giovedì 24 novembre 2016

Danza di ossa novembrine (parte III) - Romanticismo macabro

Novembre è inoltrato e quasi alle battute finali, e così è la nostra danza. Gli scheletri si agitano senza contenimento, e in mezzo a loro, la Morte suona un violino virtuosamente, con una bravura acquisita in millenni di pratica.  Il vento ulula sempre più forte, il gufo segna gli intervalli col suo verso spettrale, e chi fra i vivi sentirà questa litania sinistra, nasconderà la testa sotto il cuscino e cercherà affannosamente di tornare a dormire, sapendo che nulla di buono potrà trarre dal suo ascolto, e che avrà un'eternità per ascoltarla, quando ballerà anche lui.
Thomas Rowlandson - The English Dance of Death, 1815-1816

C'è molto ancora da dire sulla Danza nelle arti, ci sarà dopo questo post e ci sarebbe se ne scrivessi altri ancora. Man mano che ricerco e che mi informo ne saltano fuori altri, come scheletri dalla fossa, che prendendomi per mano e indicandomi la distesa del cimitero, mi ricordano che le fosse sono tante, quelle con i nomi, quelle senza, si perdono a vista d'occhio e sarebbe arrogante provare a conoscerle tutte.
Infatti ci proverò, nel futuro. In tempi molto più estesi di qualche settimana studierò il materiale, approfondirò, confronterò, e a meno di stancarmi o cambiare idea in corso d'opera, avrò una conoscenza sull'argomento che si possa definire vasta.
Nel frattempo, questo post segnerà il punto cui sono arrivato, e darà tanti spunti, spero interessanti, a chi lo leggerà, e magari, incuriosito, mi seguirà nella mia ricerca.
Terminata la premessa, parliamo dell'argomento di oggi, e cioè, di come, più tardi rispetto all'era delle danze macabre (di cui si hanno esempi ancora nel Seicento), l'arte abbia riscoperto e reinterpretato questo soggetto, con delle creazioni che, anche perché più vicine cronologicamente, sono meglio note alla modernità.

Il discorso parte dal Romanticismo (fine Settecento/inizio Ottocento), quando le suggestioni del Medioevo, declassate dalla riscoperta del classicismo e dal recente Neoclassicismo, acquisiscono un nuovo valore artistico ed estetico, derivante da una rilettura di quel mondo e delle sue forme, e della sua assimilazione nella cultura come base su cui proiettare le istanze della modernità. Leggende, folklore, racconti popolari prendono il posto, anzi, affiancano, i miti classici come soggetti da rielaborare nella creazione di nuove opere. Fra questi, le storie dalla componente oscura, talvolta torbida, sono di particolare interesse per un gusto in particolare, quello per il macabro appunto, da cui derivano la poesia cimiteriale, certe ballate moderne, il romanzo gotico, e da esso, quello che noi oggi chiamiamo horror, che in forme diverse da quelle odierne era sempre esistito. In particolare, questa tendenza è sentita nell'Europa settentrionale, in Germania, in Francia e in Inghilterra, gli stessi paesi in cui l'arte macabra era fiorita maggiormente nel Medioevo, perché meno legati al culto del bello del classicismo e magari per una natura diversa da quella mediterranea.
Fra coloro che, nell'ambito della letteratura, incarnano meglio questo spirito di ricerca del folklore del passato da vestire ad una sensibilità nuova, sta il maggiore poeta tedesco, Goethe, autore di una ballata del 1813 intitolata proprio "Totentanz".

"Il campanaro, lui a mezzanotte
sulla fila di tombe china lo sguardo:
la luna ha diffuso dovunque il chiarore,
è come se fosse giorno nel camposanto.
Si muove una tomba, un'altra, e dopo
vengono fuori, una donna, ecco, un uomo,
in candidi sudari con lo strascico.

Si stira i malleoli – vogliono divertirsi
subito – per il girotondo quella brigata
di poveri e di giovani, di vecchi e di ricchi;
ma gli strascichi sono di inciampo alla danza.
E poiché qui il pudore non ha più da dare
ordini, tutti si scuotono: sparse
giacciono sui tumuli le camiciole.

Ora il femore salta, la gamba si scrolla,
si danno contorte movenze, e frammezzo
ogni tanto si scricchia e si crocchia,
come se le bacchette battessero il tempo.
Per il campanaro la scena è così comica!
E il tentatore, il burlone, gli mormora:
"Vai a prenderti uno dei lenzuoli funebri!".

Detto fatto! E lui in fretta si rifugia
dietro porte consacrate. Limpido
è sempre il chiarore della luna
sulla danza che fa raccapriccio.
Ma alfine si dilegua uno dopo l'altro,
se ne va ravvolto nel suo sudario,
ed ecco, è sotto la zolla erbosa.


In coda sgambetta e inciampa uno soltanto
e brancola vicino alle tombe e le aggraffa;
ma la grave offesa non è di un compagno,
lui fiuta il panno per aria.
Lo ricaccia la porta della torre, che scuote,
adorna e benedetta, per la buona sorte
del campanaro: riluce di croci metalliche.

Deve avere la camicia, ma non si ferma,
pensarci a lungo non è necessario;
ora quel coso il fregio gotico afferra
e s'arrampica di pinnacolo in pinnacolo.
Per il poveretto, per il campanaro è finita!
Lui s'inerpica, di voluta in voluta,
simile a un ragno dalle lunghe zampe.

Il campanaro sbianca, il campanaro trema,
ora vorrebbe rendergli il lenzuolo.
Adesso – per lui è l'ora estrema –
un uncino di ferro aggranfia l'orlo.
Si dilegua la luce, s'intorbida la luna,
la campana tuona un possente tocco dell'una,

e lo scheletro in basso si sfracella."

Ironica, grottesca e inquietante al contempo, la danza di Goethe è macabra fino all'osso, che è una delle battute più sciocche che abbia mai fatto. Fissando i termini della vicenda in una situazione archetipica, il cimitero a mezzanotte, ci ri-narra una storia legata al folklore europeo, quella di un uomo che ha la sventura di assistere al risveglio dei morti e alla loro danza, e che di solito soccombe a tale visione, con grande sapienza poetica, insistendo, oltre che sui termini che rimandano alla sfera del notturno e del macabro, su onomatopee e verbi che trasmettono l'idea di ossa che si agitano e si scontrano (motivo per cui è doppiamente consigliata la lettura dell'originale in tedesco). Goethe mette inquietudine con il dettaglio del campanaro che, seguendo il consiglio di un non meglio identificato "burlone", ruba il sudario ad uno degli scheletri e si vede da questo inseguito quando la danza finisce e lui non può tornare nella tomba (il che è sottilmente ironico), e rovescia il sentimento nell'ultimo verso, allorché lo scheletro si sfracella in mille pezzi: un contrasto, quello tra orrore e umorismo, in cui alcuni vedono un esempio di genere grottesco.

"The Masque of the Red Death" di Harry Clarke, 1919.
Questa presenza del campanaro non fa che ricordarmi una poesia, a mio avviso davvero spaventosa, di un altro grande autore che va inserito in questa trattazione.
Edgar Allan Poe (non europeo, ma esperto quanto gli altri nell'interpretare antiche tradizioni) è probabilmente il primo nome che ci viene in mente quando parliamo di macabro in letteratura. Poe, di cui vi invito a leggere la succitata poesia "Le campane", partecipa a questa rassegna con un racconto che ha qualcosa del trionfo, ma che non posso non riportare qui in quanto procede attraverso una danza. Si tratta del celebre "La maschera della morte rossa", pubblicato nel 1842 e legato al mondo medievale già a partire dall'antefatto della vicenda, il dilagare della peste chiamata "morte rossa" che miete infinite vittime, e alla quale il principe Prospero pensa di poter sfuggire rinchiudendosi, insieme a mille amici e vari servitori, in un palazzo completamente chiuso al mondo esterno, decorato secondo il suo stravagante gusto estetico e in cui gli ospiti si dedicano a giochi e diletti. Allorché il principe organizza una festa in maschera per celebrare il successo della sua iniziativa, tutti i presenti, durante la danza, sono stupiti e intimiditi dinanzi all'avanzare attraverso le sale di una misteriosa figura avvolta in un sudario macchiato di sangue e con una maschera dalle sembianze di un teschio: questa presenza, come diviene chiaro quando Prospero, dopo aver toccato quel sudario sotto il quale si vede non esserci alcun corpo, cade a terra senza vita, è la morte rossa, che introdottasi nel palazzo miete tutti gli uomini all'interno, rivelando che alla morte non si scappa. Uno dei capolavori di Poe, dove si colgono, oltre al gusto estetico pieno di simboli e a quello per l'orrido e il sovrannaturale, una grande poesia e una sapiente riproposizione dei modelli, in questo caso l'imperversare della peste, l'altezzoso estraniamento dell'aristocrazia dai mali del popolo, il trionfo della morte e la sua ineluttabilità, sempre con il motivo della danza. 

Baudelaire apprese molto da Poe, di cui fu l'entusiasta importatore in Europa. La sua Danse Macabre, che fa parte del gruppo Quadri di Parigi (Tablieaux de Paris) pubblicata nei Fleurs du mal nel 1857, è una delle più rilevanti di tutta la letteratura.

"Fiera della sua nobile statura, come una persona viva,
col suo gran mazzo di fiori, il fazzoletto e i guanti,
lei ha la noncuranza e la disinvoltura
d'una civetta magra dall'aria stravagante.

Hai visto mai al ballo una vita più sottile?
La sua veste esagerata, nella sua ampiezza regale,
ricade abbondante sopra un piede magro, stretto
nella scarpina infiocchettata, graziosa come un fiore.

Il collarino che le scherza intorno alle clavicole,
come un ruscello lascivo strisciante contro la roccia,
difende pudico dai lazzi ridicoli
le funebri grazie che vuole nascondere.

Che occhi profondi di vuoto e di tenebre!
Come oscilla mollemente sulle fragili vertebre
il suo cranio acconciato di fiori con arte!
Oh, fascino d'un nulla follemente agghindato!

Alcuni diranno che tu sei una caricatura;
amanti ebbri di carne, non capiscono
l'eleganza senza nome dell'umana armatura.
Ma tu rispondi, grande scheletro, al mio gusto più caro!

Vieni forse a tubare, con la tua possente smorfia,
le feste della Vita? O ti spinge credula
al sabba del Piacere qualche antica voglia
speronando ancora la tua vivente carcassa?

Speri dunque di cacciare il tuo incubo beffardo
al canto dei violini, alla fiamma delle candele?
Vieni a chiedere che il torrente delle orge
rinfreschi l'inferno acceso nel tuo cuore?

Inesauribile pozzo di stoltezza e di colpe!
Eterno alambicco dell'antico dolore!
Come vedo ancora errante l'insaziabile aspide
il traliccio curvo delle tue costole!

Temo che tutta la tua civetteria
non troverà un compenso degno dei tuoi sforzi:
quale cuore mortale capirà lo scherzo?
L'incanto dell'orrore inebria solo i forti.

L'abisso dei tuoi occhi, pieno d'orribili pensieri,
esala vertigine, e i cauti ballerini
non contempleranno senza nausee amare
il sorriso eterno dei suoi trentadue denti.

Eppure, chi non ha stretto fra le sue braccia uno scheletro?
Chi non s'è nutrito con le cose della tomba?
Che importano profumo, abito, toletta?
Chi fa il disgustato, mostra di credersi bello.

Baiadera senza naso, irresistibile baldracca!
di' dunque a questi ballerini che fanno i contrariati:
"Malgrado cipria e rossetto, puzzate tutti di morte.
ballerini che vi volete fieri, scheletri muschiati,

Antinoi sfioriti, dandy glabri,
cadaveri verniciati, vitaioli canuti?
Nel gioco universale della danza macabra,
siete trascinati, verso luoghi sconosciuti!

Dai freddi lungo-Senna alle rive brucianti del Gange
la mandria dei mortali salta e s'inebriasenza vedere
la tromba dell'Angelo, da un buco del soffitto,
sinistra, spalancata come un nero schioppo.

Ridicola Umanità, la Morte mira in ogni clima,
sotto qualsiasi sole, le tue contorsioni,
e sovente, come fai tu, profumandosi di mirra come te,
mischia la sua ironia alla tua insania!"

A sua volta, il ballo dell'artista con la morte non può
non farmi pensare a questa pagina visionaria de Il Corvo di James O'Barr.
Con Baudelaire si ha un cambio di prospettiva: quella morte che ripugnava ora attrae, quelle orbite vuote senza un senso sono abissi in cui bisogna discendere, e le ossa e il teschio della ballerina trasmettono fascino. Non è cambiata la morte, e nemmeno l'uomo, ma è diverso l'artista, e il nuovo artista coglie la bellezza del macabro, e i sottili fili attraverso i quali si dirama, da esso, una rete che conduce alla Bellezza.

Affine alla Danza, come affini sono i due autori, è Il Ballo degli Impiccati di Rimbaud.

"Alla nera forca, amabile moncone,
danzano, danzano i paladini,
i magri paladini del demonio,
gli scheletri dei Saladini!
Messer Belzebù tira per la cravatta
i suoi piccoli neri fantocci che fan smorfie al cielo,
e picchiandoli in fronte con la ciabatta
li fa danzare sulle note d'un vecchio Natale!
E i fantocci scioccati intrecciano i loro gracili braccini,
come neri organi i petti squarciati
che un tempo stringevano dolci donzelle
cozzano a lungo in un amore immondo.
Urrà per i gai danzatori che non hanno più pancia!
Possono fare giravolte, perché il palco è così grande!
Op! Che non si sappia se è danza o battaglia!
Belzebù irato coi suoi violini raglia!
O duri talloni, non usate mai sandali!
Quasi tutti han tolto la camicia di pelle!
Il resto non impaccia si guarda senza schifo.
Sui crani la neve posa un candido cappello:
la cornacchia è un pennacchio sulle incrinate teste,
un brano di carne trema sul mento scarno:
si direbbe vorticante nelle oscure resse
di prodi, rigide armature di cartone.
Urrà! La tramontana soffia al gran ballo degli scheletri!
La forca nera mugola come un organo di ferro!
E i lupi rispondono da foreste violette:
all'orizzonte il cielo è d'un rosso inferno...
Olà, scuotete quei funebri capitani
che sgranano sornioni tra le dita spezzate
un rosario d'amore sulle vertebre pallide:
questo non è un monastero, o trapassati!
Oh! Ecco, nel mezzo della danza macabra
nel cielo rosso un folle scheletro avanza
di slancio, e come un cavallo impenna:
e, poiché al collo la corda è stretta,
raggrinza le dita sul femore che scricchiola
con grida simili a ghigni
e come un acrobata che rientra nella sua baracca
rimbalza nel ballo al canto delle ossa.
Alla nera forca, amabile moncone,
danzano, danzano i paladini,
i magri paladini del demonio,
gli scheletri dei Saladini!"

Ora, non si può avere danza senza che si abbia la musica, e a partire dall'Ottocento, i compositori non sono andati per nulla leggeri con il macabro.
In ordine cronologico, troviamo per primo Liszt, che compone la sua Totentanz per pianoforte e orchestra tra il 1834 e il 1859. Si tratta della rieleborazione di una sequenza del Dies Irae, con grande enfasi negli aspetti più drammatici, dovuta all'ascolto della Sinfonia fantastica di Hector Berlioz, derivante dalla medesima ispirazione; accanto ad essa, la suggestione tratta dal Trionfo della Morte del Campo Santo di Pisa. Più che una danza, questo è veramente un trionfo, smisurato, epico.


Segue la celeberrima Danse Macabre di Saint-Saëns, che si ispira a un poemetto di Henri Cazalis, che, a sua volta, si rifà a Goethe. Egli, in particolare, idea l'immagine della Morte che suona un violino, alla base della composizione di Saint-Saëns.

«Zig et zig et zig», la mort en cadence
Frappant une tombe avec son talon,
La mort à minuit joue un air de danse,
«Zig et zig et zag», sur son violon.

Le vent d'hiver souffle, et la nuit est sombre;
Des gémissements sortent des tilleuls;
Les squelettes blancs vont à travers l'ombre,
Courant et sautant sous leurs grands linceuls.

«Zig et zig et zig», chacun se trémousse,
On entend claquer les os des danseurs;
Un couple lascif s'asseoit sur la mousse,
Comme pour goûter d'anciennes douceurs.

«Zig et zig et zag», la mort continue
De racler sans fin son aigre instrument.
Un voile es tombé ! La danseuse est nue,
son danseur la serre amoureusement.

La dame est, dit-on, marquise ou baronne,
Et le vert galant un pauvre charron;
Horreur! Et voilà qu'elle s'abandonne
Comme si le rustre était baron.

«Zig et zig et zig», quelle sarabande!
Quels cercles de morts se donnant la main!
«Zig et zig et zag», on voit dans la bande
Le roi gambader auprès du vilain.

Mais «psit» ! tout à coup on quitte la ronde,
On se pousse, on fuit, le coq a chanté.
Oh ! la belle nuit pour le pauvre monde.
Et vivent la mort et l'égalité !"




Da Wikipedia il testo della composizione di Saint-Saëns:  « I raggi della luna filtrano a intervalli fra nuvole a brandelli. Dodici cupi rintocchi risuonano dal campanile della chiesa. Svanito l'ultimo di essi, si odono strani rumori dall'attiguo cimitero, e la luce della luna investe una fantomatica figura: la Morte, che suona il violino, seduta su una pietra tombale. Si odono strida dai sepolcri circostanti e il vento ulula fra le cime degli alberi spogli.
Le note sinistre dello scordato violino della Morte chiamano i morti fuori dalle tombe; e questi, avvolti in bianchi sudari, volteggiano attorno in una danza infernale. La quiete del sacro recinto è distrutta da grida sorde e risa orribili. La ridda degli scheletri, col rumore secco delle ossa, diviene sempre più selvaggia, e la Morte, nel mezzo, batte il tempo col suo piede scricchiolante di scheletro. Improvvisamente, come presi da un sospetto terribile, i morti si arrestano. Nel vento gelido si sentono le note della Morte. Un fremito percorre i ranghi dei trapassati: i teschi sogghignanti si rivolgono in ascolto verso la pallida luna. Ma le note stridenti della Morte di nuovo rompono il silenzio, e i morti riprendono a danzare più selvaggiamente di prima. L'ululo del vento si unisce al coro dei fantasmi, gemendo fra i rami nudi dei tigli. D'improvviso la Morte smette di suonare, e nel silenzio che segue si ode il canto del gallo. I morti si affrettano verso le tombe e la fatale visione svanisce nella luce dell'alba. »



Musorgskij, grande interprete delle tradizioni popolari, compone fra il 1875 e il 1877 i Canti e danze della morte, (Песни и пляски смерти), un ciclo di canzoni che trae ispirazione da Liszt, e che si sviluppa intorno a quattro vicende relative a quattro tipi di morte: la prima è la Ninna nanna, cantata a un bambino cullato dalla Morte; la seconda è la serenata, la morte di una fanciulla cui la Morte si rivolge come un amante che attende alla porta; la terza è il Trepak, un ballo popolare russo che la Morte spinge un contadino a ballare; la quarta è Il condottiero, e la Morte figura come il comandante di un esercito che ammonisce le sue truppe.

In questo excursus non può mancare "The skeleton dance" (1929), la danza degli scheletri targata Walt Disney ,della raccolta di cortometraggi "Silly Symphony", in cui una banda di scheletri si esibisce a ritmo di musica in balli, piroette e formazioni assurde e grottesche al contempo, cessando, anche loro, all'arrivo del nuovo giorno.

Dei generi musicali moderni, ce n'è uno che più degli altri è figlio ed ereditario di ogni tradizione macabra, romantica e oscura, ed è il Metal.
Nel 2001 i Marduk, gruppo Black Metal svedese tra i più estremi, blasfemi ed importanti per il genere, pubblica l'album "La Grande Danse Macabre", terzo atto di una trilogia chiamata "Blood, war and death" ("Sangue, guerra e morte") che comprende i precedenti "Nightwing" e "Panzer Division Marduk". Il nuovo album è quello dedicato alla morte, e la traccia omonima, in un ritmo marziale e oscuro, ripete un messaggio che non può essere confutato nemmeno dopo mille anni, alla morte non si scappa.

"This ghastly skeleton, bone bare on ghostly nag
Gallops through space
No spurs, no whips
And yet his steed pants towards apocalypse
Nostrils a-snort in epeleptic fit
Headlong they rush, athwart the infinite
With rash and trampling hoof
The cavalier, his flashing sword aflame
Glashes - now here, now there

Amongst the nameless slaughtered horde
Then goes inspecting like some manor-lord
The charnel ground, chill and unbound where
Under a bleak suns pallid leaden glare
Histories great sepulchered masses lie
From the ages near
And the ages long gone by

Death can on both black and white horses ride
Across the threshold of infinity he you guide
Death can step along smiling within the dance
And as a pawn in a game of chess you stand no chance
Death can also beat a drum
He drums hard and he drums soft
The time has come for you to leave the mortal croft
All your dreams he beats into dust
Die, die, die you must

I svängen lätta I dansens ringar
I stigen yra I nöjets lag
Och myrten blommar och lyran klingar
Men över tröskeln stiger jag
Då stannar dansen
Då sänkas ljuden
Då vissnar kransen
Då bleknar bruden..."

E veniamo finalmente al pezzo forte, gli Iron Maiden.
Sì, quegli Iron Maiden, e sì, quella canzone parla proprio di questo.
Nel 2003 esce "Dance Of Death", tredicesimo album della formazione londinese, che nel titolo e nella copertina mette in chiaro a cosa fa riferimento; un grande mietitore circondato da demoni e personaggi inquietanti. La title track, una delle mie canzoni preferite dei Maiden, racconta, anche nel divenire della musica, una versione moderna del mito presentato finora, attraverso gli occhi di uno spettatore che, una notte, viene condotto misteriosamente in un luogo sconsacrato in un cui i morti si alzano e cominciano a ballare come forsennati, mentre la musica, inizialmente tenue, per quanto sinistra, come se stesse preparando, esplode furiosamente.


"Let me tell you a story to chill the bones
About a thing that I saw
One night wandering in the everglades
I'd one drink but no more

I was rambling, enjoying the bright moonlight
Gazing up at the stars
Not aware of a presence so near to me
Watching my every move

Feeling scared and I fell to my knees
As something rushed me from the trees
Took me to an unholy place
And that is where I fell from grace

Then they summoned me over to join in with them
To the dance of the dead
Into the circle of fire I followed them
Into the middle I was led

As if time had stopped still I was numb with fear
But still I wanted to go
And the blaze of the fire did no hurt upon me
As I walked onto the coals

And I felt I was in a trance
And my spirit was lifted from me
And if only someone had the chance
To witness what happened to me

And I danced and I pranced and I sang with them
All had death in their eyes
Lifeless figures they were undead all of them
They had ascended from hell

As I danced with the dead
My free spirit was laughing and howling down at me
Below my undead body
Just danced the circle of dead

Until the time came to reunite us both
My spirit came back down to me
I didn't know if I was alive or dead
As the others all joined in with me

By luck then a skirmish started
And took the attention away from me
When they took their gaze from me
Was the moment that I fled

I ran like hell faster than the wind
But behind I did not glance
One thing that I did not dare
Was to look just straight ahead

When you know that your time has come around
You know you'll be prepared for it
Say your last goodbyes to everyone
Drink and say a prayer for it

When you're lying in your sleep, when you're lying in your bed
And you wake from your dreams to go dancing with the dead
When you're lying in your sleep, when you're lying in your bed
And you wake from your dreams to go dancing with the dead

To this day I guess I'll never know
Just why they let me go
But I'll never go dancing no more
'Til I dance with the dead"

Come già anticipato, questo elenco è estremamente esiguo, fondato soprattutto su esempi illustri della letteratura romantica e decadente, della musica del tempo, e del Metal d'oggigiorno.
A quale conclusione ci porta questa storia? Possiamo sconfiggere la morte con un ballo? Crediamo che, quando ci prenderà, basterà prenderla con ironia e non ne soffriremo.
Se nessuna arte ha il potere di fare qualcosa per i morti, a meno di parlare, per chi la riconosce, della loro anima, tutte le arti si fanno per i vivi, e si fanno parlando quasi sempre proprio della morte, perché la sua ombra domina la vita. Non si tratta solo dell'arte che rende eterno chi la fa, la prospettiva di queste danze ci insegna ad essere più umili; si tratta dell'arte che lascia qualcosa ai vivi, che guardano la prospettiva dell'abisso senza sapere nulla di cosa ci sia dall'altra parte a guardarli, e sentendo il freddo alito di decomposizione che ne fuoriesce potrebbero cadervi dentro in preda al terrore: creando, parlando, intessendo parole e immagini in poesie e quadri, come si intessono le membra in una danza, si può attenuare quella paura, si può spezzare la maglia di sovranità e onnipotenza di quell'abisso, fino a rispondere al suo sguardo con pace, compassione e saggezza. Quell'abisso di morte non è lì per negare l'uomo, ma per disegnarlo. La morte è il tratto di matita che forma il disegno dell'uomo, un tratto sottile intorno a una figura che è piena di colori, di ombre e di sfumature. Disegnando la morte, l'uomo ha delimitato anche lei, e guardando dentro quel contorno, nelle forme, nei colori, ombre, sfumature, che costituiscono la morte, ha trovato la bellezza.

giovedì 17 novembre 2016

Danza di ossa novembrine (parte II) - Danze macabre


Il vento d'autunno ha imposto il suo ritmo, e adesso la musica diviene più alta e il freddo più acuto, e ad un tratto, mentre il ritmo è scandito da uno schiocco di ossa, il vento accelera, e fantasmi riecheggiano il suo ululato. La musica diviene eccessiva.
È il momento di parlare delle Danze Macabre.

Il nome "danza macabra" è molto evocativo, a partire dall'apposizione di termini che rimandano a significati così diversi come la danza e la morte. Eppure, settecento anni fa, gli artisti -e i letterati accanto a loro- hanno contemplato l'idea della morte come un grande ballo cui tutti, prima o poi, sono invitati a prendere parte, e che li trascina con sé fuori dalla vita: non ha più importanza se questa danza porti da qualche altra parte, ha importanza soltanto questo, la vita finisce, il piacere è effimero, e una delle più stolte mancanze dell'uomo è quella di non pensarci, fin quasi a convincersi di poter vivere per sempre. Nell'ottica della società del Trecento, è un ammonimento, il richiamo della coscienza alla mortalità, corroborato da una presenza più diffusa del solito della Morte nella vita degli uomini del tempo. Nella società dell'Umanesimo, dove lo slancio vitale è divenuto intenso e la ricerca dei piaceri uno stile di vita, la Morte è un'odiosa presenza che attende dietro ogni godimento, rimembrando agli uomini che ognuno dei loro piaceri è effimero.

Dell'aggettivo macabro, ci si presentano diverse etimologie. Il saggio di Pietro Vigo, cui faccio riferimento anche questa volta, ne elenca rapidamente alcune: dall'arabo magboruh o magubir, piazza o luogo di sepoltura; dal latino macheria, cioè muro, visto l'uso di raffigurare le danze sui muri, o macrorum, genitivo plurale di macer, quindi "dei magri"; dal nome di San Macario, primo santo asceta; Macabee, con riferimento a una Danza dei Maccabei, in cui personaggi di varie condizioni ed estrazioni danzavano e poi si dileguavano all'arrivo della Morte; si parla anche di un'opera del 1376 intitolata "Danse de Macabre", del vescovo Jean Le Fèvre, dove Macabre sarebbe uno dei personaggi.
C'è anche un fatto storico, dietro questa tradizione: diversi decreti esposti in epoca già altomedievale presso le chiese che comprendevano dei cimiteri, proibivano di eseguire danze e riti pagani sulle tombe, che avevano luogo, pare, sopratutto in prossimità della festa di Ognissanti.

La Danza Macabra nell'arte ha delle caratteristiche che non ricorrono sempre, ma lo fanno spesso ed è sulla base di esse che si indica una raffigurazione come più o meno appartenente al genere. La prima e fondamentale di queste caratteristiche è l'intento satirico: mostrare che la morte arriva per tutti, ricordare la vanità delle cose terrene, diviene un attacco, ora scherzoso e giullaresco, ora feroce e anatemico, al benessere e alla superbia delle classi sociali più alte. In molti di questi casi, come già visto con le opere riportate nella prima parte, si inseriscono nelle opere cartigli su cui figurano scritte ammonitrici.


La morte è raffigurata come uno scheletro o un corpo in putrefazione. Insieme ad essa, e per certi versi più rilevanti, sono i morti: spesso associati ai vivi, con i quali procedono divisi in coppie, figurano scheletri e cadaveri che indicano una dimensione soggettiva della morte, che ricordano non solo che tutti moriranno, ma che tutti perderanno le proprie sembianze. Oltre ad avere un impatto più orrido e, appunto, macabro, il cadavere con ancora uno strato di pelle addosso porta sul proprio volto un'espressione ghignante che accresce la crudele ironia della composizione, raggiungendo il culmine nelle danze in cui i morti suonano delle trombe, quasi a ricordare con zelo caricaturale il fato che simboleggiano.
Come già detto per gli Incontri dei vivi con i morti e i Trionfi della Morte, questo genere figurativo non nasce in Italia, ma si sviluppa a partire dall'Europa centro-settentrionale, con Germania, Francia e Inghilterra in prima linea, e viene in alcuni casi assimilato anche da noi per via del suo carattere moraleggiante, in quanto, pare (questa è una cosa che non ho ancora capito), fin da quel Medioevo lontano mille anni da noi, la cultura italiana era poco incline ad accettare le forme del mostruoso e del fantastico che tanta fortuna avevano più a nord. Se l'Incontro ha fortuna per il suo aspetto didascalico, e il Trionfo ne ha di meno perché punta sul turbamento visivo della morte deificata, la danza riesce, grazie appunto ai moniti che dà.

Il libro di Pietro Vigo cita come prima Danza Macabra dipinta quella di Minden in Westphalia, che risalirebbe al 1382-1383. Purtroppo, non è mostrata nel libro, né ho avuto modo di reperirla in rete. Segue quella del cimitero degli Innocenti a Parigi, dipinta fra il 1424 e il 1425, di Basilea, di Dresda, di Tallin,

"Contempla Uomo e non disprezzare
Questo è l'aspetto di ogni creatura
La Morte li prende, prima o poi
Si dissolvono come i fiori su un prato"


























In Slovenia, a Hrastovlje, se ne trova un altro esempio bello e suggestivo, con scheletri che tengono per mano i vivi (un bambino, un mendicante storpio, un nobile, il papa, una regina e un re), sempre conformi allo spirito originario della Danza.




E veniamo all'Italia, che è quella cui il saggio di Pietro Vigo fa più attenzione, configurandosi come primo testo italiano sull'argomento. Prescindendo dal prendere in esame le opere straniere (e costringendomi così a cercare informazioni su Internet in siti in inglese e in tedesco) Vigo espone i pochi esempi di Danza Macabra che presenti in Italia. E quegli esempi non si possono definire vere e proprie danze, ma reinterpretazioni di esse in un'accezione più congeniale all'arte italiana. Bisogna infatti tenere a mente che nel Quattrocento, quando il genere è al suo apogeo in Francia, Germania ed Europa settentrionale, l'Italia vive la stagione culturale del Rinascimento: la riscoperta dei modelli classici, e la loro conseguente ripresa in quanto indiscutibili principi di autorità e bellezza, allontana l'arte italiana dal gusto per l'orrido e un certo tipo di pensiero che è tipico delle regioni sopra citate, cui l'Italia rimarrà quasi indifferente anche nel momento del loro ritorno durante l'Ottocento. Vigo, dunque, individua semplicemente alcune opere che si possono accostare al genere per le suggestioni, e naturalmente la presenza di scheletri.
Partiamo subito dall'affresco dell'oratorio dei Disciplini a Clusone, già visto nel post precedente, diviso in una parte superiore raffigurante un trionfo, e una inferiore, che è quella postata qui sotto. Le due sono separate da una scritta: "O ti che serve a Dio del bon core non havire pagura a questo ballo venire ma allegramente vene e non temire poj chi nasce elli convene morire."
Parti del dipinto sono andate perdute, ma quello che rimane ci mostra la struttura di base di una danza macabra: compaiono personaggi di varia estrazione sociale con accanto uno scheletro in postura simile alla loro. C'è una donna con uno specchio, un flagellante, un contadino, un oste, un funzionario di giustizia, un mercante, un giovane studente e un ottavo irriconoscibile. Eppure, se non per la scritta, questo affresco non presenta nulla che rimandi a un ballo, perché questa caratteristica, legata a una ricerca consapevole del grottesco, non interessa l'artista.


L'altra importante Danza Macabra italiana si trova nella chiesa di San Vigilio a Pinzolo: intorno a Cristo crocifisso sono posti l'imperatore, il papa, il re, sacerdoti, duchi, guerrieri, ricchi, per ognuno dei quali, scritte nel bordo sotto ogni figura, delle frasi che esplicano il senso della raffigurazione, sempre conformemente all'arte del tempo. Frasi dette dalla Morte ad ognuno di questi personaggi, che per il proprio prestigio o abilità si aspetterebbe di poterla sfuggire, e che invece deve accettare la sovranità della Morte.
Si comincia con i versi citati già nell'altro post:

Io sont la morte che porto corona 

Sonte signora de ognia persona
Et cossi son fiera forte e dura
Che trapasso le porte et ultra le mura
Et son quela che fa tremar el mondo
Reuolgendo mia falze atondo atondo
O uero l'archo col mio strale
Sapienza beleza forteza niente vale
Non e signor madona ne vassallo
Bisognia che lo entri in questo ballo

Mia figura o peccator contemplarai
Simile ami tu vegnirai
Non ofender a Dio per tal sorte
Che al transire non temi la morte
Che piu oltra non me impazo in be ne male
Che l'anima lasso al judicio eternale
Et come tu auerai lauorato
Cossi bene sarai pagato.

Sotto la Croce c'è poi il messaggio di Gesù:

O peccator piu non peccar non piu
Chel tempo fuge e tu non te nauedi
De la tua morte che certeza aitu
Tu sei forsi alo extremo et non lo credi
De ricore col core al bon iesu
Et del tuo fallo perdonanza chiedi
Vedi che in croce la sua testa inchlina
Per abrazar lanima tua meschina


O peccator pensa de costei
La mea morto mi che son signor de ley
Ihs Xhs


La Morte si rivolge al papa:
O sumo pontefice de la cristiana fede
Cristo e morto come se vede
A ben che tu abia de sampiero el manto
Acceptar bisognia de la morte el guanto

In questo ballo ti conue entrare
Li anticesori seguire et li sucesor lasare
Poi chel nostro primo parente adam e morto
Si che ate cardinale non te fazo torto


Morte cossi fui ordinata

In ogni persona far la intrata

Si che episcopio mio iocondo

Le giunto el tempo de abandonar el mondo

Ai sacerdoti:
Sacerdote mio reuerendo
Danzar teco io me intendo
Aben che de cristo sei vicario
Mai la morte fa disuario
A un frate:
Bon partito pilgiasti opatre spirituale
A fuzer del mondo el pericolodo strale
Per lanima tua po esser uia secura
Ma contra di me non auerai scriptura

All'imperatore:
O cesario imperatore vedi che li altri jace
Che a creatura humana la morte non a pace

Al re:
Tu sei signor de gente et de paisi o corona regale 
A a altro teco porti che il bene el male
In pace portarai i gentil regina
Che o per comandamento de non cambiar farina

A un duca:
O ducha signor gentile
Gionta a te son col bref sottile
A un teologo:
Non ti uala scientia ne dotrina
Contra de la morte non val medicina
A un uomo in armatura:
O tu homo galgiardo et forte
Niente vale larme tue quntra la morte
A un ricco che prova a corromperla:
Et tu ricone numero deli auari 
Che in tuo cambio la morte non vol denari
A un giovane:
De le vostre zouentu fidare non se vole
Pero la morte chi lei vole tole
A un mendicante zoppo:
Non dimandar misericordia o pouerelo zopo
Ala morte che pieta non ha li daza intopo
A una monaca:
Per fuzer li piazer mondani monicha facta sei
Ma da la scura morte scampar non poi da lei
A una donna di bell'aspetto:
Non ti gioua ponpe o beleze
Che morte te fara puzar et perdere le treze
A una vecchia:
Credi tu vechia el mondo reditare
Che non pensasti cuelo che morte sa fare
A un bambino:
O fantolino de prima hetate
Come sej ingenerato
Tu sei in mia libertade

Qui vediamo in un certo senso un trionfo, perché la Morte ha attributi di maestà, seduta sul cavallo, con arco e ali di pipistrello. Alle sue spalle San Michele e Lucifero si contendono le anime dei morti, e in mano al secondo figura un libro con scritti sopra i peccati capitali.

Fati bene tanto che seti in uita 
Che come lombra la morte ui seguita
De li vostri delicti penitentia fati
La ue zonzera piu presto che non pensati







Soffermiamoci adesso brevemente su alcune delle incisioni della Danse Macabre di Hans Holbein, del 1538 circa. Qui il tema è svolto secondo un altro motivo, per il quale ognuna delle incisioni mostra un singolo personaggio, rappresentante, anche qui, una diversa classe sociale o età della vita, o altra possibilità d'esistenza dell'uomo, e ognuno di questi personaggi è alle prese con una versione "personalizzata" della morte.
Il ciclo ha inizio ripercorrendo il racconto biblico del Genesi, con le prime incisioni raffiguranti la Creazione (I), la Tentazione (II), l'Espulsione (III), e la Conseguenza della Caduta (IV), dove è ritratto l'Uomo che lavora la terra affiancato dalla morte, comparsa alla fine della scena precedente. Dopo l'immagine di un cimitero nella V incisione, ha inizio la sfilza dei tipi umani. Il primo è il papa, che vedete qui accanto. Seguono l'imperatore e il re, i potenti, poi ci sono i nobili, conti, i religiosi, come il prete, il monaco e la suora, e sono rappresentati anche i mestieri, come il giudice e l'avvocato. E naturalmente anche gli anziani, i poveri, e i bambini, poiché anche questa danza macabra, come tutte le altre, vuol ricordare che la morte tocca proprio a tutti.
Vedete qui accanto la XXVII, l'astrologo, la XLII, il soldato, e una che mi piace particolarmente, la XXXI, il cavaliere.






















La Danza, me ne sono reso conto in queste settimane, trascorse a studiare la materia solo per rendermi conto di aver trovato solo la punta dell'iceberg, è un argomento smisurato, non solo perché quantitativamente ne vengono realizzati molti esempi (quasi tutti stranieri) di cui si è persa gran parte, il che rende difficile redigere un elenco esaustivo di tutti gli esempi, ma perché si lega a diverse tradizioni più antiche, fra le suggestioni bibliche, la mitologia classica e le leggende germaniche, ed esprime un sentimento che, pur nella molteplicità dei suoi volti nelle varie regioni d'Europa, è profondamente radicato nell'uomo, e cioè, oltre alla paura e alla curiosità inseparabili che si provano all'idea della morte, la paura e la curiosità che si hanno verso ciò che la simboleggia. Anche prima che il mondo moderno la rendesse quasi un tabù, la morte inquietava attraverso i quadri e i versi su di essa, e gli uomini medievali, che andavano acquisendone consapevolezza, impararono ad esercitare quell'arte, l'arte di usare la paura, quel brivido taciuto comune a tutti gli uomini e da tutti gli uomini compreso e riconosciuto, per far passare un messaggio, che in questo caso era il messaggio più semplice e spaventoso di tutti. In una storia dell'evoluzione dell'orrore nelle arti, non si potrebbe prescindere da questo momento.

Il passaggio fondamentale che porta a noi, da un orrore ricercato come mezzo a un orrore ricercato per se stesso, sarà argomento del prossimo post, e lì sarà la musica a farla da padrona. Ma questa danza non la balleremo senza un accompagnamento musicale, e dunque, due pezzi di sapore medievale per prendere gli scheletri per mano e danzare con loro.
La prima è la Totentaz, o Saltatio Mortis aD MM, dei Corvus Corax, una formazione tedesca che suona musica medievale basandosi su manuali d'epoca e un metodo il più attento possibile alla ricostruzione scientifica.

E infine una dedica a uno dei miei progetti preferiti che fa capolino qui grazie al proprio nome: gli australiani Dead Can Dance. Non ho trovato nella loro discografia riferimento esplicito alla Totentanz, ma possono creare la giusta atmosfera grazie al loro Saltarello, arrangiamento di un ballo italiano del Trecento.






Copia di una parte della Danza macabra di Lubecca di Bernt Notke, risalente al 1463 e distrutta dai bombardamenti nel 1942.

giovedì 10 novembre 2016

Danza di ossa novembrine (parte I) - Trionfo della Morte

Trionfo della Morte di Buffalino Buffalmacco, 1336-1341, Campo Santo, Pisa

Ora che siamo a novembre, il mese dei morti, un nuovo proposito, maturato grazie a un connubio fra le riflessioni vecchie e quelle nuove, terrà impegnata L'Anima del Mostro per il resto del mese, con quelli che, si spera, saranno tre post uniti in un unico ciclo tematico...per quanto unico possa essere un tema che sconfina così pericolosamente con, in teoria, qualunque cosa l'uomo abbia fatto nella sua storia. Perché l'arte, le aspirazioni, ciò che l'uomo fa, ciò che l'uomo è, sono fughe, salti, passi di danza, in bilico sopra una piccola zattera che inevitabilmente sarà sommersa, perché tutte le manifestazioni dell'uomo, tutte, hanno a monte un motivo che non può mancare anche con tutta la forza di volontà, la consapevolezza che alla fine verrà la morte.
Chiaramente, non voglio scrivere a proposito della morte stessa. Non serve nemmeno spiegare perché. L'argomento di questo post e dei successivi, sperando che vada tutto bene, è un particolare genere iconografico e letterario che nasce nel Medioevo (in ciò collegandosi all'interesse che guida questo blog) e caratterizza ancora di più il Quattrocento e il Cinquecento, senza tuttavia sparire nei secoli successivi, rimanendo radicato nella mente della civiltà occidentale e riaffiorando anche nella musica e in arti più tarde come il cinema: la Danza Macabra.
Questo genere viene frequentemente classificato in più tipi di soggetti, talvolta mescolati, talaltra poco distinti, che sono il più antico "incontro dei tre vivi e dei tre morti", il "trionfo della morte" e la "danza macabra" vera e propria.  La premessa sul rischio di sconfinare è dovuta alla mole smisurata di storie e creazioni artistiche in cui la Morte si manifesta fisicamente o i morti escono dalle tombe (e con l'irritante moda degli zombie di questi anni non è proprio il caso); tutte quante cose che potrei collegare a questo argomento, e che mi piacerebbe anche collegare, ma che devo limitare a quelle in cui si può parlare davvero di riferimenti al trionfo della morte e/o alla danza macabra.
Trionfo della Morte, galleria regionale di palazzo Abatellis, Palermo.
Autore e data sono ignoti.
Per questi post mi avvalgo, come nel caso di quello sulle elegie anglosassoni, di un libro preso in prestito in biblioteca, "Danze macabre" di Pietro Vigo, nella sua edizione del 1901.

Il nostro percorso parte dall'età tardo antica, quando occasionalmente, non come genere costituito, la morte era rappresentata secondo aspetti allegorici comuni, gli antenati, in sostanza, del nostro "Tristo Mietitore". Le basi erano generalmente gli dèi greci, con le ali simbolo di deità, la falce attributo di Chrònos, quindi dell'azione distruttiva del tempo, spesso capelli lunghi ad indicare una femminilità della morte (termine femminile in latino e nelle lingue romanze, maschile in greco e nelle lingue germaniche); e poi Apocalisse 6,8, il passo con l'arrivo del quarto dei cavalieri convocati dall'apertura dei sette sigilli: "Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l'Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra."(C.E.I.)
Presso i pagani, la Morte ha plurime accezioni, ma generalmente ha una connotazione più mite rispetto a quella della tradizione successiva; spesso è accompagnata dalla massima "conosci te stesso" o sue rielaborazioni, a significare che l'uomo non deve dimenticare qual è il suo destino, che è palesato in maniera sarcastica da uno scheletro.
La cultura cristiana, nella quale la morte è soltanto il passaggio ad una dimensione spirituale di beatitudine -o dannazione- inizialmente non si occupa di raffigurarla, e le manifestazioni artistiche di essa sono solo nelle molteplici versioni del Giudizio Universale e di soggetti affini. Ci sono pure, nell'Alto Medioevo, raffigurazioni che la personificano, come ricorda il saggio di Vigo, ma per ragioni di spazio dovrò esimermi dal riportarle tutte. In linea di massima, l'Uomo riscopre l'iconografia della Morte nel XIII secolo -e si può dire che, da quel momento, non la dimenticherà mai più- a partire da un soggetto artistico comunemente chiamato "Incontro dei tre vivi e dei tre morti". Questo, che va collocato nella ricchissima tradizione medievale su visioni ultraterrene, cortei di morti, anime escluse dagl'inferi e costrette a vagare sulla terra, cui si ricollegano anche le leggende sulla caccia selvaggia e le origini di Arlecchino ("Hölle König", re dell'Inferno, pensate un po') che saranno oggetto di post futuri, deriva da una leggenda presente in più forme nel folklore del tempo, il motivo dell'incontro di tre giovani nobili, generalmente impegnati nella caccia e quindi colti in una foresta o in un bosco, con altrettanti morti, vicino o dentro le proprie tombe, che sorridono -con una vena di sarcasmo- davanti allo stupore e all'atterrimento provato dai vivi, e li ammoniscono sulla caducità della vita con motivi tipici quali "Quod vos estis nos fuimus, quod nos sumus vos eritis" ("Ciò che voi siete noi siamo stati, ciò che noi siamo voi sarete"), presenti in iscrizioni e ornamenti di vario genere risalenti a quel periodo. La prima forma di questa leggenda dovrebbe trovarsi nella letteratura francese del tempo, e il proliferare del tema nella letteratura e nella pittura sembra sia stato parallelo. Un'ipotesi interessante, contenuta nel "Medioevo fantastico" di Jurgis Baltrusaitis, è che l'origine di questo motivo sia orientale, derivi dal buddhismo, dove si trova l'incontro di Bodhisattva con personaggi che rappresentano i mali del mondo, quali miseria, malattia e, appunto, morte, e che il tòpos sia giunto in Occidente grazie ai rapporti con l'India. Questa ipotesi -oggetto di numerosi dibattiti, ma mai smentita del tutto-  chiarirebbe meglio anche un altro elemento che diviene frequente quasi subito, l'inserimento nel quadro della figura di un eremita (frequente nell'arte figurativa orientale) posto ad illustrare il significato della visione ai tre giovani spettatori, la cui classe sociale elevata, a significare che la morte coglie anche i nobili, prefigura il tema portante delle danze macabre. Questa presenza solleverebbe i morti dal compito di spiegare essi stessi il proprio stato, facendo sì che essi non parlino più, ma si limitano a comunicare un messaggio, più forte di qualunque parola, attraverso il loro aspetto.
Aspetto che, nel corso del tempo, evolve: mentre nelle versioni più antiche i morti sono scheletri tutt'al più ghignanti, col progredire di questo genere, parallelamente al senso di caducità che raggiunge l'apice nel Trecento e a un certo gusto artistico, si assiste per la prima volta alla rappresentazione del concetto di decomposizione dei corpi nella pittura: i morti hanno ancora lembi di pelle, occhi, vermi, caratteristiche intermedie fra il vivo e lo scheletro, e in alcune versioni non stanno nemmeno in piedi, ma sono mostrati riversi nella tomba. Questi aspetti sono illustrati ancora meglio quando i tre morti vengono mostrati ciascuno in uno stadio di decomposizione più avanzato dell'altro, quasi a fungere da manuale illustrativo dello stato del corpo dopo la morte.

Decisamente in linea al XIV secolo sono i numerosi Trionfi della Morte, che abbondano nell'Europa settentrionale, mentre in Italia ne vengono menzionati tre.
Realizzato da Buonamico Buffalmacco fra il 1346 e il 1341, il Trionfo del Campo Santo di Pisa è un esempio che lascia a bocca aperta.
Osservandolo (è l'immagine d'apertura di questo post) si scorgono in esso diversi motivi iconografici del genere macabro, e partendo da in basso a sinistra, dove i tre vivi di nobili costumi incontrano i tre morti in diversi stadi di decomposizione, circondati da serpenti e ammantati da un fetore tale che uno dei cavalieri si tappa il naso. Intorno a loro, figlia del Giudizio Universale, la rappresentazione degli angeli e dei diavoli che si scontrano nel cielo, predando le anime degli uomini (rappresentate dai bambini ghermiti dagli artigli dei demoni). La Morte sta in basso al centro, ha le ali e i connotati demoniaci, è dunque una forza del male.
Celebre per la sua bellezza è l'anonimo affresco conservato a Palermo e generalmente datato 1446. Anche questo si vede a inizio post. La Morte qui è una donna su un cavallo scheletrico, forte reminiscenza apocalittica, e irrompendo in un giardino circondato da una siepe, miete gli uomini con il suo passaggio e distrugge qualunque pretesa di impero e comando che essi possano nutrire, che è proprio il tema che costituisce i trionfi, la Morte cui non si sfugge. Gli zoccoli del suo cavallo calpestano i caduti, mentre lei, armata, oltre che di falce, d'arco e faretra (che richiamano il primo cavaliere dell'Apocalisse, coronato e munito d'arco, e Apollo, spesso associati fra loro) come in molte altre raffigurazioni dell'epoca, scocca i suoi dardi letali incurante di chi siano le vittime: ai suoi piedi si vedono re, imperatori, frati, il gruppo a sinistra, la povera gente che invoca la morte liberatrice, viene crudelmente ignorato, mentre quello a destra, costituito da nobili ed aristocratici, rimane indifferente a svolgere le proprie attività.
Trionfo della morte dell'oratorio dei Disciplini a Clusoni, 1484-1485

Molto importante perché associa Il Trionfo al soggetto di cui parlerà il prossimo post, la Danza Macabra, è l'affresco sulla parete dell'oratorio dei Disciplini a Clusone, incredibilmente pregno di allegorie.
Diviso in due parti, contiene entrambi i motivi; la parte superiore, presente qui a lato, vede la morte incoronata nella sua maestà scheletrica, con due scheletri minori alla sua destra e alla sua sinistra, che reggono dei cartigli con scritte ammonitrici. I tre scheletri sono in piedi su un sarcofago che contiene il papa e l'imperatore, i massimi poteri del Medioevo, attorno al quale si muovono personaggi che rappresentano le principali istituzioni del XV secolo, un re, un sacerdote, un doge, ricchi che cercano di corrompere la morte.

Ora, come anticipato, i trionfi e le danze non interessano soltanto la pittura, ma anche altri generi artistici, a cominciare dalla letteratura. E di certo non troveremmo letterato più insigne del Petrarca per osservare come questa immagine figure in versi.
Nei Trionfi, un poemetto in volgare redatto fra il 1351 e il 1374, meno famoso per noi rispetto al Canzoniere ma estremamente popolare nel Tre e Quattrocento, Petrarca, che si propone con quest'opera di confrontarsi con la Commedia di Dante, espone un viaggio allegorico in continuità con il percorso compiuto nelle altre opere, affidandosi alla struttura del poemetto boccacciano "Amorosa visione" in quanto l'opera è divisa in Trionfi (Cupidinis, Pudicitie, Mortis, Fame, Temporis, Eternitatis) costituiti da uno o più canti, in cui la narrazione/percorso individuale prosegue attraverso visioni e allegorie. È molto interessante il modo in cui, traendo spunto anche dai "trionfi", processioni festive o rappresentate in pitture, i Trionfi del Petrarca influenzano quelli successivi, sia celebrati che dipinti. E così, nel primo canto del Trionfo della Morte, introdotto da un'atmosfera sinistra, Petrarca ha un incontro con una vecchia dall'aria sgradevole, che si rivolge a Laura:

E come gentil cor onore acquista,
così venia quella brigata allegra,
quando vidi un’insegna oscura e trista:
et una donna involta in veste negra,
con un furor qual io non so se mai
al tempo de’ giganti fusse a Flegra,
si mosse e disse: - O tu, donna, che vai
di gioventute e di bellezze altera,
e di tua vita il termine non sai,
io son colei che sì importuna e fera
chiamata son da voi, e sorda e cieca
gente a cui si fa notte inanzi sera.
Io ho condotto al fin la gente greca
e la troiana, a l’ultimo i Romani,
con la mia spada la qual punge e seca,
e popoli altri barbareschi e strani;
e giugnendo quand’altri non m’aspetta,
ho interrotti mille penser vani.
Or a voi, quando il viver più diletta,
drizzo il mio corso inanzi che Fortuna
nel vostro dolce qualche amaro metta.

Ci diamo appuntamento alla seconda parte di questa danza di ossa novembrine con un trionfo moderno, ma non troppo: il "Ballo in fa diesis minore" di Angelo Branduardi, non per nulla uno dei miei cantautori preferiti, contenuto nell'album "La pulce d'acqua" nel 1977, è un trionfo in musica, dai toni gravi alternati ad altri più allegri, in cui il cantante presta la voce alla morte, che ammonisce dicendo:

Sono io la Morte, e porto corona
Io son di tutti voi signora e padrona
E così sono crudele, così forte sono e dura
Che non mi fermeranno le tue mura

Sono io la Morte, e porto corona
Io son di tutti voi signora e padrona
E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare
E dell'oscura morte al passo andare

Se molti conosceranno questa canzone, non sarà lo stesso per l'origine del testo:

Io sont la Morte che porto corona
Sonte Signora de ognia persona
At cossi son fiera forte et dura
Che trapaso le porte et ultra le mura
Et son quela che fa tremare el mondo
Revolgendo una falze atondo atondo
Ovvio taco col mio strale
Sapienza, beleza forteza niente vale
Non e Signor madona ne vassallo
Bisogna che lor entri in questo ballo
Mia figura o peccator contemplerai
Simile a mi tu vegnerai.
Non offendere Dio per tal sorte
Che al transire no temi la morte
Che più oltre no me impazo in be ne male
Che l'anima lasso al judicio eternale
E come tu averai lavorato
Cossi bene sarai pagato.

Questi versi li troviamo insieme al dipinto della danza macabra del Cimitero di Penzolo in Val Redena, ma il motivo iniziale, "Io son la Morte che porto corona/sonte Signora de ogni persona" è ampiamente diffuso, e lo ritroviamo, per esempio, insieme alla danza macabra della chiesa di Santo Stefano di Carisolo.
Il finale della canzone, invece, è di un altro avviso:

Sei l'ospite d'onore del ballo che per te suoniamo
Posa la falce e danza tonda tonda
Il giro di una danza e poi un altro ancora
E tu del tempo non sei più signora

Gli uomini invitano la Morte a danzare perché, inebriata e dimentica del motivo per cui è venuta, lasci stare i vivi. Questa idea, che pare trovarsi anche in antiche danze sarde, non è la stessa alla base della danze macabre, se non per questa immagine della Morte che si dedica all'arte del ballo.
Su questi passi ritmati, in ogni caso, noi ci separiamo, sperando di ritrovarci per danzare ancora nella seconda parte di questo spettacolo.