È simile un puzzle. Miliardi di caselle che costituiscono singole storie, ciascuna che ha un senso presa singolarmente, e che si lega ad altre storie per dare un senso a quelle che le si legano, alcune legandosi di più, altre di meno, le une al centro, le altre ai bordi.
E poi vi è il totale, il puzzle, la grande storia che è somma di tutte le storie. Forse adesso il puzzle come paragone non reggerà più, ma c'è somiglianza fra la grande storia e ognuna di quelle piccole, perché sia l'una che le altre si fondano su modelli simili. Come un aeroplano di plastica fatto da tasselli ciascuno a forma di aeroplano. Le idee platoniche, le forme a priori. C'è una basilare idea, fondata su alcune sequenze di bene, male, vittoria, perdita, staticità, trasformazione.
In parte questo è un bene, perché genera un senso di reciprocità, corrispondenza, un disegno perfetto.
Ma se ciò significasse essere prigionieri di questo disegno? Se qualcuno avesse in mente un disegno diverso da quello del destino, rendendosi conto di non poter interferire con quel destino, dovrebbe davvero limitarsi ad accettarlo? Nessuno può, se non uccidere, almeno ferire il destino?
Vi era una volta un essere che volle provare.
Il suo se stesso era morto, l'aveva ucciso il mondo.
Voleva cantare, gli aveva tagliato la lingua.
Voleva dipingere, gli aveva tagliato le dita.
Voleva correre, gli aveva tagliato anche i piedi.
Lui si era accorto del fatto che tutti si stavano attenendo alla stessa storia. Si era chiuso in casa, li aveva osservati, e si era reso conto dopo mesi di osservazione di quanto simile fosse quello che tutti loro stavano facendo. Dopo anni, ormai non coglieva nemmeno le differenze fra i singoli, il vivere del mondo gli sembrava una danza di marionette, meccanica, sorda, ad un ritmo che più lo udiva e più lo spaventava.
Così uscì di casa, e provò a cantare ad un ritmo diverso. Per questo gli tagliarono la lingua.
Allora dipinse un quadro che non seguiva nessuno di quegli schemi. Bruciarono il quadro, e gli tagliarono le dita.
I piedi glieli tagliarono quando videro che, mentre cercava di correre via, anche i suoi piedi scandivano un altro ritmo.
Quando rimase lì, monco, muto, sanguinante, adagiato sul ciglio della strada, con la gente che, nonostante tutto, parlava dicendo sempre le stesse cose, gli poneva domande sempre uguali e soprattutto si aspettava una risposta da lui, si rese conto di essere sì ancora vivo, ma non più vivo per sé, vivo solo per non interrompere la pantomima, perché gli altri avevano bisogno di credere che fosse vivo, perché la morte li turbava. La sua vita era come un funerale, eseguito per il bisogno di cordoglio dei vivi, indifferente al morto. Dunque lui era morto? Se si sentiva morto, allora non restava che morire davvero.
Non si uccise da solo, ma seguì trascinandosi il corso di un fiume per giorni, strisciando verso il basso finché il fiume non si immise nel fiume dei morti, seguendo il quale arrivò al regno dei morti. Lì chiese al re dei morti, con cortesia ed educazione, usando il lato della mano per scrivere nella sabbia, se potesse morire. Il re dei morti, che era saggio, lo accontentò senza fargli domande, per non affaticarlo ulteriormente con le risposte. E l'essere morì.
Ed ecco, dopo che fu morto, riottenne la lingua, le dita e anche i piedi, dunque chiese il motivo al re dei morti. Il re dei morti, che era saggio, gli spiegò che con la morte si era liberato da quelle forme e da quel ritmo, poteva essere qualunque cosa desiderasse. La morte lo aveva eternato, il vincolo che lo legava agli altri era ormai spezzato e poteva essere quello che voleva, anche se poteva esserlo solo per se stesso. L'essere se ne compiacque, ma si domandò: se si vive veramente solo dopo la morte, perché prima si vive la vita?
"Nihil" di Saturno Buttò, 2010 |
In questo modo però non viveva più, perché era morto. Adesso poteva essere quello che desiderava, ma lo era solo per se stesso. D'altra parte, aveva senso essere altro da sé per l'altro?
Finché era vivo, era morto all'assolutezza del suo io che necessitava di imporsi sulla relatività e sull'indeterminatezza della vita. Ora che era morto, uno ed assoluto, era oltre l'indeterminatezza, oltre il destino. Ma così, come poteva ferirlo?
Lo chiese al re dei morti. Il re dei morti, che era saggio, gli rivelò che non poteva farlo, perché lui era solo polvere. Perché anche se credeva di avere una volontà talmente intensa e grande da poter comprendere l'intero universo e provarne noia, quella volontà non aveva la forza di intaccare nemmeno una cellula di quell'universo. Poteva credere nella possibilità di qualunque slancio divino, nell'infinità della sua anima. Ma la sua anima non era se non il punto estremo della sublimazione di quella polvere che, quale che fosse il valore in cui credeva, quantunque alta la sua considerazione di sé stessa, sarebbe rimasta polvere. Un mucchio di polvere in quel mondo sotterraneo dominato da quel re reso saggio dalla millenaria esperienza di tutti i viventi il cui cammino si era inevitabilmente compiuto lì, fossero dotti, fossero sciocchi, dove non vi era se non, appunto, polvere.
A quel punto, il re domandò all'essere se desiderasse tornare in vita e seguire ancora un po' quella danza, senza pensare al destino, senza pensare all'assoluto. Accettare quel diritto a vivere che gli era stato concesso alla sua nascita.
Non so se il re dei morti volesse o potesse davvero rimandare indietro l'essere dal suo regno. So soltanto che questi non accettò, perché preferiva decidere di restare polvere, piuttosto che avere tante forme potenziali con la consapevolezza di non poter andare oltre quelle forme. Di non poter scegliere il destino che voleva, giacché il destino stesso poteva impedirglielo.
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