mercoledì 30 dicembre 2015

Il risveglio di Star Wars - parte I

Non ci riesco a scrivere un post sulla fine dell'anno. Tanto è solo una data. Avevo pensato di farlo, ma è passato più di una settimana da quando ho visto Il risveglio della Forza (e cinque giorni da quando l'ho visto per la seconda volta), e ho un bisogno irrefrenabile di parlarne, perché ha avuto su di me un impatto più forte di quanto mi sarei aspettato.
Naturalmente, questo post contiene SPOILER. Per chi non volesse rovinarsi la visione del film (che è uscito da due settimane), ma sentisse la necessità di sapere se mi sia piaciuto, sappia che mi è piaciuto.
Può smettere di leggere da qui.

Orbene, nei mesi di attesa del film, molto sinceramente, non provavo una particolare attesa. Il mio pensiero era "Ma perché?". A cosa serviva una nuova trilogia di Star Wars, che oltretutto aveva avuto sinora un finale, tra i miei preferiti in assoluto, che non aveva bisogno di aggiunte? Soprattutto, non capivo bene chi sarebbe stato il protagonista, perché al centro della locandina c'era questa ragazza, Rey, ma nei trailer la spada in laser era in mano al suo amico, Finn, si sapeva che sarebbe comparso Luke Skywalker ma gli indizi su di lui erano pochi.
In compenso, c'era questo nuovo antagonista, Kylo Ren: tunica e mantello con cappuccio tutti neri, una maschera sul volto per completare l'effetto Darth Vader, e una spada laser rossa con guardia a croce (che ha fatto sudare qualche grammo di grasso liquido a qualche nerd ciccione e conservatore), di discutibile praticità nel combattimento ma visivamente una favola. L'idea basilare di Sith che abbiamo tutti, tanto che è stato lui, in questi mesi, a dominare merchandise, immagini pubblicitarie, i pacchetti delle gomme da masticare, un sacco di artwork che lo mettevano in mezzo ai Sith della vecchia esalogia. Insomma, il cattivo che attirava e ispirava così tanto, mentre dei buoni non fregava niente a nessuno. Men che meno a me.
Adesso il mio giudizio è un po' il contrario, ma di questo parlerò alla fine (cioè nel prossimo post).
Ebbene, com'è il film? C'è una nuova forma di potere dispotico e totalitario che ha raccolto ciò che restava dell'Impero, cioè il Primo Ordine; c'è una Repubblica, che è stata fondata dai Ribelli della vecchia trilogia e che viene spazzata via a metà del film dalla Starkiller, la versione estrema della Morte Nera (ossia, invece di una stazione spaziale delle dimensioni di una luna, in grado di sparare un laser con cui distruggere un pianeta, abbiamo un pianeta intero trasformato in un'arma che distrugge cinque pianeti alla volta); e poi abbiamo una Resistenza che combatte il Primo Ordine, con Leia, i droidi, e soprattutto l'ammiraglio Ackbar, che sono tornati a fare quello che facevano prima.
Aggiungendo a questo il fatto che il film inizia con una battaglia fra il nemico e una piccola base della Resistenza, che informazioni importanti sono affidate a un droide, che la protagonista ha vissuto per anni su un pianeta desertico a fare cose monotone e che in breve tempo le sono state affidate le sorti della galassia, che si ha la morte di un vecchio eroe dentro la nuova Morte Nera e che questa poco dopo viene distrutta con tanto di reazione a catena messa in moto dalle esplosioni in uno stretto condotto, molte persone hanno concluso che si è trattato di un mezzo remake, di una imitiazione, di troppi punti in comune, di mancanza di inventiva, di ripetizione.
E invece io dico che quella che sembra una ripetizione, è la dimostrazione di qualcosa di molto più serio.

Avevo indicato, nel precedente post su Star Wars, qualche punto di contatto fra Star Wars e la Terra di Mezzo. Sono due delle maggiori saghe fantastiche del nostro tempo in termini di profondità, di ricchezza dell'ambientazione, e di quanto universali e umane, quindi epiche, siano le loro vicende.
Ora, alla base della storia della Terra di Mezzo, dal Silmarillion al Signore degli Anelli, vi è il concetto di una progressiva caduta: c'è il bene, c'è il male, il male distrugge il bene e si sostituisce ad esso finché il bene, magari grazie alla tendenza autodistruttiva del male, riesce a distruggerlo, instaurando un nuovo ordine inferiore al precedente e che il male, dopo qualche tempo, distruggerà di nuovo, poiché nessuno dei due scomparirà mai. Nella Terra di Mezzo il male non scompare mai, e in Star Wars, semplicemente, è accaduto lo stesso.
Alla fine de Il ritorno dello Jedi vengono meno l'Imperatore, la Morte Nera e molte delle sue forze, ma non tutte. Esse hanno potuto riorganizzarsi. E analogamente, poiché non può esserci equilibrio nella Forza senza il Lato Oscuro, esso è riapparso sotto forma del leader supremo Snoke, il principale antagonista, e di Kylo Ren, che stava apprendendo le vie della Forza da Luke ed è passato al Lato Oscuro.
Certo, viene da dire che i vecchi eroi hanno fallito: Luke doveva addestrare nuovi Jedi e ne è derivato un quasi Sith, con i suoi cavalieri di Ren (sono quasi certo che Ren, quando terminerà l'apprendistato, sarà ufficialmente un Sith), Leia ha rimesso in piedi la Repubblica ed essa non esiste più, mentre lei guida l'ennesima resistenza, e Han Solo ha perso suo figlio, cioè Ren, ed è tornato a fare il contrabbandiere.
Ma a conti fatti, in quali occasioni gli eroi trionfano davvero?
Come diceva Schopenhauer, partendo dal presupposto che il dolore sia la condizione normale della nostra esistenza e la felicità una breve parentesi, le storie a lieto fine ci sembrano tali perché il narratore lascia calare il sipario dopo che i personaggi hanno raggiunto il loro scopo, nell'esatto momento in cui sono felici: se andasse avanti, li vedremmo correre dietro a qualche altra cosa, affrontare nuove insidie. Dopo l'Odissea vedremmo Ulisse ripartire e trovare la morte oltre le Colonne d'Ercole, dopo i funerali di Ettore vedremmo la sua città che viene bruciata; dopo la visione di Dio, Dante non si ritroverebbe ancora in una Firenze marcia e corrotta? Anche Tolkien aveva iniziato una storia ("The New Shadow", di cui scrisse una dozzina di pagine prima di decidere di non continuarla) ambientata dopo la caduta di Sauron, una storia in cui gli uomini, dimentichi della Guerra dell'Anello, ricominciavano a seguire il male.

Ma Star Wars è così bello anche perché ci ha dimostrato come il male non prevalga mai indeterminatamente, anche se adesso è tornato è possibile sconfiggerlo, e in questo primo episodio, come già in quello del lontano 1977 del quale è additato come copia, lo abbiamo visto perdere colpi.
Se anche dovesse esserci una trilogia dopo di questa, e poi un'altra, e poi un'altra ancora, vedremmo che dopo la vittoria del bene il male ha ripreso il sopravvento, vedremmo il bene vincere e poi perdere e poi vincere di nuovo. È un ciclo, ma non è un ciclo anche il nostro universo?

giovedì 24 dicembre 2015

La magia del Natale

Nel generale, e legittimo, sentimento di eccitazione per Star Wars -ancora maggiore per chi l'ha visto, data la quantità di interrogativi che la sua visione ci pone di fronte- abbiamo avuto meno degli altri anni la possibilità di pensare al Natale. Ma prima che le campane suonino a festa e il vecchio sulla slitta prenda il volo, l'Anima del Mostro vuole dire cosa ne pensa del Natale.
Anche perché, con rammarico, con paura, con disgusto, si rende conto di come anche una cosa come il Natale, in quest'epoca marcia, debba essere criticata e messa in discussione da esseri umani di dubbia...ebbene, di dubbia umanità.

Riflettiamo sulla parola "Natale". Non suscita un sentimento luminoso? Luce, luci colorate, allegria, dolcezza, calore, colori come il rosso, il bianco, il verde. Non suscita qualcosa di buono?
Non ci sono altri eventi per i quali le città cambino il loro aspetto allo stesso modo, luci ovunque, insegne, grandi alberi addobbati. È uno dei pochi riti ancora praticati da una società che dei riti si sta a poco a poco sbarazzando, e se riesce a sopravvivere è perché questo rito ha un grande potere. Ma come reagiscono le persone al suo potere?
«Si tratta di una festa consumistica!»
«Ma nasce per un motivo religioso!»
«Lo Stato dovrebbe essere laico!»
«Le radici dello Stato sono cattoliche!»
«Le radici del Natale sono pagane!»
E addio magia.

Il problema della magia non sta tanto nel fatto che la gente non ci crede, quanto nel fatto che crede di non averne bisogno.
Si crede di più che le cose, a un certo punto, siano troppo vecchie e vadano buttate. Se una cosa è così vecchia, non può rispondere alle esigenze della modernità.
Certo, l'atmosfera natalizia è più sentita dai bambini. È intorno a loro che ruota tutto: si può dire che la storia di Babbo Natale, nata intorno alla figura di San Nicola ed evolutasi per rimanere sempre credibile per i bambini delle varie epoche, sia il perno intorno al quale ruota la moderna concezione del Natale. È invece una seccatura per i grandi, dato che loro devono comprare tutti quei regali e spendere tutti quei soldi.
Ma si tratta davvero di spendere dei soldi e basta? Si tratta davvero dei bambini e basta?
Io sento invece che si tratta di qualcosa di più: un momento in cui riponiamo fiducia nella spiritualità, in cui proviamo a pensare che la nostra realtà, fisica e contingente, non sia tutto e non sia la cosa più importante, che ci sia un piccolo spazio al di fuori di essa, indipendente, in cui i nostri sentimenti hanno un valore e in cui ci rendiamo conto che le cose che immaginiamo sono belle e ci importano, e anche se non possiamo dire che esistono esse vivono in noi ed è bello che sia così. I nostri desideri, il nostro amore per i cari, questo è il Natale. E chi volesse obiettare perché non sopporta le riunioni con la famiglia, ebbene, i suoi particolari problemi familiari non significano che tutte le famiglie del mondo siano problematiche.

Per me, il Natale non ha perso la sua valenza religiosa, è una delle festività più importanti del cristianesimo e lo festeggio perché riguarda qualcosa di basilare in una concezione del mondo che è anche la mia. E per quanto sia vero che parte dei suoi rituali derivi dalla festa di Yule del mondo celtico e germanico, e si ricolleghi ai Saturnalia della civiltà romana, -tolto il fatto che si è semplicemente sovrapposto ad essi, ma nasce per motivi diversi e nasce in epoca abbastanza antica-, è un dato di fatto che abbia continuato a esistere per secoli e secoli fino a giungere a noi, mentre per tante tradizioni antiche non è stato lo stesso.
Il Natale, adesso, ha un valore che si è consolidato e ci riguarda, anche volendone mettere in discussione le origini. È parte integrante della nostra cultura, ed è una tradizione, non importa come è nata (o meglio, importa eccome, ma non è un motivo per abbandonarla), conta di più quello che è diventata.

È quasi il momento, il vecchio si è seduto sulla slitta e Scrooge sta avendo degli screzi con i suoi fantasmi. Non posso andare oltre, o questo post  apparterrà al Natale passato e non a quello presente.
A tutti, indistamente, un lieto, bianco, rosso, verde, e santo, buon Natale.

giovedì 17 dicembre 2015

Star Wars: la Forza è potente e imprevedibile

In questo periodo un avvenimento di estrema attualità sta turbando le nostre abitudini, alterando la nostra realtà, sconvolgendo il nostro secolo; e benché non mi piaccia trattare di attualità in questa sede, oggi non posso esimermi dal farlo: devo parlare di Star Wars.

Il fenomeno mediatico che sta accompagnando l'uscita di Star Wars episodio VII: Il risveglio della forza, di J.J. Abrams, sta causando stupore in tutti, me compreso, fino a risultare stressante, soprattutto per quei piccoli Jar Jar cui il film non interessa. Eppure, se consideriamo da quanti fenomeni e mode antipatici e inutili siamo assaltati nel corso dell'anno sul web o in pubblicità, trovo giusto che, per una volta, si parli di una cosa bella.
Star Wars è bello perché ha segnato un'intera generazione, quella dei giovani degli anni 70 e 80, catapultati in una galassia così lontana lontana che nessuno l'avrebbe immaginata prima di vederla nella prima, leggendaria trilogia di George Lucas, considerata quasi unanimente la migliore, fra le due uscite finora. Per molti Star Wars è più che sei film (ora sette e fra qualche anno dodici) e svariate decine di fumetti, videogiochi e romanzi: è una storia serbata nella parte più intima del cuore, legata a sentimenti intensissimi, in grado di parlare a tutti noi perché, come i grandi classici, anche se ambientata in luoghi e tempi molto lontani, parla all'umanità che vive in ciascuno di noi.
È riduttivo parlare di una generazione sola: dal 77 in poi, la trilogia originale è stata tramandata, i grandi l'hanno fatta vedere ai giovani, i genitori ai figli, e nel frattempo, fra il 1999 e il 2005, è uscita la nuova trilogia, che ha conquistato altri cuori adoranti, diviso gli appassionati per l'enorme quantità di nuove informazioni e discrepanze rispetto alla trilogia precedente, e ingrandito il mito, perché in una grande galassia teatro di così tanti avvenimenti non può non nascere una ricca e affascinante mitologia.


La trilogia degli anni Duemila è anche quella con cui, per motivi anagrafici, sono stato introdotto alla storia e alla galassia lontana lontana. Il mio impatto è stato diverso da quello di chi ha visto i film in ordine di uscita, ma allo stesso tempo mi ha permesso di provare emozioni possibili solo in questo modo.

La galassia lontana lontana è piena di pianeti ricchi di vita, popolazioni di varie razze nate dalla fantasia degli autori, per la maggior parte riunite nella Repubblica cui, alla fine del terzo episodio, subentra l'Impero, che domina con la sua ombra sinistra tutta la vecchia trilogia. Questa galassia ha una storia, un sistema di ripartizione del tempo, dei linguaggi, delle tradizioni, in maniera simile a quanto fatto da Tolkien con la Terra di Mezzo ma ad opera di molte più persone, anche attraverso quei libri e quei fumetti che costituiscono ciò che viene detto "Universo espanso", che non è considerato canonico rispetto alla continuity dei film, ma che è in ogni caso una grande creazione dell'immaginario umano, un prodotto di quella facoltà di creare mondi e dare loro una coerenza interna, che per Tolkien è il punto più alto della creazione artistica.

Orbene, questa galassia ricca di pianeti e razze aliene mi colpisce solo fino a un certo punto, nella misura in cui è un'ambientazione fortemente tecnologizzata e futuristica. E per quanto ammiri in partenza qualunque creazione dell'immaginario, ancor più se molto ricca e molto complessa, la fantascienza non si concilia né con l'estetica né con la poetica che ricerco in un'opera d'arte, a meno di legarsi a un tema che lo faccia -è il caso di Alien, Warhammer 40.000, Doom e altre eccezioni.
Ma Star Wars ha per me un fascino unico, e la causa di ciò è che vi si trovano temi che vanno oltre la fantascienza e le speculazioni tecnologiche; vi è una dimensione spirituale e metafisica, la quale costituisce la vera anima della saga, ed è la Forza di cui tutti parlano per ora.

«La Forza è quella che dà ai Jedi la possanza. È un campo energetico creato da tutte le cose viventi. Ci circonda, ci penetra, mantiene unita la galassia.»

È così che Obi Wan Kenobi, nel primo film della saga (l'episodio IV) definisce la Forza. La nuova trilogia suggerì un'interpretazione biologica, parlando di microscopiche forme di vita chiamate midi-chlorian all'interno delle cellule degli esseri viventi, responsabili dell'uso della Forza. Ma quasi nessuno ha mai apprezzato questa idea: la Forza è solamente la Forza, e permea la realtà rendendola unica e interamente partecipe di se stessa in ogni sua parte, che è parte del tutto. Vi è una mole di rimandi a filosofie orientali, ascetismo, e anche tradizioni occidentali come lo stesso cristianesimo o il druidismo, e onestamente conosco poco o affatto alcuni di questi. Quello che è certo è che la Forza è un pensiero filosoficamente ricchissimo e, indipendetemente dal riguardare un mondo nato dalla fantasia dell'uomo, assolutamente valido.

«Per oltre mille generazioni i Cavalieri Jedi sono stati i guardiani di pace e giustizia della Vecchia Repubblica."

I Cavalieri Jedi, coloro che sono in grado di utilizzare la Forza, sono la parte di questa saga che mi piace di più. Il loro è un ordine militare e monastico, i cui appartenenti sono i guerrieri migliori della galassia, ma anche i più eminenti pensatori e filosofi, poiché il loro allenamento è finalizzato alla conoscenza della Forza, conoscenza che permette dei benefici, come le loro abilità staordinarie, ma che è innanzitutto fine a se stessa.
Nella vecchia trilogia l'ordine è stato annientato, ma la nuova ce l'ha mostrato ai tempi della Repubblica, quando era numeroso, all'apice del suo potere, e già avviato verso la decadenza, come ogni cosa che abbia raggiunto la vetta: la nuova trilogia insiste molto sugli sviluppi politici della storia, focalizzando il passaggio dalla Repubblica all'Impero, e la fine dell'ordine Jedi. Soprattutto, la nuova trilogia inserisce un elemento che completa l'ambientazione, e la rende ancora più affascinante per molti: l'ordine dei Sith, contrapposto a quello dei Jedi.
Sarebbe semplicistico parlare di bene e di male, anche se lo scontro fra questi due è comunemente considerato il tema portante di Star Wars; mentre i Jedi studiano e praticano il Lato Chiaro della Forza, i Sith ricorrono al Lato Oscuro con cui la loro controparte non vuole avere a che fare. Ora, la Forza è una, un monismo assoluto, che permette di alterare la realtà come di distruggerla, di curare una ferita o di infliggerla, ma a consentire una qualunque di queste azioni è sempre la stessa Forza. Jedi e Sith sono innanzitutto due ideologie, esplicate dai rispettivi codici:

«Non c'è emozione; c'è pace.
Non c'è ignoranza; c'è conoscenza.
Non c'è inquietudine; c'è serenità.
Non c'è morte; c'è la Forza.»
(Codice Jedi)

«La pace è una menzogna, vi è solo passione.
Attraverso la passione, acquisto forza.
Attraverso la forza, guadagno potere.
Attraverso il potere, guadagno vittoria.
Attraverso la vittoria, spezzo le mie catene.
La Forza mi libererà.»
(Codice Sith)

"Sempre due ce ne sono, né più, né meno. Un maestro e un apprendista." Questi sono il maestro e i tre apprendisti che si sono susseguiti nei film.


I Sith puntano all'individualismo, alla realizzazione di se e dei propri desideri, ad assecondare le proprie passioni laddove i Jedi imparano a dominarle in favore di una rinuncia all'inquietudine e al desiderio personale che causa dolore, per vivere in armonia con se stessi e con l'universo (in maniera simile al buddhismo), un tutt'uno con la Forza che i Sith vedono come uno strumento per compiere la loro volontà, mentre per i Jedi è il fine. E mi preme argomentare questo, poiché personalmente trovo difficile schierarmi con l'una o con l'altra ideologia. Farlo non è solo uno scrupolo da nerd, ma una prova per pervenire alla conoscenza di se stessi, e pervenire alla conoscenza è uno degli obiettivi di questo blog. Questa volontà di conoscenza, la pratica dell'introversione, e la consapevolezza che la mia libertà non deve limitare quella degli altri mi porterebbero a condividere il pensiero dei Jedi; ma rinunciare alle emozioni, alle passioni e alle stesse inquietudini distrugge la parte più preziosa della mia umanità, poiché proprio le inquietudini sono il motore delle mie azioni e della mia spinta a migliorare me stesso e gli altri. Eppure la libertà dei Sith è una libertà pericolosa, non perché svincolata da qualunque controllo, ma perché mira unicamente al potere e alla soddisfazione personale, ignorando gli altri a costo di distruggerli; inoltre, la ricerca del potere rischia di consumare l'uomo che la operi, perché non si sazierà mai e lo porterà a distruggere se stesso alla fine di essa, come accade ai Sith dei film.

A conti fatti, entrambe le posizioni sono estreme, rischiose, e incomplete: Star Wars, nell'indurre queste riflessioni, porta alla conclusione che gli opposti sono necessari a mantenere un equilibrio, e senza uno dei due si degenera. Come ci insegna la storia del film, era necessaria la fine dell'ordine dei Jedi, il passaggio di Anakin al lato oscuro, la fine della stessa Repubblica, perché si realizzassero le condizioni affinché Luke Skywalker potesse permettere la distruzione dei Sith, operata attraverso lo stesso Anakin, che secondo un'antica profezia avrebbe dovuto "riportare l'equilibrio nella Forza" e che ci riesce in modo assolutamente inatteso. Un po' come la sconfitta di Sauron, compiuta grazie a Gollum. Sembrerà una battuta, ma non lo è, entrambe le storie dimostrano come il male finisca per ritorsi contro se stesso, risolvendosi, infine, nell'operare il bene. Un messaggio contenuto nei testi sacri, la chiave di lettura dell'opera di Tolkien,
la lezione finale di Star Wars. Sei film sono valsi la pena, per questa lezione. Chissà cosa ci insegnerà questa nuova trilogia, che prende atto dopo che tutto è già accaduto, ora che sappiamo cosa ha determinato cosa. Io non vedo l'ora di scoprirlo, e a tutti coloro per i quali vale lo stesso, che la Forza sia con voi.

giovedì 10 dicembre 2015

Espero di Mihai Eminescu: ovvero, le limitazioni dei mortali per gli immortali

È da più di un mese che non scrivo di letteratura. In realtà, non intendo parlare di letteratura più di quanto non voglia fare con tutti gli altri mezzi dell'arte e dell'uomo, attraverso i quali è stato espresso ciò di cui mi interessa parlare. Ma poiché, dalla presentazione iniziale, ho suggerito l'idea che questo sarebbe stato l'argomento principale -o perlomeno mi sono convinto di averlo fatto- ho pensato di dedicare questo post a una delle opere letterarie che preferisco. E attenzione, perché sono sicuro che la conosceranno in pochi.
L'opera in questione è "Luceăfarul" di Mihai Eminescu, il più noto e celebrato poeta rumeno, recentemente dichiarata anche il più lungo poema d'amore della letteratura mondiale.
Luceăfarul, in rumeno, indica Venere, la stella del mattino. La tradizione ebraico-cristiana ha associato al nome di Lucifero la figura di Satana, quindi se mi riferissi al personaggio che dà il nome alla poesia chiamandolo "Lucifero" molti avrebbero paura di leggere quanto segue e mi accuserebbero di chissà che cosa, ma in questa poesia manca qualsiasi accezione negativa di questo nome, che si riferisce semplicemente a una stella e che diviene, nella traduzione di GeoVasile alla quale farò riferimento (e che trovate alla fine del post), "Espero".

Parliamo, dunque, di una stella, una stella personificata, membro di quel mondo superiore e perfetto cui appartengono gli astri, gli dei, gli angeli. E parliamo della fanciulla che si rivolge a questa stella.
Lei è una fanciulla splendida e nobile, che ogni notte guarda dalla sua finestra e vede questa luce che "guida nere navi"; anche Espero, dalle sommità celesti, la vede, e se ne innamora, penetrando nella sua stanza che pervade della sua luce, simile a Zeus che penetrò nella torre in cui era stata chiusa Danae mutandosi in pioggia dorata. Allora, lei lo chiama perché venga vicino a lei, e lui si tuffa nel mare per riemergerne in aspetto umano. Tale scena si ripete per ben due volte, e in entrambe, Espero offre il suo amore e tutta l'eternità alla fanciulla, separato però dalla mortalità di lei, che se da una parte lo desidera, dall'altra lo respinge, dicendogli "io sono viva, tu morto".
Entra poi in scena un terzo personaggio, Catalin, un giovincello scherzoso e un po' sfacciato che corteggia la fanciulla (da lui apprendiamo che lei si chiama Catalina, a meno che io non stia ignorando qualche caratteristica della lingua rumena e questo sia un soprannome o un nome parlante), e ne ottiene le grazie in favore della promessa di un amore vicino, presente, immediato, non di un ideale appartenente a un piano slegato dalla mortalità.
Nel frattempo, Espero si innalza attraverso il cielo, raggiunge le sommità dell'universo per rivolgersi all'ultimo personaggio del poema, il Padre, Dio: per potersi privare dell'immortalità e divenire mortale, avendo la possibilità di stare con la fanciulla.
La risposta del Creatore è molto fredda, molto razionale: non ha senso, per un essere eterno ed unico, divenire un essere umano come ce ne sono milioni, che muoiono e nascono sostituendosi a un ritmo estraneo ai temi insondabili degli astri del firmamento. Per questo, quando il Padre mostra ad Espero i due amanti sdraiati sull'erba e lei gli si rivolge chiamandolo ancora una volta, lui le risponde chiamandola "volto di polvere", e accusando gli esseri mortali tutti della loro meschinità, della loro subordinazione al caso, disprezzabile per lui, eterno, freddo, alto.

Sarebbe consigliabile leggere il testo del poema, che si trova alla fine del post, per seguire i ragionamenti che arrivano adesso. Ho scritto qui sopra il riassunto della vicenda per chi non abbia voglia o tempo, ma naturalmente un riassunto non può trasmettere le stesse cose.

Questa è una delle mie opere poetiche preferite, e la condivido perché mi piacerebbe fosse conosciuta di più.
Innanzitutto per la ricchezza evocativa, propria del linguaggio di un poeta che si può inquadrare nel tardo romanticismo, e che quindi dipinge paesaggi in cui la natura e le luci sono spie dei sentimenti e degli stati d'animo. I termini sono quelli del sublime, il cielo e il mare infiniti, gli abitanti di queste dimensioni divine, e la dimensione è quella fra realtà e sogno, per cui le apparizioni di Espero hanno sempre quel sapore di onirico, sono nascoste da quella patina che ci confonde la vista impedendoci di mettere bene a fuoco la realtà.
Mi è molto caro il tema dell'immortalità, o meglio, dell'esistenza di esseri immortali che si confrontino con gli uomini mortali, sicché di ogni razza vengano messi in luce i vantaggi e gli svantaggi; è qualcosa che ben si ricollega all'Anima del Mostro, dato che anche questi esseri mi piace includere nella definizione di "mostro", cioè di elemento che crea stupore. E sinceramente mi entusiasmano i dialoghi fra queste creature eccelse, ancor più se avvengono tra una di loro e Dio stesso. Anche se qui Dio appare, come ho detto, freddo e impietoso nei confronti degli umani, cui non sembra dare molta importanza, forse perché il poeta aveva bisogno di esprimere un messaggio ben preciso attraverso questo personaggio, o forse per la sua personale visione religiosa. Suggestivo è anche che Espero sia chiamato, dal Padre, Iperione, che nella mitologia greca è uno dei Titani, padre delle divinità luminose Elio, Eos e Selene, e che significa, in greco antico, "al di sopra", "più sopra".

Ma ancor più che per questi motivi, la poesia di Eminescu mi sta a cuore perché riflette una condizione esistenziale che penso di essere in grado di comprendere: quella dei limiti delle creature più alte, degli animi nobili ricolmi di grandezza, nel vivere relazionandosi con esseri che non li comprendono.
Sento molto, quando leggo Espero, l'eco dei versi de "L'albatro" di Baudelaire, un'altra delle mie poesie preferite, a proposito del poeta che, proprio perché la sua natura lo chiama a percorrere le vastità del cielo e le infinite profondità dell'anima e della conoscenza, da questa viene ostacolato e reso goffo nella vita quotidiana, nel rapporto con le altre persone.
Anche in Espero vedo -attribuendo alla poesia e ai personaggi dei simboli indipendentemente da quanto volesse dire l'autore- una metafora dell'artista o del poeta, che non riesce in ciò che cerca di fare a causa della propria grandezza. La sua vicenda però ha una portata più precisa, una valenza particolare cui si può, a posteriori, dare una valenza universale e conferire un valore esistenziale simile a quello del testo baudelairiano, ma che nasce con intenzioni diverse: la storia di Espero è una storia d'amore, legata a un sentimento particolare in base al quale si inseriscono i quattro personaggi. Lui prova un forte sentimento verso la fanciulla che lo guarda e lo chiama, e dinanzi a lei mette in mostra le sue prerogative ("sono figlio del cielo e del mare, del sole e della notte") invitandola a seguirlo verso un futuro che sarebbe, in qualsiasi caso, più di quanto qualsiasi mortale possa sperare. E per quanto riesca a capire la perplessità di lei, la difficoltà anche solo nell'immaginare di percorrere gli spazi oltreumani di cui parla l'angelo-stella, non posso non pensare a quanto grandiosa sarebbe potuta essere la sua vita, se lei fosse stata pronta a seguirlo; penso anche a come il suo rifiuto mi sembri acquisire una valenza terrena e realistica, se mi fingo nel pensiero un uomo che tenta di far colpo su una donna con una poesia o un dipinto, e lei che lo rifiuta perché non le piace l'opera che lui ha realizzato. E a quel punto, provo dispiacere per Espero.

Pure, questa difficoltà sarebbe comprensibile e forse anche superabile: consideriamo che Espero si dichiara pronto a rinunciare a tutto ciò che è, pur di stare con lei, e chiunque si rende conto di quanto impegnativo sia un sacrifico del genere. Voglio dire, è lodevole un sentimento del genere. Ma alla fine del poema mi si insinua sempre in corpo una sottile vena di condanna, se penso al fatto che lei abbia preferito Catalin. Catalin è un ragazzo come ce ne sono tanti, come probabilmente ne abbiamo incontrato tutti qualcuno: perdigiorno, ardito e anzi sfacciato, probabilmente non ha piani più impegnativi che ottenere qualche piacere dalla ragazza; la quale si risolve nel darglielo, sia pure dopo delle resistenze e dopo aver fatto due volte il nome di Espero, nel momento in cui si rende conto che ha molto più senso stare con un suo simile che con un essere divino che per lei è un morto.
Come il Creatore, anche lei sceglie la soluzione più razionale.

Espero non conclude, come ci si potrebbe aspettare, opponendo il proprio punto di vista a quello di Dio o della donna, rivendicando una qualche forma di diritto personale a privarsi ugualmente dell'immortalità, un atto di eroismo. Non opera nessuna conciliazione fra i due mondi, ma resta chiuso nel suo, rendendosi conto, una volta visti i due amanti, che ciò che gli ha detto il Padre è vero e che gli esseri mortali sono regolati dall'immediatezza e dalle necessità che derivano dal loro essere effimeri, e non è possibile legarsi a una di loro. "Tanto non le importa se sono io o un altro."
Il finale è amaro, e il gelo della risposta dell'angelo è tale da raffreddare anche il mio cuore quando la leggo. Ma se la storia di Mihai Eminescu fosse stata quella di un essere superiore che avesse sacrificato la propria superiorità per divenire a sua volta un essere effimero regolato dal caso, essa non avrebbe avuto un valore così rilevante, avrebbe avuto una morale scontata, quasi giustificatrice nei confronti della pochezza umana che invece attacca. Eminescu conclude così, e se devo leggervi un messaggio -perché le belle storie sono il messaggio che mi interessa di più, senza dovere aggiungere morali o lezioni- leggo che un essere come Espero non deve sacrificare la sua natura, anche se ciò lo fa soffrire: essere chiamato a qualcosa di più grande significa avere un dovere, un compito da portare a compimento, e quella grandezza non è gratuita, ma un valore da rispettare. Il fatto che i più, coloro che non capiscono, ostacolino questo compito, non deve portare alla resa dei titani, ma spingerli a continuare; e il fatto che anche l'amore sembri loro precluso per questo motivo, non deve distoglierli dalla loro impresa, perché le persone che trovano l'amore sono molte, mentre Espero ce n'è uno solo.


Èspero

C'era una volta come mai,
Così narran le fiabe,
Una fanciulla senza pari,
Di gran ceppo regale.
Ed era unica ai parenti,
Stupenda fra le belle,
Com'è la Vergine fra i santi,
La luna fra le stelle.
Dall'ombra delle volte altere
Lei suo passo volge
Alla finestra, appartata,
Sta Èspero aspettando.
Guardava all'orizzonte come
Sui mari sorge e splende,
Sui sentieri ondeggianti
Lui guida nere navi.
Lo vede oggi, lo rivede,
Così il desio spunta;
Pur lui, mirandola da tanto,
Di lei si innamora.
Quando lei poggia sulle braccia,
Sognando, le sue tempie,
D'amor struggente si riempe
Il cuore nonché l'alma.
E quanto vivido s'accende
Suo raggio ogni sera,
Sull'ombra cupa del palagio:
Che lei si mostrerà.
* * *
E a passo a passo dietro lei
Lui filtra nella stanza,
Tessendo un laccio di bagliore
Dai suoi freddi raggi.
Pur quando si adagia al letto
La figlia per dormire,
Le sfiora il petto e le mani,
Le chiude il dolce ciglio;
E dallo specchio irraggiando
Innonda il suo corpo,
Gli occhi chiusi che palpitan,
Il suo viso assorto.
Lei lo guardava sorridente,
Lui nello spechio avvampa,
Giacché nel sogno l'inseguiva
Per irretirle l'alma.
E lei nel sonno sospirando,
Gli parla con gran pena:
Oh, tu signor delle mie notti,
Perché non vieni? Vieni!
Scendi da me, Èspero blando
Fluendo su un raggio,
Pervandi casa e pensiero,
Rischiara la mia vita!
Lui ascoltava abbrividendo,
Più vivo s'accendea
E come folgore piombava,
Nel mare affondando;
E l'acqua ove è caduto,
In cerchie s'arruota
E dal profondo più occulto
Un fiero giovin sorge.
Al par di soglia varca lui
Il davanzale, lieve,
E tiene in mano un bordone
Di canne coronato.
Pareva un giovin voivoda
Con chiome d'oro molle,
Un velo livido s'annoda
Alle ignude spalle.
E l'ombra del diafan volto
È cereo candore -
Un morto bello, dagli occhi
Viventi di bagliore.
- Dalla mia sfera venni appena,
Risponderti al richiamo,
Il cielo ho per mio padre,
Per madre, ho il mare.
Che nella tua stanza venga,
Guardarti da vicino,
Col mio azzurro sono sceso
E nacqui dalle acque.
Oh, vien! tesoro senza pari,
Il mondo abbandona;
Io sono l'altissimo Èspero il superno
E tu mi sarai sposa.
Là, nei palagi di corallo,
Per secoli di fila
Il mondo dell'oceano, intero,
Sara per ubbdirti.
- Sei bello come solo in sogno
Un angelo s'affaccia,
Ma io mai camminerò
La via che mostrasti;
Straniero il motto, il cospetto,
Tu brilli senza fiato,
Che io son viva, tu sei morto,
Il tuo occhio, ghiaccio.
* * *
Passò un giorno e poi tre
Ed Èspero, di notte,
Sta risorgendo su di lei,
Nei suoi raggi, vero.
Onde di lui, nel suo sonno,
Dovette ricordare;
L'anelito le morde il cuor
Per il signor dell'onde:
- Scendi da me, Èspero blando
Fluendo su un raggio,
Pervadi casa e pensiero,
Rischiara la mia vita!
Quando dal cielo la udì,
Si spense di dolore,
Il ciel si mise a rotear
Dov'egli si disperde;
Purpuree nell'aria fiammate
Pervadon tutto il mondo,
E dalle faglie del caos
Si plasma un fiero volto;
Sopra le sue nere chiome
Il serto par che bruci,
Giungea a volo in verità
Flutto d'ardor solare.
Dal nero velo si dispiegan
Marmoree le braccia,
Avanza assorto, triste, lui,
E pallido in faccia,
Sol gli occhi grandi e profondi
Chimerici risplendon,
Due aneliti mai sazi
Di tenebra ricolmi.
- Dalla mia sfera venni appena
Per ubbidirti ancora,
Il sole ho per mio padre,
Per madre ho la notte;
Oh, vien tesoro senza pari,
E abbandona il mondo;
Io sono Èspero il superno
E tu mi sarai sposa.
Oh, alle tue bionde chiome
Io appenda serti astrali,
Perché nei miei cieli spunti
Piu fiera degli astri.
- Sei bello come solo in sogno
Un demone s'affaccia,
Ma io mai camminerò
La via che mostrasti!
Dal tuo crudo amor mi dolgon
Del petto i precordi,
I grandi occhi grevi angoscian,
Il tuo sguardo arde.
- Come vorresti ch'io scenda?
Tu non hai mai compreso
Che io sono fuori morte
Mentre tu sei mortale?
- Non cerco apposite parole,
Né so come spiegarmi -
Benché tu parli chiaramente,
Non posso penetrarti;
Ma se tu vuoi che in buona fede
Io t'abbia sempre caro
In terra scendi a trovarmi,
Sii come me, mortale.
- Mi chiedi l'immortalità
In cambio di un bacio.
Eppure voglio che tu sappia
Quanto io possa amarti;
Sì, nascerò con il peccato,
Subendo un'altra legge;
Sono legato all'eterno,
Slegato voglio esser.
E se ne va... Se ne andò.
L'amor per la fanciulla,
Dall'orbita del ciel lo sradicò,
Parecchio tempo spento.
* * *
In questo mentre, Cãtãlin,
Infante assai furbo,
Che empie i calici di vino
Degli ospiti al convivio,
Paggio che porta a passo a passo
Lo strascico regale,
Abbandonato trovatello
Ma dallo sguardo audace,
Con due gote l'imbroglione,
Peonie vermiglie,
Lui si insinua furtivo
Guardando Cãtãlina.
Oh, come bella mi sbocciò!
E altera! Da nel cuore;
Sù, Cãtãlin, tocca a te
Metterti alla ventura.
E dolcememte, di passaggio
La prese in un angol;
- Che vuoi, sta' buono, Cãtãlin!
Ma bada ai fatti tuoi.
- Che voglio? Tu non stia più
Soprappensiero sempre,
E rida invece e mi dia
Un bacio, solo uno.
- Non so neppur che mi domandi,
Lasciami star, va' via -
Per Èspero del cielo, ahi,
Mi colse un duol di morte.
- Se non lo sai, t'insegnerei
L'amore a poco a poco,
Ma non sdegnarti, ci vorrebbe
Del bello e del buono.
Qual cacciator che mette al folto
Il laccio all'uccello,
Allorche un braccio porgerò,
Tu cingimi col braccio;
E i tuoi occhi si trattengan
Nei miei occhi, intenti...
Se per la vita t'alzerò,
Sollevanti sui piedi;
Quando ripiego il mio volto,
In alto ferma il tuo,
Ci guarderemo dolcemente
Per sempre vagheggianti;
E che l'amore pienamente
Ti sia rivelato,
Quando baciandati m'inclino,
Rispondimi con baci.
Lei dava ascolto al garzone,
Stupita e distratta;
E vereconda e carina,
Non vuole eppur si lascia.
Poi sottovoce: -Ti sapevo
Così sin da bambino;
Pettegolo e perdigiorno,
Saresti un par mio...
Ma un Èspero, emerso da
La quiete dell'obblio,
Dà orizzonte infinito
All'eremo del mare.
E di nascosta abbasso gli occhi,
Che il pianto me li affoga
Quando dell'acqua l'onde scorron
Verso di lui viaggiando;
Con senza pari amore splende,
Per spegnere il mio duolo,
Solo che sempre piu s'innalza
Che giungerlo non possa.
Pervadon tristi i freddi raggi
Dal mondo oltreumano,
Per sempre l'amerò ma sempre
Se ne terrà lontano...
Sicché i miei giorni sono
Deserti come steppe,
Le notti invence - fascino divino -
Che non posso intender.
- Tu sei ingenua e come...
Su, scappiam pel mondo!
Di noi le tracce andranno perse
E ci oblieranno.
Saremo tutt'e due saggi
Saremo lieti e salvi;
Non più rimpiangerai parenti
Né èsperi vorrai.
* * *
Si mosse Èspero. Ai cieli
Sue ali aggrandivan,
Correvan vie di millenni
In altrettanti istanti.
Un ciel di stelle al di sotto,
Di sopra un ciel di stelle -
Sembrava fulmine incessante
Fra d'esse tumultuando.
Dal cupo caos dei burroni,
A sé intorno in giro
Vedeva, come al primo giorno,
Le luci scaturire.
E scaturendo lo avvolgon
Come dei mari, a nuoto -
Lui vola - spirito che anela,
Finchè scompare tutto.
Che dove giunge non c'è fine,
Né occhio che conosca,
Invano il tempo si ingegna
Di nascere dal vuoto...
Non vi è nulla, pure c'è
La sete che l'assorbe,
Un cupo vuoto che pareggia
Il più cieco obblio.
- Dal peso del brumoso eterno,
Scioglimi, sacro Padre,
Ti sia il nome lode eterna
Sull'universa scala;
Chiedimi, Padre, ogni prezzo,
Ma dammi un'altra sorte,
Giacché tu sei fonte di vita,
Dispensator di morte;
Toglimi il nimbo immortale
E il fuoco degli sguardi,
E dammi in cambio di tutto
Un attimo d'amore...
Dal caos sono nato, Padre,
Ritornerei nel caos...
Sono il figlio della quiete,
Anelo alla quiete...
- Iperion che dai burroni
Spunti coll'universo,
Non chieder segni e prodigi
Che non han nome e volto;
Tu vuoi valere quant'un uomo,
Rassomigliarti a loro?
Periscan gli umani tutti,
Ne nasceranno ancora.
Solo nel vento essi plasman
Deserti ideali -
Quand'onde trovan una tomba,
Addietro sorgon onde;
Essi han solo le lor stelle,
Di buona e mala sorte,
Noi oltre tempo, oltre spazio
Siamo oltre morte.
Del grembo, dell'eterno ieri
Vive l'oggi che muore,
Un sole se si spegne in ciel,
Ancor s'accende sole.
Di sorgere per sempre illuso,
Morte l'incalza e pasce,
Che tutti nascon per morire
E muoion per rinascer.
Ma tu, Iperion, perduri
Dovunque tramonti...
Chiedimi ii detto primordiale -
Offrirti la saggezza?
Vuoi ch'io dia a quella boca,
Tal voce che il canto
Rimuova i monti e le selve
E l'isole del mare?
Vuoi forse compiere coi fatti
Giustizia e valore?
Il mondo a pezzi di darei
A farne il tuo regno.
Ti do velieri e velieri,
Eserciti a percorrer
In lungo e in largo l'orbe,
La morte non consento...
Per chi vuoi tu morire, sai?
Rivolgiti e torna
A quella terra errabonda:
Vedrai ciò che t'attende.
* * *
Al suo posto destinato
Risale Iperione
E come tutti i giorni d'ieri,
Riversa la sua luce.
Giacché la sera è al tramonto,
La notte sta calando;
La luna sorge piano piano
Tremante, dalle onde.
E inargenta di faville
I sentier dei folti.
Sotto il filar di alti tigli
Due giovini sedean.
- Accogli la mia fronte al seno,
Amore, a riposare
Ai raggi del sereno occhio
Inenarrabil dolce;
Col fascino del freddo lume
Pervadi i miei pensieri,
Eterna quiete spandi su
La notte di tormenti.
Del tuo raggio vegliami
A spegnere il mio duolo,
Che il mio primo amore sei
E l'ultimo mio sogno.
Dall'alto Iperion guardava
Quant'eran trasognati;
Appena lui le cinse il collo
Che lei lo abbracciava...
Odoran fiori argentini
E cadon, dolce pioggia,
Sui capi di quei pargoli
Con bionde lunghe chiome.
Ebbra d'amore, lei innalza
I suoi occhi. Vede
Il suo Èspero. Gentile
Gli affida i desii:
- Scendi da me, Èspero blando,
Fluendo su un raggio,
Pervadi il bosco, il pensiero
Rischiara la mia sorte!
Lui tremola com'altre volte
Sui boschi e sui colli,
Guidando solitudini
Di tumultuose onde;
Ma più non piomba come allora
Nei mari dagli alti:
- Che importa te, volto di polve,
Se fossi io od altri?
Vivendo nell'angusto cerchio
Vi fa da scorta il fato,
Mentre nel mio mondo sono
Eterno, freddo, alto.

(Traduzione di Geo Vasile)

giovedì 3 dicembre 2015

Digimon: la prima grande storia che abbia conosciuto- parte II

Torniamo a parlare dei Digimon, la prima grande storia che mi ha segnato.
Ho già accennato al fatto che i Digimon mi piacquero fin da subito a causa del loro aspetto: esso poteva essere mostruoso, maestoso, inquietante, leggiadro o evocativo, una varietà che rispecchiava tantissime forme e gusti diversi, e questo non pregiudicava il loro schieramento dalla parte del bene o del male. Qui c'è qualcosa che sta alla base dei miei gusti e interessi, il fatto che mi piacciano così tanto i mostri e il loro aspetto, che sia abituato a vederli perdere davanti al kalòs kai agathòs, l'eroe buono e il cui aspetto non genera spaesamento, senza artigli e senza squame; ma che preferisca di gran lunga un'altra situazione, quella in cui l'azione eroica, quella che riempie di pathos e di emozione, viene compiuta da un mostro, perché indipendentemente da quello che pensino gli altri lui non è schierato automaticamente da una parte piuttosto che da un'altra: ha la sua autonomia e la possibilità di scegliere cosa fare.
Paildramon vs Triceramon.
Non è limitato da quello che è per gli altri, e ti porta a domandarti cosa sia in realtà. Le lotte corpo a corpo fra Digimon simili a draghi e demoni, o scontri a mezz'aria fra guerrieri con armature asimettriche, tutte queste cose mi riempivano di quell'emozione e di quel senso di ammirazione in maniera diversa dai canoci scontri fra il cavaliere buono e quello cattivo, e mi riempiono ancora quando le rivedo.

A questo, poi, si ricollega un altro tema: nei Digimon il bene e il male non sono fissi e non sono banali. Quasi tutti gli antagonisti hanno dietro di sé chiare motivazioni e una personalità ben definita che corrisponde alle azioni che compiono, e con alcuni si riesce a simpatizzare. Non solo, ma nelle varie serie si assiste alle storie eroiche di personaggi partiti come emissari del male, distruttori o perseguitori del proprio fine egoistico, che a un certo punto cambiano, scelgono gli altri e la vita, e nella maggior parte dei casi mettono a repentaglio la propria. Alcuni la perdono, e quei momenti mi hanno segnato più degli altri.
Un caso su cui voglio soffermarmi è quello di BlackWarGreymon, forse il mio personaggio preferito in Digimon Adventure 02: un Digimon creato artificialmente da un altro Digimon malvagio con lo scopo di eliminare i protagonisti, che però non riconosce l'autorità del proprio creatore e combatte per se stesso. Nel corso delle battaglie si rende conto però di non avere idea del perché lo faccia, giungendo a domandarsi il perché delle sue battaglie e della sua stessa vita: "vorrei capire perché esisto". E per quanto al tempo questa storia mi colpisse e mi facesse riflettere, solo in seguito ne ho riconosciuto la reale portata: in un cartone animato fatto per dei bambini, un personaggio -un nemico, tra l'altro- si poneva i grandi interrogativi universali cui tuttora nemmeno noi siamo riusciti a rispondere! E lo faceva con una profondità che mi parla ancora, attraversando un percorso complesso ed eroico culminante, dopo aver accettato i consigli dei "buoni", che gli parlavano di amicizia e di vivere la vita cercando di essere felici, con il sacrificio per una persona che nemmeno conosceva. E che pianti, quando lo vidi accadere.
Lo scrivente, mentre cercava un'immagine da postare, ha avvertito una fitta al cuore ripensando a tutti quei momenti.
I Digimon mi hanno mostrato questa e molte altre storie individuali di grande valore, insieme all'unica storia epica che le riunisce, e mi hanno lasciato tante piccole lezioni di importanti: non arrendersi, fidarsi dei propri amici anche quando si ha paura di farlo, non permettere alla propria oscurità interiore di prendere il sopravvento. Mi hanno insegnato tantissimo sui rapporti di amicizia, su quelli con la propria famiglia, sul rapporto con l'altro, col diverso, così tante cose da non poterle elencare tutte.
Una delle più straordinarie, però, è il finale di Digimon Adventure 02, dopo la sconfitta dell'ultimo avversario e l'avvento della nuova, strabiliante possibilità, di viaggiare fra il mondo reale e quello digitale liberamente: tutti i protagonisti di questa serie e della precedente vengono mostrati da adulti, con i loro Digimon e le loro nuove famiglie, tutti con altri Digimon; alcuni hanno coronato i sogni che avevano, altri hanno scelto un lavoro o si sono sposati con persone che mai avrebbero ipotizzato di scegliere. Era una prima finestra, per dei bambini, sul futuro che aspetta chi cresce e va avanti, dal punto di vista di altri bambini che ci erano arrivati.
E non dimenticherò mai quando mio padre  (che ha visto con me tutte e quattro le serie trasmesse in Italia) disse in quel momento che quella che stavo vedendo era la vita, per come va davvero. Le ultime parole della serie, poi, erano rivolte, per la prima volta direttamente a noi, al pubblico; dicevano «Ci sono luci e ombre nella vita di tutti gli esseri umani e spesso il confine tra il bene e il male è molto sottile. Avrete tanti momenti felici e tante delusioni, tuttavia, finché terrete accesa la luce nel vostro cuore e allontanerete le tenebre, avrete la forza per trasformare i sogni in realtà e per lanciarvi in qualsiasi avventura.»

Tutti i personaggi di Adventure e Adventure 02 con i Digimon, i figli e i Digimon dei figli.
Beh, tutti tranne Davis, lui arrivava sempre in ritardo.
TK da adulto invece era il narratore delle due serie.










È dopo tutto questo, e dopo altre quattro serie (la terza, Digimon Tamers, un altro capolavoro, le successive un po' inferiori) che giunge Digimon Adventure Tri.
La notizia giunge l'anno scorso in estate, in occasione del quindicesimo anniversario dei Digimon (l'1 agosto, nella storia, è la data in cui i protagonisti della prima serie arrivano a Digiworld), e sconvolge tutti quanti. Nessuno se l'aspettava, o osava sperare una cosa del genere. La cosa più bella era che il trailer si rivolgeva esplicitamente "a tutti i digiprescelti del mondo" e diceva, citando frasi dell'anime, "questi Digimon sono cresciuti con noi, sono diventati nostri compagni" (e pensare che quella pubblicità che me li fece scoprire in quel lontano 1999 diceva anch'essa "diventeranno i vostri migliori amici"); si rivolgeva, dunque, a tutti quelli che come me avevano seguito la serie all'inizio e in quei quindici anni erano cresciuti ed erano cambiati, ma avevano lasciato un posto speciale nel proprio cuore per questo mondo e i suoi abitanti. Fu un'emozione incredibile, e l'attesa, di oltre un anno, costellata di teorie, speculazioni, speranze. Inizialmente si era parlato di una serie a episodi, poi fu chiarito che sarebbero stati sei film, ma nonostante il disappunto, quando vidi le prime immagini mi commossi come non mai.
Finalmente, ho visto questo film. È una premessa a quello che accadrà, non siamo per nulla nel vivo, ma intanto i vecchi eroi sono tornati e hanno combattuto i primi, spettacolari scontri.
La cosa più bella è proprio il loro ritorno. Nel film sono passati solo tre anni dal precedente, ma in qualche modo è come se gli autori fossero riusciti a riprodurre, non so perché mi sembri così, il lasso di tempo molto più lungo trascorso nella realtà.
Certamente mi sarebbe piaciuto poter scrivere un post incentrato su questo film, sulle mie impressioni e sulle teorie che mi sono venute in mente su questo film (basti dire che esso si apre con un racconto su un "Demiurgo" che crea il mondo, e sul caos che si diffonde in questa creazione), ma non avrebbe senso, sarebbe un post precluso a coloro che non conoscono la storia.

Ma mi auguro che, oltre alla mia strabordante passione per questo mondo, questi due post abbiano trasmesso curiosità, interesse, rispetto per qualcosa di così ricco e complesso, e per un cartone animato che contiene ben più di quello che basta ad intrattenere. Possibilmente, spero di aver dimostrato che un cartone animato, che nell'opinione media perde il suo valore una volta finita l'infanzia, ha in realtà un'importanza che va ben oltre, perché le storie belle, le emozioni umane e le lezioni di umanità, non conoscono età.
Ci sono molti modi per vedere tutte le stagioni dei Digimon, pagine Facebook, siti di streaming, posso indicarveli. E presso le stesse fonti è possibile vedere il nuovo film, che la community italiana ha prontamente sottotitolato. Così, nel continuare questo viaggio di eroismo, amicizia, paura e coraggio, cominciato sedici anni fa e ripreso dopo una lunga pausa, saremo di più.

Locandina di Digimon Adventure Tri.

lunedì 30 novembre 2015

Digimon: la prima grande storia che abbia conosciuto - parte I

Il mese di novembre di quest'anno lo attendevo per un evento straordinario, qualcosa che aspettavo da oltre un anno e che, prima di quell'anno, non avrei mai pensato sarebbe successa. Giorno 21 è uscito nei cinema giapponesi Digimon Adventure Tri - Saikai, cioè "Riunione" (che io ho visto il giorno prima grazie alle risorse di Internet).
Digimon Adventure Tri è una serie di sei film d'animazione, iniziata con quello che ho appena citato, che mostreranno una storia inedita dei protagonisti dell'anime Digimon Adventure, quello che uscì per la prima volta nel 1999, tre anni dopo gli eventi della seconda serie dell'anime, Digimon Adventure 02 (quindi sei anni dopo la prima). Ma perché sto parlando dei Digimon?
Ecco, io credo che quella dei Digimon sia stata la prima grande storia epica che ho conosciuto, e anche se non lo fosse, sarei lo stesso inequivocabilmente legato ad essa, perché le devo molto di quello che sono adesso.

Comincia tutto come per tanti bambini che adesso non sono più bambini (ma che non hanno ucciso la propria parte di bambino nel processo di trasformazione in grandi, quindi un po' lo restano): un giorno qualunque, in televisione, ho visto lo spot, mi sono rimasti impressi i mostri, il tema musicale (la sigla che ancora oggi tanti ragazzi e adulti canticchiano ancora) e ho deciso di vedere quella serie. Dopo di che, ho ricordi abbastanza confusi, in disordine, fra i vari episodi che mio nonno registrava sulle mitiche videocassette che dovevo riavvolgere ogni volta, i giocattoli di vario formato, trasformabili e non, comprati dai miei genitori -e lasciatemelo dire, erano infinitamente superiori ai giocattoli che vedo nei negozi adesso- e tutte quelle scene che mi sono rimaste impresse nella mente fino a divenire archetipi, criteri di catalogazione di tutti i contenuti acquisiti successivamente, figure cui associo le cose che scopro adesso. Ma sono ancora troppo vago.

I protagonisti della prima serie. Su cantate anche voi: "Tai, Matt, Sora, Izzy, Mimi e Joe...".
Digimon Adventure, che costituisce il franchise dei Digimon con i videogiochi, i manga e tanti altri prodotti di intrattenimento, narra di un gruppo di sette bambini (cui se ne aggiunge successivamente un'ottava) che vengono catapultati in un mondo parallelo, Digiworld, dove tutto, luoghi e creature, è costituito da dati informatici, come un enorme computer. L'isola in cui si ritrovano si chiama File, il continente che raggiungono dopo Server, la serie si inquadra in un periodo in cui l'uso del computer si stava affermando sempre di più ed era una novità, decisamente meno abituale rispetto ad oggi. I Digimon, gli abitanti di questo mondo, sono di una varietà infinita, e fra le tante peculiarità hanno quella di digievolvere, cioè assumere sembianze via via più complesse e maggiore potere; quella di passare attraverso livelli di evoluzione comuni a tutti (cioè Digimon dello stesso livello hanno una forza più o meno simile, un Digimon di un livello più alto di solito è più forte); quella di poter essere Antivirus, Dati o Virus, cioè buoni, neutrali o cattivi, e quello di essere ispirati ad animali, dinosauri, insetti, creature fantastiche, minerali od oggetti inanimati della nostra realtà. Come i Pokémon, con la differenza di saper parlare e soprattutto di poter svolgere un ruolo in un disegno più grande (in altri termini, il fine dei personaggi di Pokémon è competere fra loro e ottenere nuove creature, in Digimon sono tutti un po' più occupati a salvare il mondo e a comprenderlo. A questo proposito, i due franchise nascono più o meno contemporaneamente e in forme diverse, se vi dicono che i Digimon sono stati copiati dai Pokémon sappiate che probabilmente avete davanti un imbecille).

Inizialmente i protagonisti sono su una piccola isola, scoprono gradualmente la natura del mondo in cui si trovano e fanno conoscenza con i sette Digimon che divengono i loro partner, per affrontare insieme a loro il primo dei Digimon malvagi, Devimon: per farlo è necessaria l'apparizione di Angemon, l'angelo della luce contrapposto al diavolo che utilizza il potere delle tenebre, il quale riesce a sconfiggere la sua nemesi sacrificando se stesso secondo il principio "l'uno non può esistere senza l'altro". Ecco, adesso dovrei scrivere un post solo su questo, sul significato di questo singolo episodio: è in questo modo che viene inserito il concetto della morte in questo anime, un concetto che sconvolge e lascia disarmati; al contempo, la morte non è definitiva per i Digimon, poiché quando muoiono regrediscono alla forma di uovo e hanno la possibilità di ricominciare il loro ciclo vitale, e questo può essere un messaggio di speranza valido per tutti, l'idea che dopo la morte la nostra vita ricominci, magari in un modo diverso, oppure può essere una metafora della resurrezione dopo la morte secondo la visione cristiana, fate un po' voi.
Angemon e Devimon.
Comunque sia, in seguito la storia diviene più complessa, perché l'azione si sposta in un continente più grande e per affrontare il nuovo nemico è necessario ottenere un potenziamento (le digipietre) ottenibile attraverso un processo di crescita individuale e di introspezione dei ragazzi; dopo ancora, le battaglie fra Digimon si spostano nel mondo reale, in Giappone, e l'ultima fase, con toni più apocalittici, avviene in un Digiworld sconvolto dalle trasformazioni operate dai Padroni delle Tenebre. Qui, dopo una lunga serie di battaglie, il sacrificio di molti amici e molti risvolti sulla storia di Digiworld, alcuni dei quali tuttora oscuri, avviene la battaglia finale contro Apocalymon.
Sapete cos'è Apocalymon? Sapete cosa hanno inventato gli autori di un cartone per bambini? Apocalymon è l'agglomerato di tutti i Digimon che non sono riusciti a evolvere come gli altri, e di conseguenza non hanno avuto la possibilità di vivere, costretti a osservare le vite degli altri Digimon senza potere interferire: parlando al plurale ("Volevamo solamente vivere") Apocalymon si sfoga davanti ai ragazzi che non riescono nemmeno a rispondere alle sue rivendicazione del diritto di sopravvivere e di essere felici, legittimo per ogni essere vivente; ma poiché per questa sua rivendicazione egli vorrebbe cancellare dall'esistenza anche le altre creature, minacciando sia il mondo digitale che quello reale, devono sconfiggerlo, e nonostante lui abbia il potere di privarli dei loro strumenti, riescono ugualmente a vincere traendo l'energia direttamente dai propri sentimenti.

Questa complesso dodecaedro, che sicuramente ha un significato filosofico che io ignoro, è Apocalymon.

Questo signore sta sul poliedro ed è la parte di Apocalymon che interloquisce con i personaggi.
Apocalymon non è che un esempio di quanto sia ricca e profonda l'ambientazione di questa storia, nella quale man mano i riferimenti (mitologici, storici, letterari) diventano più ricercati: i nemici assumono l'aspetto di vampiri, esseri sovrannaturali, mostri mitologici, alcune creature hanno costumi e nomi della tradizione medievale giapponese, senza contare gli innumerevoli rimandi al mondo greco. Nell'episodio 38, uno dei miei preferiti, è presente una profezia che cita direttamente il libro dell'Apocalisse a proposito dell'apparizione sulla Terra di un Digimon colossale(precisamente il "numero della bestia" che il padre di due dei ragazzi rivela essere 666, che significava esattamente il tempo in ore, minuti e secondi all'arrivo della creatura), che si manifesta come un gigantesco diavolo rosso, un'autentica bestia apocalittica. Da parte loro, neanche i buoni scherzavano; ed è proprio per questo, da amante dei mostri, che amo questo cartone, perché i Digimon buoni assumevano sembianze spesso spaventose, colossali dinosauri con arti e inserti metallici, insetti mostruosi senza occhi, lupi mannari. E anche qui riferimenti mitologici, l'attacco di uno di loro si chiamava "Thor's hammer", martello di Thor (benché questo si perdesse nella traduzione italiana), mentre un altro, Garudamon, ereditava l'aspetto di una divinità minore indù. Ed era solo un assaggio.
"Buona Apocalisse a tutti"

Perché nel corso degli anni, fra le serie successive, i videogiochi e i tanti Digimon nati nelle une e negli altri, l'elemento mitologico è cresciuto sempre di più, fino ad avere una cosmologia ricchissima: ci sono Dodici Dei Olimpici, Tredici Cavalieri Reali che esercitano il volere di Yggdrassil, il dio del mondo digitale, poi c'è un'Area Oscura dove sono precipitati i Digimon angelici che hanno perso la grazia, fra i quali spiccano i Sette Grandi Signori dei Demoni; dalla tradizione orientale provengono i quattro Supremi che riprendono i quattro animali sacri della tradizione giapponese, i dodici Deva che rappresentano i segni dello zodiaco cinese, e sono numerose le creature ispirate al mondo dell'antico Egitto. La letteratura arriva anche qui, fra Boltmon, reinterpretazione del mostro di Frankenstein, o Dagomon, ispirato ai racconti di Lovecraft (sul rapporto fra i Digimon e Lovecraft scriverò sicuramente qualcosa in futuro).
Tutto questo per spiegare che la mia passione per tutte le mitologie del mondo, il desiderio di andare a cercare l'origine, quel "ma da dove derivano questo nome e questo aspetto?", quindi una delle basi della mia personalità e del mio carattere, un elemento fondante della mia forma mentis, derivano dai Digimon.
C'è ancora molto altro da dire, su quello che mi hanno lasciato questi personaggi, sulle riflessioni morali, e anche sull'emozione provata nel vedere il nuovo film, e già mi ritrovo per le mani un post di dimensioni non indifferenti. Se la discussione vi ha appassionato, ci vediamo al prossimo post.
Due delle digievoluzioni di tutti gli otto Digimon della prima serie.

giovedì 19 novembre 2015

Preghiera della notte #2

Oggi mi ricollego al discorso con cui è partito tutto: cos'è "mostro"? Sulla base di quale criterio si stabilisce che qualcuno sia un mostro? Se indichi qualcuno come tale, non implichi che lui la pensi allo stesso modo.
Come nasce la mostruosità? Si è mostri perché è una natura che ci viene imposta, o perché qualcosa ci rende tali?
Innanzitutto, non credo che un'intera comunità di mostri, si riterrebbe mostruosa. È il fatto che ci siano tanti individui simili fra loro a decretare che un altro, diverso, sia il mostro. Se noi vedessimo un uomo con un solo occhio al centro della fronte lo chiameremmo mostro; se tanti uomini con un solo occhio vedessero me che ne ho due, chiamerebbero me mostro. Questo per dire che non c'è un criterio universale che stabilisca che qualcuno sia, da qualunque punto di vista lo vediamo, un mostro, senza la possibilità che esista almeno una situazione in cui non lo è.

Non intendo, nella maniera più assoluta, dire che dei terroristi che uccidono più di un centinaio di persone innocenti intente a vivere le loro vite non siano creature aberranti.
Intendo dire che, se ci riteniamo disposti a fare a qualcuno la stessa cosa, non siamo migliori.
Ho letto tantissime cose stupide in questi giorni, su Internet, oltre a sentirne di persona. E mi viene in mente un pensiero: la Seconda Guerra Mondiale è finita settant'anni fa, e l'Occidente (definizione data con tutta la delicatezza che occorre) non ha più visto conflitti sul proprio territorio. La guerra però è continuata altrove, continua ancora, tutti i giorni ne sentiamo parlare e la viviamo, comunque, come una cosa lontana che non ci sfiora: per questo, gli attentati che sono avvenuti in Francia quest'anno ci turbano così tanto. Non sto qui a discutere se sia giusto o meno reagire così quando dei morti degli altri paesi non ci preoccupiamo; il mio pensiero è che se adesso ci ritrovassimo coinvolti in una guerra, sarebbe la prima guerra che viviamo con i social network, e ciò sarebbe a dir poco grottesco.
Penso a questo perché sono turbato dalla gente che scrive di guerra, di ucciderli tutti, che fa esattamente ciò che i terroristi si aspettano che facciamo. La storia non ci ha insegnato nulla? Non sappiamo che ogni "chi mi ha fatto del male deve pagare" si trascina dietro un sacco di vittime che con quel male non c'entrano nulla, e che raccoglie cadaveri da ambo le parti? Evidentemente no, evidentemente chi scrive oggi è troppo lontano dalle sofferenze che ci hanno preceduto - e indifferente nei confronti di quelle attuali, ma lontane - per ragionare un minimo e usare il buonsenso.

C'è un'altra cosa che voglio includere nella mia preghiera.
La mancanza di obiettività: ognuno vede in questi fatti una prova di quello che vuole credere.
Chi odia l'Islam, vede una prova del fatto che i musulmani siano una feccia da estirpare, e se ne convince ulteriormente.
Chi odia le religioni, vede una prova del fatto che le religioni condizionano gli uomini e li predispongono a scannarsi fra di loro, e se ne convince ulteriormente.
Chi odia il Rock, vede nel fatto che al Bataclan suonassero gli Eagles Of Death Metal l'impronta digitale del demonio in questo evento...oh no, scusate, quello è un altro blog.
Per quanto tanti l'abbiano già detto, voglio unire la mia voce alle loro: la religione, in quello che è successo, non c'entra. Ci sono dei fini che riguardano ben altro, obiettivi economici, il mantenimento di uno stato appena fondato da un popolo abituato a migrare di volta in volta e che questa volta non vuole, trattative con potenze di tutto il mondo incluse quelle con le quali stanno combattendo, intrecci talmente vomitevoli da far perdere la fiducia nel genere umano a chi ancora ne avesse...no, non è per la religione. Neanche le crociate furono per la religione.
E l'Islam, con i versetti del Corano sul fatto che uccidere una persona è come uccidere l'umanità intera, e i versetti in risposta sull'uccidere gli infedeli...indipendentemente da cosa dica (nella mia esperienza prima di giudicare un libro è meglio leggerlo tutto) ci sono tante persone devote all'Islam che riescono a vivere nei paesi occidentali senza fare del male a nessuno, condividendo le proprie diversità con quelle delle persone di fede differente. Queste sole persone non bastano come prova del fatto che quella non sia per forza un religione violenta?
Non è asfissiante vivere in un paese in cui il cittadino medio non si scomoda nemmeno a riflettere bene sulla situazione in cui vive, ma pensa in maniera pressapochista giungendo a conclusioni affrettate...e in cui tantissimi membri del governo hanno la stessa identica forma mentis e predicano gli stessi ideali razzisti, imprecisi e pericolosi della massa ignorante?

Cosa propongo io? Io ammetto di non sapere cosa proporre, perché vedo esiti drammatici qualunque decisione si prenda; ma mi piace pensare che, almeno, il buonsenso di non scrivere idiozie spacciandole per i pareri di un esperto, come a molti piace fare ultimamente, quello ce l'abbia e valga la pena consigliarlo anche ad altri.

giovedì 12 novembre 2015

Il Metal è catarsi

Per due giovedì non ho pubblicato post.
In realtà due settimane fa ne ho pubblicato uno di sabato, perché sabato era Halloween.
La settimana scorsa, invece, non l'ho fatto per impossibilità oggettiva, ma non me la passavo certo male: ero in viaggio, e quella sera mi trovavo a Bologna per assistere a un concerto Metal con i controfiocchi.
Ho deciso perciò di dedicare questa settimana ad introdurre bene l'argomento Metal, che sarà abbastanza ricorrente nell'Anima del Mostro.

Cominciamo dal chiarire perché mi piace questo genere, e ancora di più, perché, prima di scoprirlo, non avevo nemmeno il pensiero di ascoltare musica, mentre da allora ho cominciato a seguirla, a provare a studiare uno strumento e a fare parecchi chilometri per vederla dal vivo.
Conoscete i Black Sabbath? Certo che sì, tutti conoscono i Black Sabbath. Ebbene, su di loro sono sorte negli anni infinite leggende, ed una di queste vuole che, prima di fondare una band, Ozzy e gli altri fossero andati a vedere un film dell'orrore e all'uscita avessero commentato "Se la gente è disposta a pagare per spaventarsi vedendo un film, non potrebbe farlo anche per spaventarsi con della musica?".
Che sia vero o meno, il primo Black Sabbath è un album che tuttora è in grado di mettere inquietudine, a partire dalle campane della canzone omonima a inizio disco.
Ora, lasciamo perdere il discorso dei soldi, perché questo è un genere col quale, io credo, se vuoi fare soldi non dovresti nemmeno cimentarti: i Black Sabbath ce l'hanno fatta, ma non è stato certo così per tutti. Parliamo invece della paura.

Il Metal è il genere musicale in cui più di ogni altro vive quel lato oscuro della realtà di cui parlavo nel post su Halloween: un genere che è nato parlando di storie horror, gotiche, di esoterismo, e sì, in diversi casi anche al satanismo, cosa che pregiudica l'intero genere per tantissime persone che lo riducono tutto a quest'unica faccia quando il realtà esso ne ha tantissime.
Il Metal è però anche il genere musicale in cui più di ogni altro vive anche un altro lato, che costituisce insieme a quello oscuro una delle Due Anime di questo blog, vale a dire il mito, la fantasia, la leggenda, il vagheggiamento di tempi lontani. Un numero impressionante e sempre in crescita di band o artisti singoli prendono ispirazione dall'opera di Tolkien per i loro testi o i nomi di canzoni, band, degli artisti stessi. Molti altri la prendono da Lovecraft, a cominciare dai Metallica. In effetti, credo che questo sia il genere che più degli altri trae spunto dalla letteratura, da Milton a Baudelaire a Dante, passando per il Kalevala finnico fino a Omero. Altre preferiscono parlare di filosofia, con Nietzche come massima influenza, o dedicare un intero album a Galileo, o trattare di scienza, fino ad arrivare a testi impegnati politicamente. E chi ha detto che non ci siano band che scrivono canzoni sulla loro religione?

Di tutto questo e molto altro, il Metal parla attraverso un codice espressivo che comprende tutto quello che posso amare, insieme a tante alternative possibili: la distorsione degli strumenti, naturalmente, è perché preferisco sentire una chitarra distorta ad una acustica che ascolto Metal -e quando entrambi gli strumenti si alternano o suonano insieme viene fuori qualcosa di ancora più grande- , il modo in cui si combinano tra loro, e ancora di più il modo in cui possono combinarsi con qualsiasi cosa, un violino, una cornamusa, un'intera orchestra. Poi per la voce: oltre al lirico, al falsetto, alle tecniche che tutti siamo abituati a sentire, i cantanti Metal ne usano altre, il cosiddetto cantato distorto o sporco; fondamentalmente si può ridurre a due concetti, il growl (ruggito) una voce cavernosa e gutturale, e lo scream (urlo), una voce sporca, alta, gracchiante. Di questi esistono vari tipi e contaminazioni, e al primo impatto rimangono tutti sconvolti se non disgustati. Nemmeno a me piaceva, all'inizio. Ma col tempo, e la comprensione, sono arrivato a preferire queste tecniche a tutte le altre, nelle canzoni di questo genere. Esse rappresentano quella stessa anima del Metal: qualcosa di altro rispetto alla realtà, nella realtà le persone non si esprimono ruggendo o strillando come dannati, ma ciò accade nel Metal perché esso va oltre la realtà, in quei reami dell'onirico e del surreale dove le regole sono completamente diverse. Questo cantato esprime una rabbia che altrimenti non si potrebbe esprimere, una disperazione, uno sfogo...è la voce della nostra anima quando si trova davanti l'abisso, ed è anche la voce che sale dall'abisso, poiché diviene interprete di tutte le forze oscure che permeano la nostra vita senza che le vediamo.

È sul concetto di sfogo che mi voglio soffermare: il Metal è uno sfogo, ed ha una funzione catartica.
Me ne rendo conto ogni volta che arrivo a un concerto e la band sale sul palco per esibirsi: il pubblico reagisce acclamando rumorosamente i musicisti, facendo il gesto delle corna che è divenuto un simbolo di questo genere (e del Rock più in generale), e ricorrendo, se la musica è pesante, al pogo, un ballo collettivo in cui ci si urta a vicenda, cercando di divertirsi senza farsi male.
Cosa rappresenta tutto questo, se non il recupero di una qualche forma di costume barbarico del passato (e già questo non sarebbe privo di senso)? Una reazione, al fatto che la nostra società ha assunto una forma che non ci piace più; una manifestazione, di un lato della nostra anima che ha bisogno di alzare la voce, di esprimersi liberamente, di farsi largo a spintoni, ma che non può farlo perché quella società richiede che tutti ci si comporti in un'unica, spersonalizzata, maniera; e poi una passione, perché il coinvolgimento che dà questa musica è tale che, almeno nella mia esperienza, è difficile frenarsi quando si ascolta qualcosa che riempie ed emoziona così tanto.

Non mi aspetto di convertire qualcuno al Metal, con questo post, ma di aver spiegato, questo volevo farlo. Il Metal ha meno fortuna in Italia rispetto ad altri stati (come pubblico, i gruppi italiani non sono secondi a nessuno), c'è un certo genere di mentalità molto diffuso che snobba completamente questo genere, che non prova nessun interesse, e ne consegue che non se ne senta parlare spesso: quando faccio menzione di questo genere con chi non lo conosce trovo perplessità e incomprensione. E credo che se lo si spiegasse nel modo giusto, molte più persone, anche senza apprezzarlo, capirebbero.
Se avete capito, provate ad ascoltare qualcosina qui di seguito: queste cose le ho sentite suonare dal vivo!
Eluveitie - Inis Mona
Epica - Martyr Of The Free Word
Ne Obliviscaris - And Plague Flowers The Kaleidoscope