«Perché vieni ancora da me, Freyja?» le domanda più tardi.
«Hai ancora bisogno di chiedermelo?» lei chiede, addolorata «Non riesci a credere che a me non importi?»
«Non può non importare a te, se a me invece importa così tanto» replica il mostro, che marca i "non" col ringhio della sua gola.
«Allora il tuo dolore non è il mio, Svipdagr. Io ti amo come ti ho amato sempre, da quando venisti, tanti anni fa, nella mia casa...»
«Non ricordarmelo!» ruggisce Svipdagr «C'era lui, davanti alla porta della tua casa. Lui che mi ha fatto questo!»
Freyja solleva il braccio verso il suo muso, e lo tiene levato in muta richiesta. Lui lo abbassa lentamente, e lei gli tocca la guancia. «Ma c'ero anch'io». Una lacrima le scivola sulla sua, mentre gli chiede «Non è un ricordo dolce il fatto che lì ci fossi io? Che tu abbia incontrato me e io te?»
Svipdagr smette di ringhiare. Tende la zampa verso Freyja, e Freyja la stringe contro il proprio viso, come quando quella era la mano che glielo accarezzava.
«Soffro troppo, Freyja. Quel che è accaduto è stato colpa mia, e qualunque cosa possa accadere nel mio futuro, è una colpa che resterà per sempre. Ma non sarebbe così grave per me, se non dovessi scontare questa pena anche tu. Tu che sei ancora una dea, figlia di Njörðr il grande, contesa da Aesir, Vanir e gli eroi più famosi, che sull'incedere dell'alba e il commiato del tramonto, quando il sole è più mite con la terra, scende in una spiaggia solitaria per portare conforto a una bestia ripugnante, che non allestirà mai più banchetti...»
«Svipdagr, non dire così...» gli stringe la zampa artigliata al petto, come se quegli artigli potesse smussarli.
«...non otterrà più gloria sul campo di battaglia...»
«Ma queste cose non mi importano...»
«...e non potrà mai più darti piacere. Perché ti attardi ancora con me? Abbandonami a un destino che mi peserà di meno, se non dovrà affiggere te, e torna con i tuoi cari presso la Valhöl, dove non c'è rischio che tu debba mai più udire il nome di Svipdagr.»
Freyja adesso sta piangendo, e persino in quel luogo silenzioso la natura reagisce a ogni suo gesto: le sue lacrime sono gocce d'oro, le onde del mare accordano la loro canzone ai suoi singhiozzi, per prendere parte alla sua mestizia, e la nebbia si addensa intorno a lei, come per abbracciarla.
«Tu non fai che mentire da quando ti trovi qui. Neghi così fortemente te stesso da negare anche tutto il resto. Sei talmente radicato nel tuo dolore da essere incapace di credere a me, che ti dico la verità, e cerchi di allontanarmi perché il fatto che venga da te ti dà la speranza che ciò in cui credi non sia vero.»
«Credi che speri di poter tornare come prima?»
«No, ma hai in cuore la speranza di poter continuare a vivere anche così, con me, e nonostante questo cerchi di convincerti che non è vero. Ma invece possiamo, Svipdagr. Sono qui per questo. Sono qui perché ti amo veramente e perché credo, altrettanto veramente, che possiamo continuare a vivere insieme anche così»
Lei ha ragione, il mostro non osa crederci. La speranza è gravosa, e il suo animo provato. Ha colpe terribili, ancora più pesanti delle sue membra sgraziate, ad ancorarlo alla sua disperazione. Non brama anche il fardello della sofferenza di colei che ha cara più della sua anima. Sente di aver perso entrambe.
«Tu sei una dea...» mormora, mentre socchiude gli occhi.
«Che cosa?»
«Tu sei una dea» riprende, e in fondo alla gola ha ripreso a ringhiare «sei una dea e hai tutto il tempo che si possa desiderare. Io sono ancora mortale, Freyja. Probabilmente, colui che mi ha fatto questo prenderà le sue precauzioni acciocché io viva molto a lungo, in modo da estendere il suo divertimento, ma alla fine morirò ugualmente. Ti basta aspettare che accada, e poi potrai volare via libera. Non ho ragione?»
Freyja impallidisce e trema, la natura trema con lei.
«Svipdagr, perché mi fai questo?» gli chiede, con la voce delle foglie coperte dalla prima brina.
Il mostro marino la guarda negli occhi, non cessa il ringhio, ma non parla.
«Forse che questa sia stata la tua vera trasformazione? Forse che l'uomo più saggio, coraggioso e compassionevole che io abbia conosciuto, in tutto il tempo che abbia desiderato, l'uomo che ha vinto il mio amore con i suoi meriti, laddove neanche gli dèi ci sono riusciti, sia davvero diventato meschino e crudele fino a perdere la ragione, come tutti dicono di lui e come tutti hanno creduto, tranne me, e che il suo corpo abbia semplicemente seguito la corruzione del suo spirito? Tu mi laceri il cuore con parole spregevoli, parole di cui nemmeno ti credevo capace, quando io darei via per te ogni cosa. È questo il vero significato del nostro amore?»
«Dunque adesso mi credi anche tu meschino, crudele e senza ragione. È questo che sono ai tuoi occhi? Devo anche credere che dopotutto la mia maledizione sia servita a questo? A un pretesto per abbandonarmi?»
«Svipdagr, non vedi che sei tu stesso a dire cattiverie e causare sofferenza a entrambi?» Freyja ha chiaro cosa egli stia cercando di fare. Ma è ugualmente troppo doloroso.
«E se fossi stata tu stessa a suggerire a Odino questa punizione?» dice il drago, con una luce sinistra negli occhi.
«Basta così!» grida Freyja, e il mare fa eco alla sua voce, e il cielo diviene minaccioso «Hai troppo odio perché possa parlare con te. Provo il peso del tuo dolore come lo provi tu, non posso reggere anche quello del tuo disprezzo. Stemperalo in mia assenza, ti darò tutto il tempo che vuoi. Stammi bene, Svipdagr».
Lui non risponde, perché il senso di colpa che aumentava ad ogni parola, forse ancora più agghiacciante di quello che provava già, adesso gli ha chiuso la gola. Guarda la dea allontanarsi come un fantasma e farsi sempre più piccola, correndo sul mare con ali di falco. Abbassa lo sguardo solo quando non la vede più.
Non dormirà neanche stanotte.
«Amico mio, devo lasciarti» disse Lyfir.
Per Hadding non fu una sorpresa. Sapeva che il suo compagno se ne sarebbe andato improvvisamente, come improvvisamente era arrivato. Pure, il commiato gli spiacque profondamente.
«Dove andrai?» gli domandò.
«A ovest, credo. Stanno accadendo molte cose strane, ma credo che lì il mio aiuto potrà significare qualcosa».
«E la guerra? Che mi dici della guerra?» Hadding aggrottò le sopracciglia: era per la stessa ragione che i due uomini avevano viaggiato insieme, dopo essersi imbattuti l'uno nell'altro, sconosciuti ma sanguinanti e bisognosi di aiuto.
Lyfir lo guardò con curiosità: «La guerra è finita, Hadding. Tu hai perso. Mi dispiace per te, mi dispiace perché appoggiavo la tua causa, ma è inutile insistere contro il volere degli dèi; e pare che quel volere non sia più dalla tua parte, non almeno come lo era prima».
Hadding prese la sua spada e la puntò a terra, osservandone i fregi illuminati dal fuoco: il loro bagliore proiettava ombre sul suo volto.
«Ho perso tutto quel che avevo, caro amico. Mio padre è morto, i miei parenti, i miei amici sono morti nella guerra contro Svipdagr. E i suoi discendenti sono ancora lì, padroni della terra e di versare a proprio capriccio il sangue dei danesi. Davvero devo credere che sia finita?»
«Non occorre» disse Lyfir, e sorrise «perché so che non lo crederai. Ti auguro il meglio della fortuna in qualunque cosa sceglierai di fare. Addio allora, Hadding. Spero che ci rivedremo in questa vita».
«Ho un'ultima domanda, se non ti dispiace» disse Hadding, ancora guardando il fuoco.
«Falla pure».
«Tu sei Heimdallr, non è vero?» Hadding lo guardò in volto.
Lyfir rise «Fa' buon viaggio, figlio di Halfdan. Non è difficile, anche per chi non è un dio, avvertire come tu sia destinato a compiere grandi cose, e molto più numerose di quante possa vantarne la maggior parte degli eroi. Ma sta' bene attento, perché su di te incombono anche le tenebre, più fitte di quelle attraversate da quegli stessi eroi. Scegli le tue azioni con saggezza. Addio!».
«Grazie, padre degli uomini. Addio» Hadding osservò il suo compagno di viaggio uscire dal loro rifugio e svoltare a sinistra, dove non riuscì più a vederlo. Attese il trascorrere della notte, dopodiché si rimise in piedi e uscì alla ricerca di una nuova strada verso il suo destino.
Il mare oggi è come ieri, e la nebbia come quando è arrivato. Cambierà qualcosa?
Freyja non è venuta: è stata di parola. Per lei le parole hanno un valore. Anche per lui le parole sono così importanti, o almeno lo sono state; per superare le prove imposte da Fjölsvidhr non gli sono servite la forza o l'agilità, ma la saggezza e l'astuzia. Sembrano passati così tanti anni, come se nel frattempo fosse invecchiato e poi morto, e poi nato ancora e nuovamente morto, e nato una terza volta. L'uomo che è stato per secondo, prima del mostro di adesso, ma dopo il giovane spavaldo che si è avventurato nella terra dei giganti alla ricerca di una sposa, forse non è stato all'altezza del primo. E ciò che è adesso lo rispecchia. Curva il collo verso il mare, di solito non ama farlo, e si guarda: le labbra con cui baciava Freyja sono cesellate di squame e ad ogni , spostandosi, rivelano i denti lunghi e fitti che crescono nella bocca dove lei esalava il suo respiro; piccole punte di corno gli incorniciano gli occhi al posto delle sopracciglia, un vello incrostato di sangue rappreso sostituisce la rada barba che a lei tanto piaceva, e i capelli dorati sono strisce di pelle color sabbia tesa fra raggi ricurvi.
Si domanda perché, tra tutte le forme possibili, Odino gliene abbia imposta una del genere. Se fosse stato un lupo, o un orso, avrebbe almeno posseduto le dimensioni per abbracciare Freyja. Se fosse stato tramutato in un gatto, la dea l'avrebbe potuto tenere con sé, senza che dovesse nascondersi in quella caverna isolata da ogni cosa. Se gli fosse stato concesso di divenire un falco, una rondine o una civetta, l'avrebbe potuta seguire ovunque fosse andata, e forse, vivendo oltre la sommità delle nubi, senza né specchi né la vista dei mortali a intimorirlo, avrebbe potuto dimenticare di essere stato qualcos'altro un tempo, e godere la breve vita riservata alle bestie prima di abbandonare il mondo nel grigiore.
Ma è stato trasformato in un mostro. Un drago, e non una fiera volante avvolta dalle fiamme, al cui passaggio luminoso gli uomini si gettano in terra scongiurando o pregando per una sorte più favorevole; o un possente serpente dell'antichità, barone di un vasto appezzamento di morte dove nessuno si avventuri a sfidarne la volubilità d'animo, timoroso del suo veleno. Il suo corpo è troppo grande, troppo pesante, e quando cammina sulla terra è goffo, privo di ogni grazia. Scivola agilmente nel mare, ma non può immergersi troppo a lungo e troppo in profondità, nella tenebra vergine al tocco beffardo del sole, perché ha bisogno di respirare aria come i figli degli uomini. La costa è volta verso il nord, da dove non può venire nessuno che sia vivo, e dove i saggi dicono che sia possibile prendere la via che porta nella morte.
Ma Svipdagr non vuole ancora morire. Non per Freyja -per lei, sì, morirebbe, in modo da liberarla da ogni promessa; ma non è ancora giunto il momento per farlo-, né per gli uomini che una volta furono i suoi amici, la sua famiglia, e nemmeno la determinazione a non rendere alcuna soddisfazione a Odino ha incidenza sulla sua volontà.
Svipdagr vive perché ha bisogno di odiare. L'odio per quello che gli è accaduto, per il modo in cui è accaduto, e per coloro che sono stati gli agenti della sua condanna e la pena per colei che ne ha sofferto, è troppo grande per consumarsi in alcuni giorni, quanti ne ha già vissuti o la quantità che raggiungerebbe se ne vivesse altrettanti di nuovo. È convinto che neanche se vivesse una vita lunga quanto quella che ha già vissuto, anzi, un'intera vita di uomo, anche molte di seguito, riuscirebbe a estinguere quell'odio. Probabilmente, neanche se possedesse la vita di un dio riuscirebbe a liberarsene.
Giunta la notte, Hadding si fermò in una radura tra rocce e cespugli, accese un fuoco e arrostì il cervo che aveva abbattuto. Seduto davanti alle fiamme, ripensò a cosa lo avesse condotto lì.
Lui era il campione dei danesi e di tutto quello che il loro nome significava nelle lande del sole di mezzanotte. Avrebbe continuato il grande ciclo di vittorie di suo padre Halfdan, che ovunque andasse era ancora ricordato come l'eroe più forte che uomo o gigante avesse mai incontrato, se non fosse stato per il bastardo che aveva segnato il destino della sua famiglia, Svipdagr il maledetto.
Non sapeva come tutto fosse iniziato, non aveva mai chiesto a nessuno di quelli che ricordavano Svipdagr come un amico degli dèi e degli uomini, una creatura di luce, come fosse avvenuta la trasformazione, e perché a un essere così potente fosse stato concesso di occupare un trono a Miðgarðr e spadroneggiare degli uomini e delle loro sorti.
Creatura viziosa, aveva trasformato la corte norvegese in una roccaforte infernale, nella quale si era dedicato a ogni genere di nefandezza, esigendo tributi e conquistando senza pietà. Ma più ancora che la sevizia, o la lussuria, era l'odio a motivarlo. E quell'odio era specificamente diretto verso lui e la sua famiglia. Svipdagr aveva mosso guerra a tutti i sovrani confinanti, e aveva guidato i suoi eserciti combattendo in prima linea, ma non per adempiere al dovere di un capo o rafforzare la determinazione dei guerrieri. Combatteva solo per placare il desiderio di sangue. Mulinava la sua spada maledetta, su cui circolavano già centinaia di storie, dicevano fosse stata forgiata da Völundr in persona, e anelli, tessuti, carne e ossa cedevano come grasso fuso.
Quando aveva formato la sua flotta, per sconfiggere definitivamente l'esercito svedese, un nuovo vizio gli aveva conquistato l'animo: combattere sul mare, e conquistare fino ad arrivare al confine stesso del mondo. E una volta che tutta la Norvegia e tutta la Svezia erano cadute nelle sue mani, era sembrato che nulla potesse opporglisi.
Hadding sogghignò: anche a lui era sembrato così, ma si era opposto lo stesso.
Si era conquistato -a differenza dell'usurpatore- una fama solida e onorevole grazie alle sue azioni e ai suoi sacrifici, sconfiggendo giganti e rovesciando aguzzini e tormentatori di uomini: questo gli aveva garantito un seguito. Poi aveva mosso battaglia a jarl e signorotti, e il seguito era diventato un piccolo esercito. Infine aveva sconfitto gli emissari di Svipdagr, e la sua era diventata un'armata. Anche allora, però, nessuno avrebbe creduto che una vittoria contro il re di tutto il nord fosse possibile.
Allora, Hadding si era rivolto a Odino, e aveva pregato per ottenere, se non la vittoria, la vendetta per il padre. E Odino gli aveva risposto.
...
Quando le forze di Hadding giunsero nelle acque di Gotland, trovarono l'esercito di Svipdagr già pronto. I due capi si erano sfidati.
«Bentornato a casa, figlio di Halfdan!» lo salutò Svipdagr dal ponte della sua nave «In Danimarca non c'è legno o sasso che non abbia gustato il sangue della tua famiglia. E il piacere di assaggiarlo di nuovo farà splendere questa terra come mai prima.»
«Allora farò in modo di spargere il tuo sangue tanto quanto hai fatto tu con quello dei miei. Prega di averne abbastanza in corpo, Svipdagr figlio di nessuno, perché, se il tuo non basterà, troverò il modo di farti tornare in vita e ucciderti ancora, fino a quando il debito non sarà stato saldato.»
«Io non prego, Hadding. Un dio non ha bisogno di pregare. Ho il potere per farti tutto il male che potrebbero farti tutti gli Æsir se sedessero allo stesso banco del torturatore. E neanche un briciolo della loro misericordia.»
«Sarà questa la causa della tua fine, Svipdagr» disse un marinaio eretto sul ponte accanto ad Hadding, il quale si girò, come se neanche lui ne avesse registrato la presenza. E neppure lo riconobbe in quel frangente, l'alto uomo, d'aspetto vecchio ma forte, avvolto in un mantello grigio, con un ampio cappuccio calato sul volto e una lunga barba.
«Ah! Hai grandi speranze, se nemmeno conosci l'equipaggio della tua nave» sogghignò Svipdagr, ignorando le minacce del vecchio: era di una nullità troppo profonda, perché lo registrasse.
«Dovresti aver viaggiato abbastanza per riconoscermi anche così, Svipdagr figlio di Aurvandill» disse l'uomo «presta attenzione alle mie parole, o la rovina intorno alla quale hai camminato finora sarà totale.»
Il volto di Svipdagr si accigliò, una smorfia di orrore e di sgomento ne incrinarono gli splendidi lineamenti. «Tu...»
Il vecchio sollevò il cappuccio, rivelando i lunghi capelli grigi e l'occhio mancante. Dal suo mantello trasse una lunga lancia dorata e la spiegò verso le nubi. Due corvi volteggiarono sopra le navi. Il cielo fu celato da una tempesta, il tuono decretò il ritmo delle ondate e un vento furioso iniziò a vorticare al largo di Gotland.
«Io, Odino, re di Ásgarðr e di tutti i nove mondi, vengo a te oggi per ordinarti di fermarti. Ti ho lasciato agire ignominiosamente sulla terra dei mortali, sperando che realizzassi la portata del tuo male, ma davanti ai tuoi spergiuri è ormai chiaro che hai dimenticato chi tu fossi, e a chi tu debba chi tu sia. Poche volte, prima di oggi, ho rivelato me stesso nelle battaglie cui ho preso parte, ma mai con una collera così grande e di fronte a un uomo che mi avesse deluso così tanto, uno che consideravo un figlio. Ti rendo manifesta la mia volontà: il mio favore è con Hadding figlio di Halfdan, che tu hai perseguitato. Tu oggi non vincerai. Ritirati immediatamente e abdica in suo nome, o tutta la tua gloria svanirà tra le onde come spuma, senza che nessuno la ricordi mai.»
Gli uomini della nave di Hadding si inginocchiarono davanti al Padre di Tutti. E anche molti di quelli della nave di Svipdagr. Ma non lui. Hadding l'aveva visto tremare, e per un momento aveva creduto che un barlume di timore sacro, e di ragione, si fosse riacceso nella sua brutale furia. Invece era rabbia. In qualche modo, il suo odio era cresciuto ancora. Tacque solo alcuni istanti, prima di rispondere, sputando le parole come se potessero colpire il volto del dio.
«Odino, davvero quello dell'eternità è un peso terribile per il pensiero e la memoria, se adesso ti spinge a parlare come un vecchio demente. Saresti più saggio se tenessi Húginn e Múginn vicino a te, anziché mandarli in giro per il mondo fino a rimanerne sprovvisto. Se fossi venuto ospite della mia sala, ne avremmo discusso davanti al fuoco bevendo idromele, e anche se fossimo entrati in disaccordo ti avrei congedato da amico, da figlio riconoscente. Non avresti mai dovuto schierarti contro di me, con l'oggetto del mio disprezzo. Perché tutto quello che ho fatto in questi anni è stato fatto per lenire l'odio che ho provato, a causa sua, per tutta la mia vita, e non avrà avuto senso fino al momento in cui spargerò le viscere del piccolo bastardo che adesso proteggi, tra la terra e il mare. E se oggi, nel giorno del mio trionfo, anche tu hai deciso di ergerti contro di me dalla parte del mio nemico, e di condividere con lui l'ora del morso della notte e del disprezzo, allora tutti e nove i mondi lo ricorderanno come il giorno nel quale anche Odino è crollato davanti al potere universale di Svipdagr, il re della luce che abbaglia e dell'ira inestinguibile».
Quel giorno, l'unico occhio dell'Allföðr non sprizzò le scintille dell'eccitazione guerresca. Ne sgorgò invece una lacrima, che scivolò silenziosa sulle sue guance rugose e precipitò nella folta barba, dove non venne più vista. Ma Hadding l'aveva scorta, e quel pensiero lasciò un segno nel suo cuore per sempre.
Il Padre degli Dei sollevò la lancia e decretò, parlando con la sua voce, con la voce del tuono e con quella delle onde «Per la tua sfida e la tua empietà verso me e verso gli Æsir di Ásgarðr, sia tu maledetto sopra tutti i miei figli e al di sotto di tutti i miei nemici. Oggi sarà il giorno in cui la luce di Aurvandill verrà offuscata per la sua stessa tracotanza, poiché ha creduto di essere più grande del sole».
Dopodiché, Odino aveva voltato le spalle, aveva camminato verso la poppa della nave, mentre i marinai si scostavano da ambo i lati, e scavalcando lo scafo fu visto continuare a camminare sulle onde del mare di Gotland, fino a sparire per la distanza.
Hadding aveva colto una soddisfazione viscerale, un sentimento animalesco, nei denti serrati e nelle labbra sollevate di Svipdagr; ma nei suoi occhi aveva colto anche qualcos'altro, qualcosa che sul volto di un uomo sarebbe sembrato smarrimento, dubbio, sconforto, un inquieto tentativo di comprendere perché fosse stato appena abbandonato. "Ma lui è una bestia senza padre" aveva pensato allora "e il suo animo è ancora quello di un bambino, cui nessuno ha insegnato niente".
La stessa sera, nel tacito assenso delle stelle, gli Æsir e i Vanir di Ásgarðr si radunavano nelle loro sale dorate, sotto le volte profonde sulle quali essi stessi avevano disposto le costellazioni, fissato l'asse del tempo e la misura delle sue rotazioni. Alcuni di loro erano lieti, poiché ritenevano che nulla di meno della letizia dovesse ispirare il pensiero di un dio. Ma molti erano tormentati da presagi gravosi, giacché gli dèi fanno parte dello stesso mondo dei mortali, e la legge della morte incombe anche su di loro.
Il più tormentato, quella sera, era il luminoso Freyr figlio di Njörðr, poiché il suo amico soffriva e aveva bisogno di lui. Anche sua sorella, colei che gli era cara più di ogni altro, covava una pena indicibile e mancava da casa da più tempo di quanto egli potesse ricordare. E nulla poteva lenire nel cuore di Freyr la consapevolezza di non poter fare nulla per nessuno dei suoi cari.
Un improvviso bussare contro le sue porte d'avorio lo distrasse. Invitò distrattamente il visitatore a farsi avanti.
Le porte si aprirono e si richiusero, rivelando la figura eretta, i lunghi capelli ribelli e la pelliccia grigia che avvolgeva le forti membra di Skaði, figlia di Þjazi.
Freyr si alzò dallo scranno su cui sedeva stravaccato ormai da giorni, tolse i capelli spettinati dalla fronte e le andò incontro, versandole una coppa di idromele e invitandola a sedere.
«Stai peggio di come ti abbia mai visto» disse Skaði, accettando la bevanda ma rifiutando con un cenno del capo la sedia.
«Tu invece stai bene come sempre» rispose Freyr, sorridendo tristemente.
«Tuo padre non si affligge meno di te» continuò la gigantessa, ignorando il complimento «non solo perché il suo genero è maledetto e sua figlia è scomparsa, ma perché anche il figlio che è rimasto a casa è lontano da lui come lo sono loro.»
«Lui non ha a cuore Svipdagr come lo abbiamo noi. Per rivedere Freyja seduta nella Sessrúmnir, bella e indifferente come è sempre stata, le estirperebbe la sua memoria dal cuore con le sue stesse mani. Per sé stesso non avrebbe neanche da faticare.»
Skaði sogghignò: in quelle sale dorate era raro sentire un'affermazione così schietta.
«Immagino tu creda di essere l'unico qui cui egli manchi.»
«Odino ha sofferto, lo sappiamo tutti. Ma è stato lui stesso a maledirlo. Non lo biasimo, Svipdagr ha completamente perduto il senno. Ed è proprio questo che mi strazia così tanto: che non posso odiare nessuno. Non posso ritrasformare Svipdagr in ciò che era prima, né riportarlo qui, né costringere Odino a riammetterlo ad Ásgarðr, e anche se potessi fare anche solo una di queste cose, la farei contro tutti gli Æsir, Vanir e Disir che dimorano in questo grande palazzo infelice. Non che questo mi tratterrebbe.»
«Non tutti. Non sei il solo a provare pena per lui. Tutti, in questo grande palazzo infelice, come lo chiami tu, gli dobbiamo qualcosa. Lui ha vendicato mio padre, ricordatelo. È riuscito a riunire in accordo me con gli Æsir senza che dovessimo combattere, solo per merito suo.»
«Mi ha salvato. Me e Freyja» disse Freyr guardandola profondamente con i suoi occhi dorati «Non solo dalla prigionia a Jötunheimr, o dagli incantesimi che ci piegavano, ma dalla vergogna. Se non fosse stato per lui, non sarei mai tornato qui. Né sarebbe tornata Freyja.»
«Ha conquistato tesori a Niflheimr, tesori a Jötunheimr, ha reso più gloria ad Ásgarðr di quanto abbiano fatto molti degli dèi che ne occupano gli scranni.»
«Nessuno era stato come lui, fino al giorno in cui è entrato come la prima luce dell'alba.»
«Si è addossato tutti i doveri della stirpe di Aurvandill, dei giganti come me.»
«E ci ha quasi distrutti in guerra» le ricordò Freyr con amarezza.
«Ma poi è venuto qui, da solo, pronto a tutto per conquistare l'amore di Freyja» continuò Skaði.
«E ha messo a nostra disposizione la spada di Völundr, l'arma capace di spezzare persino il Mjöllnir».
«Ora si trova da solo, trasformato in un mostro, a rivivere all'infinito i suoi ultimi anni maledetti. Non è giusto. Cosa può aver spinto uno come lui a diventare un tiranno, un persecutore di uomini?»
Freyr socchiuse gli occhi -il mondo si oscurò- e rispose «Sempre per lo stesso motivo. La vendetta. L'odio contro Hadding. E l'odio di Hadding stesso. Svipdagr aveva creduto che il capitolo doloroso delle sofferenze vissute durante la sua giovinezza si fosse concluso dopo aver ucciso Halfdan, il padre di Hadding, vendicando in questo modo suo padre Aurvandill, che Halfdan aveva ucciso con la sua clava. Quando Hadding ha rifiutato le proposte di pace di Svipdagr, egli ha visto rinnovati i giorni elle faide. Ha compreso che, fino al momento in cui non avesse distrutto definitivamente Hadding, e con lui la stirpe degli Skjöldungar, i danesi con lo scudo, la sua pace non sarebbe mai stata completa.
Purtroppo, Svipdagr non è nato dio. Ha conosciuto da bambino com'è la vita di tutti gli altri. Ha visto quanto è difficile costruirsi la fortuna, e quanto è facile perderla. E perdere una vita da dio è un pensiero che farebbe impazzire chiunque.»
Skaði rimase pensierosa: anche lei aveva conosciuto le asperità di una vita in fuga, di odio e di vendetta. Provava sinceramente compassione per Svipdagr, ma credeva che ci fosse anche qualcos'altro, dietro la sua caduta.
«Se ricevesse la tua comprensione, forse soffrirebbe meno il suo esilio» disse la dea della caccia.
Freyr sospirò «Lui non ha bisogno di comprensione. Probabilmente è certo di non riceverne, e se anche gliela offrissi lui non l'accetterebbe.»
«Con Freyja vicino, forse sarebbe più ragionevole.»
«L'ho osservato, e diverse volte, dal trono di Hliðskjálf, quando Odino non c'era. Da lì è possibile vedere ciò che accade in tutti i mondi. Mi ha spezzato il cuore, ma l'ho osservato. Freyja è andata da lui, più volte, ma è da giorni che non va più. Credo non dipenda più neanche da lei.»
«E da cosa dipende, allora?»
Lo splendore del corpo di Freyr si ridusse.
«È come quando ero io prigioniero a Jötunheimr. È la vergogna. Lui sa che quello che ha fatto è irreparabile. E sa che non ha vie d'uscita: il suo aspetto gli impedisce di andare a dimorare con gli uomini, o con i nani, o gli elfi, e neppure potrebbe stare con i giganti. Persino tra le bestie è condannato alla solitudine: non esiste, adesso, altra creatura come lui. La sua unica speranza di fuggire a quel fato sarebbe implorare gli dèi... gli stessi con i quali ha spezzato ogni legame rifiutando Odino.
Non ha da fare altro che restare lì, ripercorrendo all'infinito gli eventi che l'hanno condotto in quell'isola, sperando che la morte sopraggiunga presto.»
Skaði lo guardò incrociando le braccia «Come fai a sapere tutto questo e rimanertene qui fermo a rimuginare, proprio come lui? Se davvero hai capito così tanto, va' a dirglielo!»
«Non ha ascoltato Freyja, non ascolterà neanche me.»
Skaði gli afferrò le spalle, e questa volta fu lei a scrutare nei suoi occhi con il gelo invernale dei propri.
«Hai ragione. Hai ragione su tutto quello che hai detto. Il tuo uso della ragione è così affinato che sempri un Ás anche tu, acuto, analitico e infallibile. Ma non lo sei, sei un Vanr. E sai meglio di me che tutti i ragionamenti del mondo non impediranno all'erba di crescere ovunque ci siano terra, acqua e sole. Se sei suoi amico, Freyr, devi andare e destare la vita che può ancora essere destata. E se non ne trovi, è tuo dovere liberarlo dalla morte in cui è già avvinto. Non abbandonarlo sotto il peso dei suoi sensi di colpa, pensando di aiutarlo sobbarcandoti parte di quella colpa ponderando in silenzio in questa sala disperata.»
Freyr fece per replicare, una nuova collera che come sangue dorato scorreva nuovamente nelle sue viscere divine. Ma si accorse che quella collera non era verso Skaði: era verso sé stesso, per non aver saputo reagire alla tragedia che si era abbattuta sulla sua famiglia. Come non aveva saputo reagire quando, tanto tempo prima, aveva scorto Gerðr, colei di cui si era innamorato, e non l'avrebbe mai incontrata se non fosse stato Svipdagr ad agire per lui.
Sì, Svipdagr aveva realizzato sia la gloria di Ásgarðr che la sua felicità. Ma il fatto che adesso fosse sprofondato nella disgrazia che si era procurato da solo, non dispensava lui, suo fratello di anima, dall'agire personalmente per la sua, di felicità.
«Grazie, Skaði» disse il dio della luce, splendendo nella notte. «Ero preda di uno strano sonno, ma adesso è finito.»
È un altro giorno che sembra ancora il primo giorno.
Un giorno che potrebbe essere durato cento anni.
Inizia a piovere. Il mare risponde come il boccheggiare di un'infinità di neonati al generoso nutrimento del cielo, le sue onde si gonfiano come spire di lucide squame.
Svipdagr è ricoperto, e il suo dorso gli sembra più pesante. Il vento non lo agita come farebbe se avesse ancora il corpo di un essere umano, ma nel cuore avverte che quella pioggia lo sta schernendo, come ogni cosa gli sembra fare da quando è cominciata.
Anche lui, adesso, pensa a come è stato. All'inizio. A quando qualcosa dentro di lui si è accorta di aver fatto uno sbaglio grande, così grande da non sapere neanche come reagire, e a quando qualcos'altro, ciò che lo aveva dominato nei suoi ultimi giorni prima della maledizione, ha concluso che non ci fosse più da fare che affrontarne le conseguenze. La sua superbia.
La battaglia era cominciata con ferocia. Le navi degli svedesi avevano attaccato per prime, un impatto schiacciante. Svipdagr aveva impugnato la spada di Völundr, così affilata da poter abbattere gli alberi delle altre navi. Ne aveva abbordata una, era balzato sul ponte e aveva ordinato al suo equipaggio di non interferire: si era divertito a sterminare i marinai danesi tutto da solo, inseguendo quelli che cercavano di fuggire e squartandoli come maiali. Il suo volto era rosso mentre guardava verso il cielo oscurato e rideva, e in cuor suo continuava a sfidare Odino, ripetendo con le labbra distorte dalla ferocia e la gola riarsa "Guardami, guardami, guardami".
Ora sa che Odino lo aveva guardato allora, come continua a guardarlo adesso.
Poi si era trovato di nuovo davanti alla nave di Hadding. Il vecchio non c'era più, e lui aveva creduto che il suo allontanamento avrebbe spezzato la fiducia del giovane Skjöldungr.
«Vengo a prenderti, figlio di Halfdan!» aveva tuonato. Aveva preso la rincorsa, compiuto un balzo con la spada in pugno, afferrato una cima volante con la mano libera ed era atterrato sulla nave di Hadding, e ruotando la spada da un lato e dall'altro aveva falciato il braccio o la testa di tutti i guerrieri che gli erano corsi incontro. Hadding aveva urlato in risposta la fedeltà al protettore della sua famiglia «Per Odino!» e si era scagliato contro Svipdagr. Aveva schivato ogni colpo dell'arma micidiale, nel cui filo scorreva il veleno degli Élivágar, ma neanche aveva potuto colpirlo, perché sapeva che l'arma del nemico avrebbe spezzato la sua con un solo colpo. Mentre loro danzavano, il mare si agitava, onde furiose minacciavano di ribaltare la nave da un momento all'altro; e se Hadding faticava ogni istante a restare in piedi, la natura divina di Svipdagr, figlio di Aurvandill, lo rendeva ancora più fermo dell'albero della sua dreki. Una risata folle si era sparsa sul volto feroce come una fiammata, e le sue fattezze erano parse quelle di uno jötunn.
«Figlio di Halfdan, tu, la tua gente e il regno di Odino finite oggi, a cominciare da questo colpo.»
Ma Hadding non credeva nella vittoria come lui, lontana com'era. E mentre parlava, gli aveva sferrato un calcio al ventre che gli aveva fatto abbassare la guardia.
«Brutto...» aveva iniziato a ruggire Svipdagr, e proprio in quell'istante, mentre Hadding era distante da lui, e il calcio lo aveva avvicinato al bordo della nave, una folgore bianca come la neve del primo inverno di Miðgarðr era saettata giù dal cielo e l'aveva colpito in pieno.
Vomitando dalle fauci, deformate dall'incredulità e da un'ira blasfema, un urlo in cui la maledizione contro Hadding, che non aveva finito di pronunciare, si mescolava con quella verso Odino che iniziava appena a emergere dal suo pensiero, Svipdagr era caduto oltre il parapetto della nave.
Era sprofondato in mare, e l'incubo era cominciato.
Inarca il dorso, solleva la testa verso il cielo, spalanca le fauci: ne esce un suono simile a quello dei tuoni in lontananza, ma penetrante come una coltre di denti affilati.
«Maledetto!» ringhia contro il Padre degli Dei, sfidando con la sua voce la tempesta.
«Hai vinto contro di me unicamente perché tu sei un dio e io no! Se fossimo stati pari ti avrei schiacciato!»
Si solleva sulle zampe posteriori. È alto come le mura della sala di un re, sfonderebbe quelle di Odino se solo potesse raggiungerle.
«La mia guerra era una guerra onorevole, e tu hai vinto soltanto perché non conosci l'onore. Veleggiavo con cento navi contro il tuo regno, come nessuno aveva mai osato prima di me. Re di ogni sorta sono caduti in questo mondo perché altri re li hanno vinti con la spada, affrontandoli sul campo di battaglia. Se tu mi avessi abbattuto con la tua rinomata lancia, sarei caduto come loro.»
Torve nuvole si addensano sopra il mare mugghiante e sembrano incombere sull'isolotto, come se le sopracciglia del signore del cosmo si fossero aggrottate contro lo sgraziato gigante e le sue palpebre fossero pronte a schiudersi sulle folgori delle sue pupille incollerite.
«Ma se avessi vinto io, sarebbe stata la tua fine! La fine della tua Asgarðr, della tua signoria. Tu saresti caduto al ginocchio di Svipdagr, e sarei stato io il re, non tu!»
Un tuono più forte di ogni altro si infranse contro il muro del suono, un tuono che sarebbe stato ricordato a lungo, se ci fossero stati abbastanza uditori per raccontarlo e se nulla di più potente l'avesse seguito.
Ma in risposta a quel tuono, il drago gonfiò il ventre ed eruttò in un ruggito di collera come in Midgarðr non se n'erano uditi fin da quando la sua memoria si era accesa, e di cui gli dèi stessi non sentivano pari dai giorni dell'incatenamento di Fenrir; un boato così profondo che la terra tremò, le onde del mare si smorzarono, e persino le pesanti nuvole temporalesche parvero ritrarsi.
«Vile vigliacco senza fegato! Hai fatto questo perché avevi paura! Perché in tutti i tuoi millenni sulla terra ti eri convinto di essere al di sopra di ogni sfida! Non potevi accettare che anche a te toccasse il destino di tutti gli altri! Non hai vinto perché sei il più forte, e nemmeno il più saggio, hai vinto grazie a un insulso trucchetto!»
La tempesta finì, e la spiaggia tornò com'era sempre: grigia, vuota e silenziosa.
"Padre...perché dovevo essere così spregevole?" sussurra il mostro.
«Svipdagr, hai davvero ucciso tutti quei danesi per divertimento?»
Freyr splende come se il sole fosse sceso sulla spiaggia per sedere accanto al drago. Quando entrambi vivevano ad Ásgarðr, nessuno splendeva più di loro e di Freyja. Lei e Gerðr, la moglie di Freyr, sedevano a conversare dei gioielli della terra, mentre loro, come fossero stati fratelli, si sfidavano ogni giorno nel proporre la sfida più avventata che riuscissero a pensare. "Solo uno sciocco come te, Freyr, avrebbe potuto pensare una cosa come questa" concludeva Svipdagr "ma dato che, sciocco come sei, non saresti capace di portare a termine quello che hai proposto, dovrò venire ad aiutarti".
«Sono venuto ad aiutarti» gli dice adesso Freyr, come se avesse indovinato a cosa sta pensando «ma voglio sapere la verità. Me la devi. Sei davvero colpevole di tutto quello che a Miðgarðr si dice di te?»
Svipdagr allunga il collo e lo guarda da dietro le spalle. Le sue orecchie e le sue creste sono piegate.
«Non sono mai stato veramente come voi. Neanche prima di questo.»
Tace e si volta, guardando il mare. Dopo un po', riprende.
«Lei ha sempre detto che a guidarmi verso di lei era l'amore. Prima lo credevo. All'inizio avevo inseguito la vendetta per mia madre, poi quella per mio padre, e quando ho incontrato Freyja ho davvero pensato che per me il destino avesse in serbo qualcosa di meglio che la giustizia dei morti. Ho pensato che la mia felicità fosse nella vita. Ma ora so che a muovermi, prima di allora come dopo, e più di ogni altra cosa, è sempre stato l'odio. Se sono riuscito a trovare Freyja quando non c'era, è stato perché l'odio mi ha fatto allontanare da tutto quello che non era lei. E avvicinare verso quello che...forse mi faceva paura.»
«Perché tutta questa faida? Tutto quello che avevi non valeva di più? Ti sei sempre sentito in credito, come se avessi solo ricevuto regali da parte nostra e non li avessi meritati, e hai sempre sbagliato, Svipdagr, perché tutto quello che avevi l'hai conquistato, legittimamente. L'unica eccezione è l'amore di mia sorella, perché esso ti è sempre appartenuto.»
Il drago socchiude gli occhi, abbassa la testa, stringe le palpebre. Le riapre.
«Se anche avessi avuto tutto quello che fosse stato possibile avere, non sarebbe stato davvero tutto. Se avessi posseduto tutto quello che esiste entro le mura di Miðgarðr, se tutti quelli che donano anelli avessero ricevuto e distribuito i miei anelli, e tutti quelli che raccolgono il grano sotto tutte le ore del sole avessero riposto il loro raccolto nel mio granaio, e se persino gli uccelli mi avessero consegnato i rami dei loro nidi, e gli alberi la rugiada delle loro foglie, e la luce di tutte le stelle del cielo fosse stata racchiusa in un'ampolla per la mia mera brama di ricchezza, la mia vittoria sarebbe stata incompleta. Io sono stato sfregiato da bambino, Freyr. Tutta la gioia che potevo avere l'ho persa quando Halfdan ha rapito mia madre e quando ha ucciso mio padre. Io ho conosciuto lì le tenebre, fratello mio, e quello in cui vivo adesso è il fondo dell'abisso in cui sono caduto allora, che continua a sprofondare. La crudeltà mi apparteneva già allora. Mi è sempre appartenuta. Voi non la vedevate, e io avevo smesso di vederla quando Freyja sembrava aver preso il posto dell'afflizione nel mio cuore. Credevo che lei mi avesse sottratto al mio destino. Invece non si è mosso di un passo. Non si vince contro il destino, fratello.»
Freyr è affranto. Non riesce a credere che quell'odio potesse essere così grande.
«Mi è stato conferito qualcosa che non mi apparteneva.» continua Svipdagr. «Non sono nato mostro, ma non sono nato neanche dio. Mi spettava l'odio con il quale nascono gli umani.»