d’un fero drago,
e chi forma d’un irco informe tiene:
concilio infame, che fallace imago
suol allettar di desiato bene
a celebrar con pompe immonde e sozze
i profani conviti e l’empie nozze.
Cosí credeasi, ed abitante alcuno
dal fero bosco mai ramo non svelse;
ma i Franchi il violàr, perch’ei sol uno
somministrava lor machine eccelse.
Or qui se ’n venne il mago, e l’opportuno
alto silenzio de la notte scelse,
de la notte che prossima successe,
e suo cerchio formovvi e i segni impresse.
E scinto e nudo un piè nel cerchio accolto,
mormorò potentissime parole.
Girò tre volte a l’oriente il volto,
tre volte a i regni ove dechina il sole,
e tre scosse la verga ond’uom sepolto
trar de la tomba e dargli il moto sòle,
e tre co ’l piede scalzo il suol percosse;
poi con terribil grido il parlar mosse:
"Udite, udite, o voi che da le stelle
precipitàr giú i folgori tonanti:
sí voi che le tempeste e le procelle
movete, abitator de l’aria erranti,
come voi che a le inique anime felle
ministri sète de li eterni pianti;
cittadini d’Averno, or qui v’invoco,
e te, signor de’ regni empi del foco.
Prendete in guardia questa selva, e queste
piante che numerate a voi consegno.
Come il corpo è de l’alma albergo e veste,
cosí d’alcun di voi sia ciascun legno,
onde il Franco ne fugga o almen s’arreste
ne’ primi colpi, e tema il vostro sdegno."
Disse, e quelle ch’aggiunse orribil note,
lingua, s’empia non è, ridir non pote.
A quel parlar le faci, onde s’adorna
il seren de la notte, egli scolora;
e la luna si turba e le sue corna
di nube avolge, e non appar piú fora.
Irato i gridi a raddoppiar ei torna:
"Spirti invocati, or non venite ancora?
onde tanto indugiar? forse attendete
voci ancor piú potenti o piú secrete?
Per lungo disusar già non si scorda
de l’arti crude il píú efficace aiuto;
e so con lingua anch’io di sangue lorda
quel nome proferir grande e temuto,
a cui né Dite mai ritrosa o sorda
né trascurato in ubidir fu Pluto.
Che sí?... che sí?..." Volea piú dir, ma intanto
conobbe ch’esseguito era lo ’ncanto.
Venieno innumerabili, infiniti
spirti, parte che ’n aria alberga ed erra,
parte di quei che son dal fondo usciti
caliginoso e tetro de la terra;
lenti e del gran divieto anco smarriti,
ch’impedí loro il trattar l’arme in guerra,
ma già venirne qui lor non si toglie
e ne’ tronchi albergare e tra le foglie.
(Gerusalemme Liberata, canto XIII, v. 28-93)
Questo episodio permette anche di osservare la ricchezza immaginativa di Tasso e le numerose apparizioni che descrive: un luogo di raduno per le streghe, che vi si recano a dorso di drago, il cerchio tracciato da Ismeno, simbolo che si dice protegga l'invocatore dalle entità che invoca, i movimenti compiuti tre volte secondo i termini dell'epica, i demoni contestualizzati dalla loro caduta dal cielo, definiti sia abitatori dell'aria (secondo un concetto che si trova già nelle credenze antiche), che cittadini dell'Averno -cui risponde l'arrivo di alcuni in discesa dal cielo e di altri in ascesa dal sottosuolo. La possibilità per un incantatore di evocare una caccia selvaggia l'abbiamo già vista nella Chanson de Guillaume e nell'Edda di Snorri.

Il già straordinario prestigio letterario di queste immagini sarà arricchito ancora di più dal nome di Shakespeare. Nella sua commedia The Merry Wives of Windsor (Le allegre comari di Windsor), databile tra il 1599 e il 1601, il Bardo cita, per la prima volta in letteratura, il cacciatore furioso inglese, Herne il Cacciatore, che condivide i nomi con Hel, Arlik, Harlequinus/Hellequin e tutti quelli già visti, e si dice che infesti la foresta di Windsor comparendo a mezzanotte durante l'inverno, girando intorno a una quercia, agitando gli alberi, rapendo il bestiame e agitando una catena che genera un suono terrificante per chiunque abbia la sventura di udirla. La quercia, e soprattutto il fatto che sia dotato di grandi corna ramificate, richiamano alla mente ancora una volta il mondo celtico, dove la quercia è simbolo di antichità e magia, mentre le corna sono attributo di molti dèi, primo tra essi, se non altro per la sua fama che recentemente è cresciuta grazie al revival del paganesimo e della musica che ad esso si richiama, Cernunnos, dio della fertilità e della natura, vagamente simile a certe accezioni del Pan greco, a volte benevole, altre crudele. Uno spirito cornuto a capo della caccia è una suggestione dello sciamanesimo generalmente associata al nucleo dei suoi miti originari: il cervo è uno degli animali maggiormente associati alla caccia, tanto che Cernunnos viene spesso chiamato "Signore della Caccia".
"Herne" raffigurato da William Harrison Ainsworth (1843 circa)

Sometime a keeper here in Windsor Forest,
Doth all the winter-time, at still midnight,
Walk round about an oak, with great ragg'd horns;
And there he blasts the tree, and takes the cattle,
And makes milch-kine yield blood, and shakes a chain
In a most hideous and dreadful manner.
You have heard of such a spirit, and well you know
The superstitious idle-headed eld
Receiv'd, and did deliver to our age,                                                                                     This tale of Herne the Hunter for a truth.
Il Romanticismo tedesco è il terreno letterario più fertile per la maggior parte degli interessi convogliati in questo sito, e purtroppo la sua minore affinità con la cultura italiana tradizionale pesa molto sulla sua conoscenza e il suo studio presso di noi; se così non fosse, potrei inserire qui molto materiale.
Questa è una delle osservazioni che Giovanni Berchet, nella sua "Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo", del 1816, accompagna alle traduzioni di due ballate del poeta tedesco Bürger, "Der Wilde Jäger" e "Lenore". Il testo originale, per chi conosca il tedesco o sia semplicemente curioso, si può leggere qui:  http://www.literaturwelt.com/werke/buerger/wildejaeger.html
Da segnalare, poi, è la traduzione di Sir Walter Scott, "The Wild Huntsman", eseguita secondo il metro e il ritmo della ballata inglese: http://www.bartleby.com/270/8/236.html

Il protagonista della ballata è il conte di Rheingrafenstein, che ha allestito una battuta di caccia con cavalieri, servitori e una muta di cani feroci. Insieme a lui, due accompagnatori insoliti:

"Ed ecco a destra, ecco a sinistra uscire un cavaliero di qui, un cavaliero di là. Il corridore del cavaliero a destra era nitido come argento; del color del fuoco era quello che portava il cavaliero a sinistra.

Chi era mai il cavaliero a destra, chi mai il cavaliero a sinistra? Ben me lo presagisce il cuore, ma chi sieno non so.

Il cavaliero a destra comparve in candido vestimento e con un volto soave come la primavera. Il cavaliero a sinistra, orrendo e vestito d’un fosco giallo, vibrava folgori dall’occhio come la tempesta."

Il conte sprona i due compagni alla "nobile caccia", asserendo che:

"Né qui in terra, né su in cielo vi ha spasso più caro di questo."

La marcia dà modo di apprendere quale sia il ruolo dei due cavalieri: quello a destra, di colore argenteo, si prodiga in consigli virtuosi e miti, tentando di placare l'animo iracondo e sanguinario del conte, mentre quello a sinistra, del colore del fuoco, è un cattivo consigliere, che propone ciò che più compiace il conte e ne incita le reazioni; inutile dire che il conte non seguirà i consigli del cavaliere d'argento nemmeno una volta.
Improvvisamente, nel campo, i cacciatori scorgono un "bianco cervo con corna di sedici palchi". Il cavaliere d'argento tenta di evitare che il conte attacchi l'animale (il cervo bianco, che abbiamo già incontrato a proposito di re Artù e della sua assunzione nella caccia selvaggia, nelle credenze celtiche ha una valenza magica e preannuncia un evento sovrannaturale.
Il conte insegue con furia il cervo bianco lasciando dietro di sé, incurante, i suoi seguaci troppo stanchi per tenere il passo. Quando il cervo si nasconde in un campo di spighe, si fa avanti un povero contadino che implora la misericordia del conte, per i suoi campi. Misericordia che non esiste.
Il contadino viene ucciso e i campi devastati dal passaggio del conte e dei suoi compagni

"— Via di qua, miserabile! — grida sbuffando terribile il conte al povero aratore — o ch’io, per Satanasso! su te, su te dirizzo la caccia. Olà, compagni! addosso addosso! dàlli dàlli! In segno che ho giurato il vero, fategli fischiar le fruste sugli orecchi. —

Detto fatto, il conte si scagliò furibondo al disopra la siepe; e dietro a lui un bisbiglio, un rimbombo, e tutto quanto il traino con cani e cavalli e pedoni. E cani e pedoni e cavalli pestavano i fusti del grano, sicché la campagna tutta era un polverio."

La stessa sorte tocca, nel campo successivo in cui si nasconde il cervo, a un mandriano:

"Il mandriano, pieno d’angoscia pel suo armento, si butta a’ piedi del conte.

— Pietà, signore, pietà! Fate di lasciare in pace queste mie povere bestie mansuete. Ponete mente, signor mio, che qui pascolano le vacche di tante povere vedove, che non hanno altra sostanza. Abbiate pietà de’ poveri. Misericordia, signor mio, misericordia! —

Il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontà ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all’oltraggio maligno. Il conte schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra e si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.

— Ribaldo, temerario, che a me contrasti! Ah perché non sei tu incarnato tu stesso nella migliore delle tue vacche, e in lei non è incarnata altresì ognuna di quelle sgualdrine? Che gioia sarebbe allora pel cuor mio lo incalzarvi tutti insieme a dirittura fino all’altro mondo!

Olà, compagni! addosso addosso, dàlli dàlli! To to, qui qui, ciuee ciuee ciuee! —

E ciascuno de’ cani s’avventò aizzato sul primo oggetto che gli si parò innanzi. Insanguinato cadde a terra il mandriano, insanguinate caddero l’una dopo l’altra le vacche."

Infine, il cervo si rifugia nella cappella dell'eremita. In questo caso è un uomo spirituale a farsi avanti e a pararsi davanti al conte per fermarlo: egli gli intima di lasciarsi ammonire, o la sua empietà lo trarrà in perdizione. E questa è l'arrogante risposta del conte:

"— Che empietà, che perdizione parli tu mai? Forse — grida egli, — forse che la mi spaventa gran fatto? Questa mia caccia, dovessi io anche vederla spinta fino al terzo cielo, che rileva, che monta a me? Sì, per Dio! vo’ proseguirla, voglio sbramarmi. E sia pure a dispetto di te, o scimunito, e a dispetto di Dio. —"

Improvvisamente, ciò che ha scatenato con le sue parole, si compie: spariscono l'eremita e la cappella, come anche tutti i suoi accompagnatori. Il conte si ritrova da solo, e avvolto in un silenzio di morte: nemmeno la sua cornetta emette suono, quando vi soffia dentro. Al silenzio si aggiunge il buio, e poi una voce di tuono:

E subito intorno a lui un buio, e più e più sempre un buio, come di sepolcro; ed un mugghiare, come di marina lontana. Su alto per l’aria, al di sopra del suo capo, una voce di tuono grida tremenda con furor di burrasca questa sentenza:

"— O tiranno, o indole d’inferno, che insolentisci contro Dio, contro gli uomini, contro ogni cosa! Il singulto, il gemito della creatura e la tua iniquità ti hanno citato a gran voce innanzi al tribunale, là su dove arde la fiaccola della vendetta.

Fuggi, empio, fuggi. E sia tu da qui innanzi per tutta l’eternità perseguitato tu stesso in caccia dall’inferno e dal demonio. E sia spavento, questo, de’ principi d’ogni secolo che, a saziare le loro voglie scellerate, non perdonano né a Creatore né a creatura. —"

Ha così luogo la metamorfosi infernale:

"A queste parole un bagliore giallo come zolfo guizza intorno alle frondi della foresta. Via via per l’ossa e per le midolle discorre al conte l’angoscia. Una vampa gli opprime il respiro. Stordisce e non ode più nulla. Innanzi, tutto gli soffia sul viso gelo e terrore; e alla nuca lo insiegue il fischio della bufera.

Cresce il soffio del terrore, cresce il fischio della bufera; e su dalla terra, oh spavento! ecco un pugno negro emergere, giganteggiare. Apresi, stringe gli artigli; ahi! ahi! già lo abbranca pel ciuffo; ahi! ahi! travolta in un attimo la faccia del conte, sovrasta alle spalle di lui.

Intorno intorno a lui un corruscar di faville e di fiamme verdi, brune e sanguigne. Un mar di fuoco presso presso gli ondeggia d’ogni lato; e dentro vi brulica la ciurma infernale. In un subito mille veltri infernali prorompono aizzati a fracasso su dalla voragine."

Da quel momento, il conte è destinato alla sua terrificante punizione eterna: correre a rotta di collo tra i boschi e le campagne, di giorno a terra e nelle grotte, di notte nel cielo, urlando contro la propria sorte "Ahi, me misero! Misero!", sempre inseguito dai latrati e dai rumori dell'inferno, dai mostri che lo accompagnano senza lasciarlo mai (suggestione dell'Apocalisse?), tenendo la testa sempre rivolta alle spalle, costretto a vederli, ed incitato dallo spirito del cavaliere malvagio. La ballata si conclude così:

"Tale è la caccia della ciurma feroce; e dura e durerà fino al dì del giudizio. Spesso nella notte ella passa innanzi al vagabondo a spaventarlo e inorridirlo. E testimonianza ne potrebbe far tuttavia la lingua d’assai cacciatori, se per altre ragioni non convenisse a loro il silenzio."

Edgar Allan Poe, alla cui arte ho reso tributo ricordandolo nel post sulle danze macabre nel Romanticismo, descrive una situazione decisamente affine a quella dei miti che abbiamo visto nel suo primo racconto dato alle stampe (nel 1832), forse meno noto rispetto ai suoi capolavori più celebri, ma non inferiore per la suggestione che offre, intitolato "Metzengerstein" (il titolo originale è "Metzengerstein: A Tale in Imitation of the German).
Illustrazione di Byam Shaw per Metzengerstein, 1909.
Il giovane Frederick, viziato e crudele rampollo della famiglia Metzengerstein, in secolare competizione con la famiglia Berlifitzing, una volta ereditata la fortuna di famiglia e dopo aver dato dimostrazioni della propria crudeltà, culminati nell'incendio della stalla della famiglia rivale, che ha provocato la morte dell'anziano capofamiglia William, scopre, la stessa notte dell'incendio, in una sala, un enorme arazzo con un cavallo di un colore fulvo mai visto, che a un certo punto sembra muovere gli occhi e guardarlo con espressione umana mentre lui lo osserva.
Poco dopo, viene chiamato dai suoi uomini per segnalargli l'improvvisa comparsa nel castello di un cavallo di cui nessuno riconosce l'appartenenza, il cui manto è dello stesso colore di quello del quadro e che sulla fronte porta le iniziali WMB, da tutti ritenute quelle di William von Berlifitzing, morto nell'incendio.
Il cavallo manifesta un'attitudine inquietante, infernale, non può essere domato da nessuno è aggredisce i servitori, ma Metzengerstein, forse per affinità d'animo, vi riesce. Il cavallo diviene la sua principale ossessione, egli si dedica alla bestia tutto il suo tempo e man mano che ciò accade accusa un malessere sempre più acuto. Infine, durante un altro episodio notturno, il castello di Metzengerstein prende fuoco a sua volta, e il cavallo carica verso le fiamme tirandosi dietro il barone, dandogli così la morte. L'atto finale è l'emanazione di un'enorme nuvola di fumo a forma di cavallo, segno che Berlifitzing ha trascinato il nemico all'inferno.
Il racconto è straordinariamente suggestivo anche per via dei modi in cui il significato della vicenda viene sì rivelato, ma solo attraverso dettagli e allusioni, sì che senza essa parrebbe soltanto il racconto di un prodigio e di strane apparizioni: esempi sono la frase in latino, citazione di Martin Lutero, che apre la storia: "Pestis eram vivus - moriens tua mors ero" ("Da vivo ero la tua piaga, morendo sarò la tua morte"), e i riferimenti alla dottrina della metempsicosi all'inizio del racconto, secondo la quale l'anima ha la possibilità di trasmigrare attraverso i corpi. E d'altra parte, le pratiche sciamaniche dei popoli più antichi sono molto legate, come si è visto, alla storia della caccia selvaggia.


Giosuè Carducci, nel riscoprire le leggende e il folklore d'Italia nella sua raccolta "Rime nuove", ricorda una delle storie che hanno per protagonista Teodorico, guida della caccia presso il Bel Paese e soggetto di molte leggende medioevali, forse per via della sua confessione ariana piuttosto che cattolica, forse per le numerosi morti di cui si macchio in vecchiaia, quando era divenuto sospettoso verso tutti i suoi collaboratori e tentava di liberarsene, e magari anche in quanto Goto, quindi barbaro, che aveva regnato sull'Italia. Di certo, la maggior parte delle figure storiche su cui sono state narrate così tante storie, hanno conseguito questo successo anche per via di un fattore comune, la grandezza.
Bassorilievo con la leggenda di Teodorico, presso San Zeno.

Su ’l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l’aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.

Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d’Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.

Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú;
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.

Il gridar d’un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d’òr. —
Fuor de l’acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.

— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea:
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d’un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrí.

Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l’apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no ’l vollero seguir.

In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale,
E lontan d’ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria,
Ma staccar non se ne può.

Il piú vecchio ed il piú fido
Lo seguía de’ suoi scudieri,
E mettea d’angoscia un grido
Per gl’incogniti sentieri:
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne’ tuoi be’ dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí.

Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? —
— Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand’io ritornerò. —

Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covria,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fe’;
E terribile scendeva
Dio su ’l capo al goto re.

Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s’immerge ne la notte,
Ei s’aderge in vèr’ le stelle.
Ecco, il dorso d’Apennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tósco mar.

Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l’ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.

Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un’ ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.

A Lovecraft, in un anno e mezzo di blog, ho accennato solo in un paio di occasioni. È un autore cui intendo concedere uno spazio esclusivo come fatto con Tolkien, ma in questo caso citerò soltanto quella parte della sua produzione che ci interessa.
I suoi modelli principali sono la cultura classica, le Mille e una Notte e la letteratura fantastica del suo tempo, ma possedeva evidentemente anche alcune nozioni di tradizioni nordeuropee. Rielaborazioni di quanto già possedeva, incubi personali e l'immaginario collettivo dell'uomo, sono forse le cause per cui posso includere i Magri Notturni in questa rassegna.
I Magri Notturni (Nightgaunts) sono demoni alati, pallidi, smilzi, e soprattutto sprovvisti di volto. Volano nottetempo sulla città (ci troviamo ormai nel XX secolo) e rapiscono gli esseri umani per condurli in un altro mondo: direi che la sostanza ci sia eccome.
Questo è quanto dice Lovecraft su di loro nell'omonima poesia della raccolta "Funghi di Yuggoth":
Da quale cripta siano strisciati, non so dirlo,
Ma ogni notte io vedo quelle cose gommose,
Neri, cornuti, snelli, con ali membranose,
Loro vengono in legioni sulle raffiche del vento del nord
Con osceni artigli che pungono e solleticano,
Strappandomi via viaggi mostruosi
In mondi grigi nascosti profondamente nel pozzo degli incubi.
Oltre i picchi dentellati di Thok mi trascinano,
Insensibili alle urla e alle suppliche che tento di fare,
E giù nelle caverne sotterranee a quell’osceno lago
Dove gli shoggot sguazzano nel loro sonno dubbioso.
Ma ah! Se solo emettessero un suono,O se solo vi fosse una faccia dove dovrebbe esserci!
I Magri derivano da alcuni incubi avuti da Lovecraft nella sua tormentata infanzia, ma si integrano nel suo universo narrativo, dove, come traspare da alcuni racconti, conducono le loro vittime in altri mondi dove vivono altre creature. Nella fattispecie, sono legati al dio Nodens, un dio marino tratto dal pantheon celtico, che il mitopoieta americano evidentemente conosce; è molto interessante il fatto che il Nodens celtico sia legato, oltre che al mare, alla caccia e alle mute dei cani.
Vivono nella Terra dei Sogni, dove fanno la guardia al monte di Ngranek, sotto il quale si trovano i Ghoul, mostri che nel folklore arabo cui appartengono sono non morti o demoni che si nutrono di cadaveri, e che in Lovecraft mantengono solo le abitudini antropofaghe e l'aspetto bestiale, ma non lo stesso legame con il mondo dei morti -per quanto la vita e la morte, nella poetica del nostro, siano meno nettamente definite che nella nostra percezione. Proprio ai Ghoul i Magri Notturni portano talora vittime sottratte al mondo umano.

Non è difficile comprendere che il punto di arrivo della caccia selvaggia nella narrativa contemporanea sia nelle forme che assume nei racconti o romanzi che continuano il genere dei poemi e delle saghe in cui l'abbiamo trovata per prima, quelli che si suole raggruppare col nome di fantastici.
Proprio grazie a Tolkien (e Boccaccio, di cui ho parlato nel post precedente) ho colto l'esistenza di questo tòpos e della sua antichità e ricorrenza, alcuni anni fa, ed è dall'interesse natomi allora che questi post hanno avuto inizio. Il caso che ho notato più recentemente è quello, ne Lo Hobbit (1937), durante l'attraversamento di Bilbo e dei Nani della foresta di Boscoatro (Mirkwood), della comparsa di un cervo bianco, che come già ricordato sopra presagisce, nel folklore celtico, un episodio o un incontro sovrannaturale.
Racconti sulla caccia - Pascal Young
Poco dopo, il gruppo è tratto in inganno dagli Elfi, che compaiono nelle radure con fuoco e cibarie davanti alla compagnia affamata e scompaiono appena questa prova ad avvicinarsi.
Nel Silmarillion (pubblicato postumo nel 1977, ma le cui storie sono state realizzate in plurime versioni a partire dal 1917), si è già ricordato in più post della Guerra dell'Ira alla fine della Prima Era e dell'attacco delle Potenze d'Occidente alla fortezza di Morgoth, con un poderoso esercito di Ainur, Valar ed Elfi, che immaginiamo muoversi nel cielo da Aman alla Terra di Mezzo passando sul mare. La battaglia ricorda fortemente il Ragnarök, proprio in vista del quale Odino guida gli Einherjar nel mito antico. Il richiamo più forte, comunque, lo vedo nel romanzo dell'Anello.

In quanto cavalieri non morti (anche se non nel senso comune) i nove Ringwraiths, Spettri dell'Anello, Nazgul in Lingua nera, che dominano nella prima parte de Il Signore degli Anelli e si ripresentano gettando la loro ombra nei capitolo successivi fino a prendere parte alla guerra ne Il ritorno del re, potrebbero essere ascritti a questa rassegna.
"I Nazgul" di Ted Nasmith.
I Nazgul sono antichi re degli Uomini che ricevettero nove anelli del potere da Sauron, l'oscuro signore, attratti dalla menzogna con la quale egli corruppe tutti i suo servi: la promessa di non morire. Gli anelli del potere, per chi non ci avesse fatto caso, hanno fondamentalmente una funzione della quale le altre sono manifestazioni: permettono di separare le cose dallo scorrere del tempo e dalla distruzione che esso comporta, garantendo agli esseri mortali di non morire (come accade a Gollum e a Bilbo), o nel caso degli Elfi, che non temono per la propria morte, la conservazione dei luoghi e della bellezza del mondo che essi sanno essere soggetta al decadimento. I nove re tennero quegli anelli fino ad esserne consumati, e a poco a poco si allontanarono dal mondo fisico e visibile per passare sempre più tempo nel mondo spettrale dell'invisibile, finendo per non poterne più uscire. Questa una nuova, terribile forma della negromanzia adoperata da Sauron, maestro nell'arte del controllare gli spiriti. Celati da armature e mantelli neri sotto i quali nessun volto fu visto mai più essi servirono Sauron grazie alle abilità ottenute dal loro stato -immortalità, immunità al sonno, alla fame, alla sete o a qualunque malessere fisico, e un pericoloso fiuto che li attirava inesorabilmente verso gli altri anelli del potere, come dei cani da caccia- essi non potevano essere uccisi a meno che un incantesimo non spezzasse la stregoneria (gul) che li teneva in vita, e vagavano per la terra di mezzo su cavalli neri allevati (e forse sottoposti anch'essi alla magia) proprio allo scopo di tollerare la presenza degli Spettri dell'Anello, insopportabile per qualunque altro essere vivente.
I Nazgul a cavallo come ce li ha trasmessi il cinema.
Perduti quei cavalli nel Signore degli Anelli a causa di Glorfindel, un eroe di guerra degli Elfi, essi riapparvero in seguito sul dorso di enormi animali volanti chiamati Ombre alate (Fell-beast), residui di un'epoca molto più antica (d'altra parte quando Tolkien scrive l'esistenza dei dinosauri è già stata scoperta) dotati di lunghi colli e ali sorrette da membrane di pelle come quelle dei pipistrelli. Insomma, non avrei voluto dilungarmi così tanto, ma salta all'occhio che i Nazgul si manifestano sia come cavalieri spettrali "terrestri" che, in una fase più avanzata, come cavalieri volanti.

Quello che ci interessa, comunque, è che una caccia selvaggia autentica, o meglio, un esercito di anime autentico, nel libro c'è ed è perfetto.
Si tratta del capitolo Il passaggio della Grigia Compagnia, costituita da Aragorn, Legolas, Gimli e i raminghi del nord, o Dúnedain, guidati dai figli di Elrond, Elladan ed Elrohir, per aiutare Aragorn nella guerra dell'Anello e nel cammino che lo porterà a restaurare il potere regale a Gondor.
Aragorn aveva scrutato nel Palantír, la "pietra veggente" messa in comunicazione con le sue simili sparse per la Terra di Mezzo che permettevano, benché con certi rischi, di apprendere informazioni importanti. Il Palantír mostrò ad Aragorn che per raggiungere Minas Tirith avrebbe dovuto raggiungere i porti di Umbar, base di corsari alleati di Sauron: nemici numericamente superiori, ma le cui navi avrebbero permesso all'esercito di Aragorn di raggiungere Minas Tirith in tempo per vincere l'assedio di Sauron. Dalla pietra, invero, Aragorn apprese anche che per raggiungerla sarebbe dovuto passare attraverso la rocca di Erech, nei sentieri dei morti.
Il popolo che viveva sotto la montagna del Dwimorberg, il Monte Invasato, presente nella Terra di Mezzo molto tempo prima della venuta di Elendil dall'ovest, aveva giurato ad Isildur di aiutarlo nella guerra contro Sauron; ma quando c'era stato bisogno di loro, gli uomini della montagna non avevano manteuto il giuramento. E Isildur li aveva maledetti, riducendoli in uno stato di sospensione che ci ricorda quello delle anime penitenti nei vari cortei medievali: costretti nella montagna, essi sarebbero rimasti sospesi per sempre in uno stato di non morte fino a quando l'erede di colui che li aveva maledetti non lì avesse liberati dal giuramento.
"Il re dei traditori" di Ted Nasmith.
Aragorn citò la profezia di Malbeth, un indovino Dúnedain della Terza Era che aveva predetto l'impresa di Aragorn:
Vedo già sulla terra una lunga ombra,
Mutarsi ad occidente in buia tenebra.
Trema la Torre; e vicino è il destino
Alle tombe dei re. Sorgono i Morti,
E giunta è l'ora per i traditori:
Di nuovo, in piedi sulla Roccia di Erech,
Udran sui colli lo squillar di un corno.
Chi suonerà? Chi, dalle grigie tenebre,
Quella perduta gente chiamerà?
L'erede di colui che allor tradirono
Verrà dal Nord, sospinto dal bisogno,
E varcherà il Cancello che separa
Le nostre vie dai Sentieri dei Morti.
Quindi riportò le parole che aveva adoperato Isildur, rivolgendosi al re del popolo della montagna: «Tu sarai l'ultimo re. E se l'Occidente risulterà più forte del tuo Nero Padrone, possa su te e sul tuo popolo cadere la mia maledizione: non conoscerete riposo finché non manterrete il vostro giuramento. Questa guerra durerà innumerevoli anni e voi sarete convocati ancora una volta prima della fine.»
Dopo il triste commiato da dama Eowyn, che avrebbe desiderato seguirli, i compagni cavalcarono sotto un cielo grigio fino al Monte Invasato, ai piedi del quale trovarono una profonda gola, e dinanzi a loro, la roccia di Erech e la Porta Nera.
La Grigia Compagnia passò attraverso i sentieri dei morti, e nonostante il terrore, pervenne alla Rocca di Erech: qui Aragorn convocò i morti. E i morti gli risposero.
Novello Artù, l'erede di Isildur guidò coloro che erano sospesi attraverso il suo sentiero, e dopo che questi ebbero conquistato le navi, li liberò dalla maledizione. E grande fu il terrore di quanti, da lontano, scorsero la Grigia Compagnia e l'esercito dei morti:

«Trovarono la cittadina e i guadi del Ciril deserti, perché molti erano partiti in guerra e tutti coloro che erano rimasti avevano cercato riparo sulle colline alla notizia dell'arrivo del Re dei Morti. Ma l'indomani l'alba non apparve; la Grigia Compagnia avanzò nelle tenebre della Tempesta di Mordor e scomparve dalla vista dei mortali; ma i Morti la seguivano.»

(I passi citati derivano tutti da "Il Signore degli Anelli", capitolo "Il passaggio della Grigia Compagnia", Bompiani 2003, traduzione di Vicky Alliata di Villafranca riveduta e corretta dalla Società Tolkieniana Italiana.)

"I sentieri dei morti" di Darrel Sweet.

Ora, finalmente, è arrivato il momento che questo post, oltre che portare a compimento il discorso intrapreso, introduca un argomento che tra qualche tempo, non a breve ma neanche dopo troppo, sarà uno dei pilastri dell'Anima del Mostro insieme a Tolkien. L'argomento in questione è la serie di videogiochi Dark Souls. I Dark Souls sono videogiochi di ruolo giapponesi, realizzati da From Software, la cui ispirazione in termini di estetica e di narrazione è quasi esclusivamente occidentale. Figure e archetipi del nostro Medioevo e della nostra tradizione fantastica, orchestrati secondo la geniale sensibilità e il talento del game designer Hidetaka Miyazaki, sono alla base di uno dei risultati più superlativi dell'arte umana nella contemporaneità. Ma questo non trasparirà oggi.
Lord Gwyn nel prologo di Dark Souls, attorniato dai suoi cavalieri.
Il re degli dèi del mondo di Dark Souls, Gwyn, signore della luce solare (abbastanza verosimile che il suo nome derivi dalla parola gallese per 'bianco', dato che è anche fondatore della Via bianca, cioè della disciplina dei miracoli, la magia sacra, e che tra l'altro non può non ricordare i miti sulla caccia selvaggia presso il Galles visti nel post precedente), deriva da una felice sincretismo di Odino e Zeus, poiché si manifesta come un venerabile patriarca dall'aspetto vigoroso (almeno, quando lo vediamo all'inizio del gioco) con abiti di foggia arcaica, un'enorme spada simile a quelle dei vichinghi e il potere di scagliare enormi lampi contro i suoi avversari. Oltre che per il suo aspetto, il sacrificio che compie e altri aspetti che esaminerò quando il fulcro del mio discorso verterà su Dark Souls, Gwyn ricorda il Padre di Tutto per via dell'armata di cavalieri, i Cavalieri d'Argento, che egli crea intorno a sé e che guida nelle sue battaglie, similmente agli Einherjar; in realtà, comunque, in questo è ispirato a re Artù e ai suoi cavalieri (non che questi siano estranei alla caccia selvaggia), soprattutto perché i cavalieri di Lord Gwyn sono impegnati in una cerca (quest).
Questi cavalieri, a loro volta, sono distinti, nell'epoca in cui si svolge la narrazione, in due varianti, quella dei Cavalieri d'Argento che vigilano ancora ad Anor Londo, la città degli dèi, e quella dei Cavalieri Neri, cavalieri di Gwyn le cui armature sono state annerite dalla fiamma del Caos, e che errano come spiriti vuoti. Cavalieri del cielo e cavalieri infernali, volendo forzare.
I Guardiani dell'Abisso nel prologo di Dark Souls III.
In Dark Souls III, anche se qui il legame è più blando, figura la Legione dei non morti di Farron (si noti che, nel mondo di Dark Souls, la maggior parte dei personaggi è costituita proprio da non morti), capeggiata dai Guardiani dell'Abisso. Viene raccontato da Hawkwood, il non morto arreso che è fuggito dalla Legione stessa e siede al Santuario del Legame del Fuoco, che i Guardiani hanno giurato di combattere l'Abisso, il mondo di tenebra in costante espansione che distrugge la mente di coloro di cui fa preda, e che "non appena un regno dava segnali di cedimento all'Abisso, i Guardiani intervenivano e lo radevano al suolo". Immagine il cui pensiero ho trovato inquietante.
Se pensiamo che una delle meccaniche di base di questa serie di giochi è l'invasione, da parte degli avatar dei giocatori (che sono non morti), dei mondi di altri giocatori, in cerca della loro anima (o meglio, di quella parte oscura che si chiama umanità) e che questo li accomuna a una variante di nemici, i mostruosi Spettri oscuri (Darkwraiths), si può vedere Dark Souls come un lontano parente della caccia selvaggia. Si ricordi comunque che il gioco è giapponese, per quanto ispirato fortemente dalla cultura occidentale.
Un ultimo appunto su Dark Souls è che vi figurano piccoli demoni simili ai Magri notturni lovecraftiani, e anch'essi afferrano i personaggi per portarli da un luogo all'altro.

Concept art della caccia selvaggia
per The Witcher 3 - Wild Hunt.
La storia maggiore in cui si nomini espressamente la Caccia selvaggia e in cui abbia il ruolo più rilevante è la saga di Geralt di Rivia, i racconti e i romanzi di Adrzej Sapowski meglio noti con il titolo, mutuato dalla serie di videogiochi che ne è stata tratta, The Witcher.
La prima menzione alla Caccia selvaggia è in uno dei racconti del secondo volume  (il cui titolo italiano è "La spada del destino"), fatta dalla maga Yennefer che cita la storia del folklore locale secondo la quale la Caccia selvaggia arriva in inverno e porta la neve con sé, mentre il protagonista, Geralt, osserva che si tratta "solo" di una leggenda elfica per spiegare il gelo invernale. Una delle fondamenta di questa serie è infatti il complesso gioco tra fantasia concreta e fantasia nella fantasia: l'ambientazione e i personaggi rientrano nei cliché nel genere fantasy moderno, con popolazioni costituite da razze diverse tra elfi, nani e vari altri, ma questi sono descritti nelle loro usanze e rapporti interrazziali in maniera fortemente realistica, e così come questi sono presentati come "reali", essi si rivolgono ad altre presenze della mitologia e del folklore, o situazioni come quelle delle fiabe classiche, come a fantasie e superstizioni.
Della caccia selvaggia, le storie dicono anche che compaia nelle notti di luna piena, che porti via con sé tutti coloro in cui si imbatte, che sia un presagio di guerra e di disastri futuri - e ciò accomuna la sua percezione in quel mondo a quella che ha nel nostro.
In realtà, almeno qui, la caccia selvaggia esiste eccome, e la si incontra per la prima volta nel sesto libro "La Torre della Rondine". Il corteo di spettri perseguita la piccola principessa Ciri di Cintra, figlia adottiva di Geralt, a causa del suo enorme potere magico, ma mantiene il proprio stato di corteo di esseri non morti. Nel videogioco, dove alcuni elementi vengono alterati, la caccia è costituita da elfi chiamati Dearg Ruadhri, "cavalieri rossi" nella lingua degli elfi (qui molto simile a quelle celtiche), appartenenti al popolo degli Aen Elle, elfi provenienti da un altro mondo rispetto a quello in cui è ambientata la storia: le due dimensioni si sono sovrapposte durante un cataclisma chiamato "Congiunzione delle Sfere", che ha causato la nascita della magia e delle creature sovrannaturali nel mondo di The Witcher, dove anticamente non esistevano. Nel primo titolo della serie essi braccano Geralt all'inizio della storia, causandogli un'amnesia che lo perseguiterà fino al secondo capitolo, e hanno fattezze e qualità di autentici spettri; nel terzo, in cui i cavalieri hanno un'importanza centrale il titolo del gioco è "The Witcher 3 - Wild Hunt"- , ritornano ancora una volta all'inseguimento di Ciri. Sono combattenti spaventosi per la loro abilità e per le armature dall'aspetto scheletrico che indossano, sono abili nell'uso della magia, possono volare sui loro destrieri e sono accompagnati da cani di ghiaccio che ricordano i Cwn Annwn gallesi: si dice, come si diceva anche dei loro antesignani mitologici, che talvolta questi cani si dipartano dal gruppo e solchino il cielo da soli, venendo così scambiati per stelle cadenti.
Il re della caccia selvaggia si chiama Eredin, mentre i suoi luogotenenti più fedeli sono il guerriero Imlerith e il marinaio Caranthir. All'inizio del gioco, inoltre, compaiono insieme alla nave Naglfar, che secondo le credenze degli uomini delle isole Skellige è un segno della fine del mondo e sarà fatta delle unghie dei morti, costruita per la battaglia finale -egualmente alla mitologia nordica, dove la medesima nave con le medesime caratteristiche è citata nella profezia della Völuspa.

Per concludere con un altro parallelismo con i post sulla danza macabra, segue una piccola rassegna della caccia selvaggia nella musica.
Franz Liszt ritorna anche qui, grande interprete della cultura romantica tedesca, con l'ottava composizione dei suoi 12 Studi d'esecuzione trascendentale, chiamata Wilde Jagd.
Si tratta di un brano veloce e incalzante, un "presto furioso" secondo l'indicazione iniziale, che fa immaginare bene l'arrivo del corteo chiassoso e disumano.




L'episodio del passaggio della Grigia Compagnia dà il titolo a una delle canzoni più celebri dei Summoning, che con le loro tastiere, nel non troppo lontano 1995, hanno ricreato le sensazioni del passaggio attraverso la rocca di Erech, e di quanti, da lontano, videro la compagnia di Aragorn avanzare alla testa del popolo dei morti. Il testo normalmente riportato su Internet è quello inglese della profezia di Malbeth, ma non corrisponde perfettamente quando lo si ascolta, e i Summoning dichiarano di non avere più a portata di mano i testi di quegli anni.
Il testo originale della profezia di Malach, scritto da Tolkien, è questo:



Over the land there lies a long shadow,
westward reaching wings of darkness.
The tower trembles, to the tombs of kings
doom aproaches. The dead awaken,
for the hour is come for the oathbreakers;
at the stone of Erech they shall stand again
and hear there a horn in the hills ringing.

Whose shall the horn be? Who shall call them
from grey twilight, the forgotten people?
The heir of him to whom the oath they swore.
From the North shall he come, need shall drive him.
He shall pass the door to the path of the dead.

On your knees...
The grey company is arriving now...



I Watain, gruppo Black/Thrash Metal svedese, hanno intitolato "The Wild Hunt" il loro quinto album, dove si trova la traccia omonima che si può ascoltare qui accanto. Il carattere pagano della caccia selvaggia, insieme a motivi (frequenti in testi di questo genere) di rimpianto del passato e dell'antica religione emergono in un brano malinconico ma non privo di epicità.


Dawnless - So it seems this sacred night.
Havenless - Beneath black sails with no land in sight.
Fathomless - The depths that lay before us now
Lawless - Before the courts of men we must not bow.

And so it was, when we were young;
We left the path, followed the sun
As it sunk into the netherworld to shine in Darkness.

Thus rose aflame a sacred star.
A God's reply.
And who were we to deny such a splendid design and the answer to our cries?

Thus it rose to wage war.
And its rays, they reached far

To the nights spent hunting,
When the dawn was our sign to tell
It was time to sleep again.
To our fellow hunters,
In whose hearts gleamed the spark
That later became our destiny (and tomb, for some).

If we had only known them.
If we had only known...
We were not meant to know then.
Good we did not know, good we did not bow!

We made it rise from the ash.
We made it rise from the tears.
In likeness to He who brought Fire;
The Fallen's sacred flame.

Il veicolo che ha favorito la conoscenza di questa storia presso molte persone qui in Italia è una spettacolare canzone dei Furor Gallico contenuta nel loro primo album, omonimo della band, "La caccia morta". Il testo si rifà al folklore lombardo, dove la caccia è conosciuta proprio con questo nome; ripropone sia la sua associazione al diavolo, frutto di rielaborazione medievali, che la sua originaria appartenenza al paganesimo, e rende la visione del suo fatale passaggio attraverso l'alternarsi di una parte iniziale acustica, dove la storia viene cantata come se appartenesse a un mondo lontano, e la successiva esplosione negli strumenti e nella voce, che gettano in mezzo al turbine di spettri.

"Le cime scintillano di strani bagliori
La realtà, il suo confine è mutato ormai
Uomo di fede non guardare cosa accade fuori

Sulle montagne c'è una strana danza
Voci d'inferno, strider di catene
Che l'eco riporta di balza in balza
C'è chi dice sono spiriti o dannati cacciatori

È arrivata tra noi la caccia morta
Caccia del diavolo bussa alla tua porta

Offuscati da leggende cristiane
Stanotte è tempo di iniziazioni guerriere
Ecco, risorgono le deità pagana
Seguite da fiammeggianti fiere

Occhi di brace conquistano il villaggio
Gli uomini di fede si rivolgono alla croce
Ti vogliono portare con sé nel loro viaggio
O tornare sulla terra invece?"

(Testo di Elisabetta Rossi)

E così si conclude la cavalcata della caccia selvaggia. Ci sono state tantissime storie non solo da raccontare, ma anche da disporre in un sistema che le tenesse insieme. E ciononostante, da raccontare ce ne sono molte di più. Quando ho cominciato a dedicarmi a questo mito, avevo compreso che ci fossero più che i pochi esempi che conoscevo, ma non avrei pensato di trovarne così tanti, e di ritrovarlo, grazie alla molteplicità delle forme che può assumere, anche in storie in cui a un primo impatto non avrei pensato fosse presente. Tante storie che sembrano quasi non finire mai.
"Non terminano mai i racconti" disse a suo tempo Frodo a Sam "Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi... o fra breve."
Spero a questo punto, o tu che per tutte queste notti sei passato e ti sei fermato ad ascoltare, abbia trovato qualcosa di quello che cercavi. In tutte le storie, in fin dei conti, si cerca di trovare sé stessi, e se si è bravi ad ascoltare, o a leggere, ci si trova sempre. Che tu sia un dio o un demone, che tu sia vivo o morto o in bilico tra i mondi, spero sia riuscito a trovarti, e di vedere anche te, il prossimo inverno o la prossima luna piena, seduto sul destriero della tua anima a solcare il cielo.

Bibliografia

Dondeynaz, Xavier, La caccia selvaggia e le sue leggende, Virtuosa-Mente, 2009
Poe, E. A., Racconti del terrore, Oscar Mondadori 1985
Tolkien, J.R.R., Il Signore degli Anelli, Bompiani, 2000