È da più di un mese che non scrivo di letteratura. In realtà, non intendo parlare di letteratura più di quanto non voglia fare con tutti gli altri mezzi dell'arte e dell'uomo, attraverso i quali è stato espresso ciò di cui mi interessa parlare. Ma poiché, dalla presentazione iniziale, ho suggerito l'idea che questo sarebbe stato l'argomento principale -o perlomeno mi sono convinto di averlo fatto- ho pensato di dedicare questo post a una delle opere letterarie che preferisco. E attenzione, perché sono sicuro che la conosceranno in pochi.
L'opera in questione è "Luceăfarul" di Mihai Eminescu, il più noto e celebrato poeta rumeno, recentemente dichiarata anche il più lungo poema d'amore della letteratura mondiale.
Luceăfarul, in rumeno, indica Venere, la stella del mattino. La tradizione ebraico-cristiana ha associato al nome di Lucifero la figura di Satana, quindi se mi riferissi al personaggio che dà il nome alla poesia chiamandolo "Lucifero" molti avrebbero paura di leggere quanto segue e mi accuserebbero di chissà che cosa, ma in questa poesia manca qualsiasi accezione negativa di questo nome, che si riferisce semplicemente a una stella e che diviene, nella traduzione di GeoVasile alla quale farò riferimento (e che trovate alla fine del post), "Espero".
Parliamo, dunque, di una stella, una stella personificata, membro di quel mondo superiore e perfetto cui appartengono gli astri, gli dei, gli angeli. E parliamo della fanciulla che si rivolge a questa stella.
Lei è una fanciulla splendida e nobile, che ogni notte guarda dalla sua finestra e vede questa luce che "guida nere navi"; anche Espero, dalle sommità celesti, la vede, e se ne innamora, penetrando nella sua stanza che pervade della sua luce, simile a Zeus che penetrò nella torre in cui era stata chiusa Danae mutandosi in pioggia dorata. Allora, lei lo chiama perché venga vicino a lei, e lui si tuffa nel mare per riemergerne in aspetto umano. Tale scena si ripete per ben due volte, e in entrambe, Espero offre il suo amore e tutta l'eternità alla fanciulla, separato però dalla mortalità di lei, che se da una parte lo desidera, dall'altra lo respinge, dicendogli "io sono viva, tu morto".
Entra poi in scena un terzo personaggio, Catalin, un giovincello scherzoso e un po' sfacciato che corteggia la fanciulla (da lui apprendiamo che lei si chiama Catalina, a meno che io non stia ignorando qualche caratteristica della lingua rumena e questo sia un soprannome o un nome parlante), e ne ottiene le grazie in favore della promessa di un amore vicino, presente, immediato, non di un ideale appartenente a un piano slegato dalla mortalità.
Nel frattempo, Espero si innalza attraverso il cielo, raggiunge le sommità dell'universo per rivolgersi all'ultimo personaggio del poema, il Padre, Dio: per potersi privare dell'immortalità e divenire mortale, avendo la possibilità di stare con la fanciulla.
La risposta del Creatore è molto fredda, molto razionale: non ha senso, per un essere eterno ed unico, divenire un essere umano come ce ne sono milioni, che muoiono e nascono sostituendosi a un ritmo estraneo ai temi insondabili degli astri del firmamento. Per questo, quando il Padre mostra ad Espero i due amanti sdraiati sull'erba e lei gli si rivolge chiamandolo ancora una volta, lui le risponde chiamandola "volto di polvere", e accusando gli esseri mortali tutti della loro meschinità, della loro subordinazione al caso, disprezzabile per lui, eterno, freddo, alto.
Sarebbe consigliabile leggere il testo del poema, che si trova alla fine del post, per seguire i ragionamenti che arrivano adesso. Ho scritto qui sopra il riassunto della vicenda per chi non abbia voglia o tempo, ma naturalmente un riassunto non può trasmettere le stesse cose.
Questa è una delle mie opere poetiche preferite, e la condivido perché mi piacerebbe fosse conosciuta di più.
Innanzitutto per la ricchezza evocativa, propria del linguaggio di un poeta che si può inquadrare nel tardo romanticismo, e che quindi dipinge paesaggi in cui la natura e le luci sono spie dei sentimenti e degli stati d'animo. I termini sono quelli del sublime, il cielo e il mare infiniti, gli abitanti di queste dimensioni divine, e la dimensione è quella fra realtà e sogno, per cui le apparizioni di Espero hanno sempre quel sapore di onirico, sono nascoste da quella patina che ci confonde la vista impedendoci di mettere bene a fuoco la realtà.
Mi è molto caro il tema dell'immortalità, o meglio, dell'esistenza di esseri immortali che si confrontino con gli uomini mortali, sicché di ogni razza vengano messi in luce i vantaggi e gli svantaggi; è qualcosa che ben si ricollega all'Anima del Mostro, dato che anche questi esseri mi piace includere nella definizione di "mostro", cioè di elemento che crea stupore. E sinceramente mi entusiasmano i dialoghi fra queste creature eccelse, ancor più se avvengono tra una di loro e Dio stesso. Anche se qui Dio appare, come ho detto, freddo e impietoso nei confronti degli umani, cui non sembra dare molta importanza, forse perché il poeta aveva bisogno di esprimere un messaggio ben preciso attraverso questo personaggio, o forse per la sua personale visione religiosa. Suggestivo è anche che Espero sia chiamato, dal Padre, Iperione, che nella mitologia greca è uno dei Titani, padre delle divinità luminose Elio, Eos e Selene, e che significa, in greco antico, "al di sopra", "più sopra".
Ma ancor più che per questi motivi, la poesia di Eminescu mi sta a cuore perché riflette una condizione esistenziale che penso di essere in grado di comprendere: quella dei limiti delle creature più alte, degli animi nobili ricolmi di grandezza, nel vivere relazionandosi con esseri che non li comprendono.
Sento molto, quando leggo Espero, l'eco dei versi de "L'albatro" di Baudelaire, un'altra delle mie poesie preferite, a proposito del poeta che, proprio perché la sua natura lo chiama a percorrere le vastità del cielo e le infinite profondità dell'anima e della conoscenza, da questa viene ostacolato e reso goffo nella vita quotidiana, nel rapporto con le altre persone.
Anche in Espero vedo -attribuendo alla poesia e ai personaggi dei simboli indipendentemente da quanto volesse dire l'autore- una metafora dell'artista o del poeta, che non riesce in ciò che cerca di fare a causa della propria grandezza. La sua vicenda però ha una portata più precisa, una valenza particolare cui si può, a posteriori, dare una valenza universale e conferire un valore esistenziale simile a quello del testo baudelairiano, ma che nasce con intenzioni diverse: la storia di Espero è una storia d'amore, legata a un sentimento particolare in base al quale si inseriscono i quattro personaggi. Lui prova un forte sentimento verso la fanciulla che lo guarda e lo chiama, e dinanzi a lei mette in mostra le sue prerogative ("sono figlio del cielo e del mare, del sole e della notte") invitandola a seguirlo verso un futuro che sarebbe, in qualsiasi caso, più di quanto qualsiasi mortale possa sperare. E per quanto riesca a capire la perplessità di lei, la difficoltà anche solo nell'immaginare di percorrere gli spazi oltreumani di cui parla l'angelo-stella, non posso non pensare a quanto grandiosa sarebbe potuta essere la sua vita, se lei fosse stata pronta a seguirlo; penso anche a come il suo rifiuto mi sembri acquisire una valenza terrena e realistica, se mi fingo nel pensiero un uomo che tenta di far colpo su una donna con una poesia o un dipinto, e lei che lo rifiuta perché non le piace l'opera che lui ha realizzato. E a quel punto, provo dispiacere per Espero.
Pure, questa difficoltà sarebbe comprensibile e forse anche superabile: consideriamo che Espero si dichiara pronto a rinunciare a tutto ciò che è, pur di stare con lei, e chiunque si rende conto di quanto impegnativo sia un sacrifico del genere. Voglio dire, è lodevole un sentimento del genere. Ma alla fine del poema mi si insinua sempre in corpo una sottile vena di condanna, se penso al fatto che lei abbia preferito Catalin. Catalin è un ragazzo come ce ne sono tanti, come probabilmente ne abbiamo incontrato tutti qualcuno: perdigiorno, ardito e anzi sfacciato, probabilmente non ha piani più impegnativi che ottenere qualche piacere dalla ragazza; la quale si risolve nel darglielo, sia pure dopo delle resistenze e dopo aver fatto due volte il nome di Espero, nel momento in cui si rende conto che ha molto più senso stare con un suo simile che con un essere divino che per lei è un morto.
Come il Creatore, anche lei sceglie la soluzione più razionale.
Espero non conclude, come ci si potrebbe aspettare, opponendo il proprio punto di vista a quello di Dio o della donna, rivendicando una qualche forma di diritto personale a privarsi ugualmente dell'immortalità, un atto di eroismo. Non opera nessuna conciliazione fra i due mondi, ma resta chiuso nel suo, rendendosi conto, una volta visti i due amanti, che ciò che gli ha detto il Padre è vero e che gli esseri mortali sono regolati dall'immediatezza e dalle necessità che derivano dal loro essere effimeri, e non è possibile legarsi a una di loro. "Tanto non le importa se sono io o un altro."
Il finale è amaro, e il gelo della risposta dell'angelo è tale da raffreddare anche il mio cuore quando la leggo. Ma se la storia di Mihai Eminescu fosse stata quella di un essere superiore che avesse sacrificato la propria superiorità per divenire a sua volta un essere effimero regolato dal caso, essa non avrebbe avuto un valore così rilevante, avrebbe avuto una morale scontata, quasi giustificatrice nei confronti della pochezza umana che invece attacca. Eminescu conclude così, e se devo leggervi un messaggio -perché le belle storie sono il messaggio che mi interessa di più, senza dovere aggiungere morali o lezioni- leggo che un essere come Espero non deve sacrificare la sua natura, anche se ciò lo fa soffrire: essere chiamato a qualcosa di più grande significa avere un dovere, un compito da portare a compimento, e quella grandezza non è gratuita, ma un valore da rispettare. Il fatto che i più, coloro che non capiscono, ostacolino questo compito, non deve portare alla resa dei titani, ma spingerli a continuare; e il fatto che anche l'amore sembri loro precluso per questo motivo, non deve distoglierli dalla loro impresa, perché le persone che trovano l'amore sono molte, mentre Espero ce n'è uno solo.
Parliamo, dunque, di una stella, una stella personificata, membro di quel mondo superiore e perfetto cui appartengono gli astri, gli dei, gli angeli. E parliamo della fanciulla che si rivolge a questa stella.
Lei è una fanciulla splendida e nobile, che ogni notte guarda dalla sua finestra e vede questa luce che "guida nere navi"; anche Espero, dalle sommità celesti, la vede, e se ne innamora, penetrando nella sua stanza che pervade della sua luce, simile a Zeus che penetrò nella torre in cui era stata chiusa Danae mutandosi in pioggia dorata. Allora, lei lo chiama perché venga vicino a lei, e lui si tuffa nel mare per riemergerne in aspetto umano. Tale scena si ripete per ben due volte, e in entrambe, Espero offre il suo amore e tutta l'eternità alla fanciulla, separato però dalla mortalità di lei, che se da una parte lo desidera, dall'altra lo respinge, dicendogli "io sono viva, tu morto".
Entra poi in scena un terzo personaggio, Catalin, un giovincello scherzoso e un po' sfacciato che corteggia la fanciulla (da lui apprendiamo che lei si chiama Catalina, a meno che io non stia ignorando qualche caratteristica della lingua rumena e questo sia un soprannome o un nome parlante), e ne ottiene le grazie in favore della promessa di un amore vicino, presente, immediato, non di un ideale appartenente a un piano slegato dalla mortalità.
Nel frattempo, Espero si innalza attraverso il cielo, raggiunge le sommità dell'universo per rivolgersi all'ultimo personaggio del poema, il Padre, Dio: per potersi privare dell'immortalità e divenire mortale, avendo la possibilità di stare con la fanciulla.
La risposta del Creatore è molto fredda, molto razionale: non ha senso, per un essere eterno ed unico, divenire un essere umano come ce ne sono milioni, che muoiono e nascono sostituendosi a un ritmo estraneo ai temi insondabili degli astri del firmamento. Per questo, quando il Padre mostra ad Espero i due amanti sdraiati sull'erba e lei gli si rivolge chiamandolo ancora una volta, lui le risponde chiamandola "volto di polvere", e accusando gli esseri mortali tutti della loro meschinità, della loro subordinazione al caso, disprezzabile per lui, eterno, freddo, alto.
Sarebbe consigliabile leggere il testo del poema, che si trova alla fine del post, per seguire i ragionamenti che arrivano adesso. Ho scritto qui sopra il riassunto della vicenda per chi non abbia voglia o tempo, ma naturalmente un riassunto non può trasmettere le stesse cose.
Questa è una delle mie opere poetiche preferite, e la condivido perché mi piacerebbe fosse conosciuta di più.
Innanzitutto per la ricchezza evocativa, propria del linguaggio di un poeta che si può inquadrare nel tardo romanticismo, e che quindi dipinge paesaggi in cui la natura e le luci sono spie dei sentimenti e degli stati d'animo. I termini sono quelli del sublime, il cielo e il mare infiniti, gli abitanti di queste dimensioni divine, e la dimensione è quella fra realtà e sogno, per cui le apparizioni di Espero hanno sempre quel sapore di onirico, sono nascoste da quella patina che ci confonde la vista impedendoci di mettere bene a fuoco la realtà.
Mi è molto caro il tema dell'immortalità, o meglio, dell'esistenza di esseri immortali che si confrontino con gli uomini mortali, sicché di ogni razza vengano messi in luce i vantaggi e gli svantaggi; è qualcosa che ben si ricollega all'Anima del Mostro, dato che anche questi esseri mi piace includere nella definizione di "mostro", cioè di elemento che crea stupore. E sinceramente mi entusiasmano i dialoghi fra queste creature eccelse, ancor più se avvengono tra una di loro e Dio stesso. Anche se qui Dio appare, come ho detto, freddo e impietoso nei confronti degli umani, cui non sembra dare molta importanza, forse perché il poeta aveva bisogno di esprimere un messaggio ben preciso attraverso questo personaggio, o forse per la sua personale visione religiosa. Suggestivo è anche che Espero sia chiamato, dal Padre, Iperione, che nella mitologia greca è uno dei Titani, padre delle divinità luminose Elio, Eos e Selene, e che significa, in greco antico, "al di sopra", "più sopra".
Ma ancor più che per questi motivi, la poesia di Eminescu mi sta a cuore perché riflette una condizione esistenziale che penso di essere in grado di comprendere: quella dei limiti delle creature più alte, degli animi nobili ricolmi di grandezza, nel vivere relazionandosi con esseri che non li comprendono.
Sento molto, quando leggo Espero, l'eco dei versi de "L'albatro" di Baudelaire, un'altra delle mie poesie preferite, a proposito del poeta che, proprio perché la sua natura lo chiama a percorrere le vastità del cielo e le infinite profondità dell'anima e della conoscenza, da questa viene ostacolato e reso goffo nella vita quotidiana, nel rapporto con le altre persone.
Anche in Espero vedo -attribuendo alla poesia e ai personaggi dei simboli indipendentemente da quanto volesse dire l'autore- una metafora dell'artista o del poeta, che non riesce in ciò che cerca di fare a causa della propria grandezza. La sua vicenda però ha una portata più precisa, una valenza particolare cui si può, a posteriori, dare una valenza universale e conferire un valore esistenziale simile a quello del testo baudelairiano, ma che nasce con intenzioni diverse: la storia di Espero è una storia d'amore, legata a un sentimento particolare in base al quale si inseriscono i quattro personaggi. Lui prova un forte sentimento verso la fanciulla che lo guarda e lo chiama, e dinanzi a lei mette in mostra le sue prerogative ("sono figlio del cielo e del mare, del sole e della notte") invitandola a seguirlo verso un futuro che sarebbe, in qualsiasi caso, più di quanto qualsiasi mortale possa sperare. E per quanto riesca a capire la perplessità di lei, la difficoltà anche solo nell'immaginare di percorrere gli spazi oltreumani di cui parla l'angelo-stella, non posso non pensare a quanto grandiosa sarebbe potuta essere la sua vita, se lei fosse stata pronta a seguirlo; penso anche a come il suo rifiuto mi sembri acquisire una valenza terrena e realistica, se mi fingo nel pensiero un uomo che tenta di far colpo su una donna con una poesia o un dipinto, e lei che lo rifiuta perché non le piace l'opera che lui ha realizzato. E a quel punto, provo dispiacere per Espero.
Pure, questa difficoltà sarebbe comprensibile e forse anche superabile: consideriamo che Espero si dichiara pronto a rinunciare a tutto ciò che è, pur di stare con lei, e chiunque si rende conto di quanto impegnativo sia un sacrifico del genere. Voglio dire, è lodevole un sentimento del genere. Ma alla fine del poema mi si insinua sempre in corpo una sottile vena di condanna, se penso al fatto che lei abbia preferito Catalin. Catalin è un ragazzo come ce ne sono tanti, come probabilmente ne abbiamo incontrato tutti qualcuno: perdigiorno, ardito e anzi sfacciato, probabilmente non ha piani più impegnativi che ottenere qualche piacere dalla ragazza; la quale si risolve nel darglielo, sia pure dopo delle resistenze e dopo aver fatto due volte il nome di Espero, nel momento in cui si rende conto che ha molto più senso stare con un suo simile che con un essere divino che per lei è un morto.
Come il Creatore, anche lei sceglie la soluzione più razionale.
Espero non conclude, come ci si potrebbe aspettare, opponendo il proprio punto di vista a quello di Dio o della donna, rivendicando una qualche forma di diritto personale a privarsi ugualmente dell'immortalità, un atto di eroismo. Non opera nessuna conciliazione fra i due mondi, ma resta chiuso nel suo, rendendosi conto, una volta visti i due amanti, che ciò che gli ha detto il Padre è vero e che gli esseri mortali sono regolati dall'immediatezza e dalle necessità che derivano dal loro essere effimeri, e non è possibile legarsi a una di loro. "Tanto non le importa se sono io o un altro."
Il finale è amaro, e il gelo della risposta dell'angelo è tale da raffreddare anche il mio cuore quando la leggo. Ma se la storia di Mihai Eminescu fosse stata quella di un essere superiore che avesse sacrificato la propria superiorità per divenire a sua volta un essere effimero regolato dal caso, essa non avrebbe avuto un valore così rilevante, avrebbe avuto una morale scontata, quasi giustificatrice nei confronti della pochezza umana che invece attacca. Eminescu conclude così, e se devo leggervi un messaggio -perché le belle storie sono il messaggio che mi interessa di più, senza dovere aggiungere morali o lezioni- leggo che un essere come Espero non deve sacrificare la sua natura, anche se ciò lo fa soffrire: essere chiamato a qualcosa di più grande significa avere un dovere, un compito da portare a compimento, e quella grandezza non è gratuita, ma un valore da rispettare. Il fatto che i più, coloro che non capiscono, ostacolino questo compito, non deve portare alla resa dei titani, ma spingerli a continuare; e il fatto che anche l'amore sembri loro precluso per questo motivo, non deve distoglierli dalla loro impresa, perché le persone che trovano l'amore sono molte, mentre Espero ce n'è uno solo.
Èspero
C'era una volta come mai,
Così narran le fiabe,
Una fanciulla senza pari,
Di gran ceppo regale.
Ed era unica ai parenti,
Stupenda fra le belle,
Com'è la Vergine fra i santi,
La luna fra le stelle.
Dall'ombra delle volte altere
Lei suo passo volge
Alla finestra, appartata,
Sta Èspero aspettando.
Guardava all'orizzonte come
Sui mari sorge e splende,
Sui sentieri ondeggianti
Lui guida nere navi.
Lo vede oggi, lo rivede,
Così il desio spunta;
Pur lui, mirandola da tanto,
Di lei si innamora.
Quando lei poggia sulle braccia,
Sognando, le sue tempie,
D'amor struggente si riempe
Il cuore nonché l'alma.
E quanto vivido s'accende
Suo raggio ogni sera,
Sull'ombra cupa del palagio:
Che lei si mostrerà.
* * *
E a passo a passo dietro lei
Lui filtra nella stanza,
Tessendo un laccio di bagliore
Dai suoi freddi raggi.
Pur quando si adagia al letto
La figlia per dormire,
Le sfiora il petto e le mani,
Le chiude il dolce ciglio;
E dallo specchio irraggiando
Innonda il suo corpo,
Gli occhi chiusi che palpitan,
Il suo viso assorto.
Lei lo guardava sorridente,
Lui nello spechio avvampa,
Giacché nel sogno l'inseguiva
Per irretirle l'alma.
E lei nel sonno sospirando,
Gli parla con gran pena:
Oh, tu signor delle mie notti,
Perché non vieni? Vieni!
Scendi da me, Èspero blando
Fluendo su un raggio,
Pervandi casa e pensiero,
Rischiara la mia vita!
Lui ascoltava abbrividendo,
Più vivo s'accendea
E come folgore piombava,
Nel mare affondando;
E l'acqua ove è caduto,
In cerchie s'arruota
E dal profondo più occulto
Un fiero giovin sorge.
Al par di soglia varca lui
Il davanzale, lieve,
E tiene in mano un bordone
Di canne coronato.
Pareva un giovin voivoda
Con chiome d'oro molle,
Un velo livido s'annoda
Alle ignude spalle.
E l'ombra del diafan volto
È cereo candore -
Un morto bello, dagli occhi
Viventi di bagliore.
- Dalla mia sfera venni appena,
Risponderti al richiamo,
Il cielo ho per mio padre,
Per madre, ho il mare.
Che nella tua stanza venga,
Guardarti da vicino,
Col mio azzurro sono sceso
E nacqui dalle acque.
Oh, vien! tesoro senza pari,
Il mondo abbandona;
Io sono l'altissimo Èspero il superno
E tu mi sarai sposa.
Là, nei palagi di corallo,
Per secoli di fila
Il mondo dell'oceano, intero,
Sara per ubbdirti.
- Sei bello come solo in sogno
Un angelo s'affaccia,
Ma io mai camminerò
La via che mostrasti;
Straniero il motto, il cospetto,
Tu brilli senza fiato,
Che io son viva, tu sei morto,
Il tuo occhio, ghiaccio.
* * *
Passò un giorno e poi tre
Ed Èspero, di notte,
Sta risorgendo su di lei,
Nei suoi raggi, vero.
Onde di lui, nel suo sonno,
Dovette ricordare;
L'anelito le morde il cuor
Per il signor dell'onde:
- Scendi da me, Èspero blando
Fluendo su un raggio,
Pervadi casa e pensiero,
Rischiara la mia vita!
Quando dal cielo la udì,
Si spense di dolore,
Il ciel si mise a rotear
Dov'egli si disperde;
Purpuree nell'aria fiammate
Pervadon tutto il mondo,
E dalle faglie del caos
Si plasma un fiero volto;
Sopra le sue nere chiome
Il serto par che bruci,
Giungea a volo in verità
Flutto d'ardor solare.
Dal nero velo si dispiegan
Marmoree le braccia,
Avanza assorto, triste, lui,
E pallido in faccia,
Sol gli occhi grandi e profondi
Chimerici risplendon,
Due aneliti mai sazi
Di tenebra ricolmi.
- Dalla mia sfera venni appena
Per ubbidirti ancora,
Il sole ho per mio padre,
Per madre ho la notte;
Oh, vien tesoro senza pari,
E abbandona il mondo;
Io sono Èspero il superno
E tu mi sarai sposa.
Oh, alle tue bionde chiome
Io appenda serti astrali,
Perché nei miei cieli spunti
Piu fiera degli astri.
- Sei bello come solo in sogno
Un demone s'affaccia,
Ma io mai camminerò
La via che mostrasti!
Dal tuo crudo amor mi dolgon
Del petto i precordi,
I grandi occhi grevi angoscian,
Il tuo sguardo arde.
- Come vorresti ch'io scenda?
Tu non hai mai compreso
Che io sono fuori morte
Mentre tu sei mortale?
- Non cerco apposite parole,
Né so come spiegarmi -
Benché tu parli chiaramente,
Non posso penetrarti;
Ma se tu vuoi che in buona fede
Io t'abbia sempre caro
In terra scendi a trovarmi,
Sii come me, mortale.
- Mi chiedi l'immortalità
In cambio di un bacio.
Eppure voglio che tu sappia
Quanto io possa amarti;
Sì, nascerò con il peccato,
Subendo un'altra legge;
Sono legato all'eterno,
Slegato voglio esser.
E se ne va... Se ne andò.
L'amor per la fanciulla,
Dall'orbita del ciel lo sradicò,
Parecchio tempo spento.
* * *
In questo mentre, Cãtãlin,
Infante assai furbo,
Che empie i calici di vino
Degli ospiti al convivio,
Paggio che porta a passo a passo
Lo strascico regale,
Abbandonato trovatello
Ma dallo sguardo audace,
Con due gote l'imbroglione,
Peonie vermiglie,
Lui si insinua furtivo
Guardando Cãtãlina.
Oh, come bella mi sbocciò!
E altera! Da nel cuore;
Sù, Cãtãlin, tocca a te
Metterti alla ventura.
E dolcememte, di passaggio
La prese in un angol;
- Che vuoi, sta' buono, Cãtãlin!
Ma bada ai fatti tuoi.
- Che voglio? Tu non stia più
Soprappensiero sempre,
E rida invece e mi dia
Un bacio, solo uno.
- Non so neppur che mi domandi,
Lasciami star, va' via -
Per Èspero del cielo, ahi,
Mi colse un duol di morte.
- Se non lo sai, t'insegnerei
L'amore a poco a poco,
Ma non sdegnarti, ci vorrebbe
Del bello e del buono.
Qual cacciator che mette al folto
Il laccio all'uccello,
Allorche un braccio porgerò,
Tu cingimi col braccio;
E i tuoi occhi si trattengan
Nei miei occhi, intenti...
Se per la vita t'alzerò,
Sollevanti sui piedi;
Quando ripiego il mio volto,
In alto ferma il tuo,
Ci guarderemo dolcemente
Per sempre vagheggianti;
E che l'amore pienamente
Ti sia rivelato,
Quando baciandati m'inclino,
Rispondimi con baci.
Lei dava ascolto al garzone,
Stupita e distratta;
E vereconda e carina,
Non vuole eppur si lascia.
Poi sottovoce: -Ti sapevo
Così sin da bambino;
Pettegolo e perdigiorno,
Saresti un par mio...
Ma un Èspero, emerso da
La quiete dell'obblio,
Dà orizzonte infinito
All'eremo del mare.
E di nascosta abbasso gli occhi,
Che il pianto me li affoga
Quando dell'acqua l'onde scorron
Verso di lui viaggiando;
Con senza pari amore splende,
Per spegnere il mio duolo,
Solo che sempre piu s'innalza
Che giungerlo non possa.
Pervadon tristi i freddi raggi
Dal mondo oltreumano,
Per sempre l'amerò ma sempre
Se ne terrà lontano...
Sicché i miei giorni sono
Deserti come steppe,
Le notti invence - fascino divino -
Che non posso intender.
- Tu sei ingenua e come...
Su, scappiam pel mondo!
Di noi le tracce andranno perse
E ci oblieranno.
Saremo tutt'e due saggi
Saremo lieti e salvi;
Non più rimpiangerai parenti
Né èsperi vorrai.
* * *
Si mosse Èspero. Ai cieli
Sue ali aggrandivan,
Correvan vie di millenni
In altrettanti istanti.
Un ciel di stelle al di sotto,
Di sopra un ciel di stelle -
Sembrava fulmine incessante
Fra d'esse tumultuando.
Dal cupo caos dei burroni,
A sé intorno in giro
Vedeva, come al primo giorno,
Le luci scaturire.
E scaturendo lo avvolgon
Come dei mari, a nuoto -
Lui vola - spirito che anela,
Finchè scompare tutto.
Che dove giunge non c'è fine,
Né occhio che conosca,
Invano il tempo si ingegna
Di nascere dal vuoto...
Non vi è nulla, pure c'è
La sete che l'assorbe,
Un cupo vuoto che pareggia
Il più cieco obblio.
- Dal peso del brumoso eterno,
Scioglimi, sacro Padre,
Ti sia il nome lode eterna
Sull'universa scala;
Chiedimi, Padre, ogni prezzo,
Ma dammi un'altra sorte,
Giacché tu sei fonte di vita,
Dispensator di morte;
Toglimi il nimbo immortale
E il fuoco degli sguardi,
E dammi in cambio di tutto
Un attimo d'amore...
Dal caos sono nato, Padre,
Ritornerei nel caos...
Sono il figlio della quiete,
Anelo alla quiete...
- Iperion che dai burroni
Spunti coll'universo,
Non chieder segni e prodigi
Che non han nome e volto;
Tu vuoi valere quant'un uomo,
Rassomigliarti a loro?
Periscan gli umani tutti,
Ne nasceranno ancora.
Solo nel vento essi plasman
Deserti ideali -
Quand'onde trovan una tomba,
Addietro sorgon onde;
Essi han solo le lor stelle,
Di buona e mala sorte,
Noi oltre tempo, oltre spazio
Siamo oltre morte.
Del grembo, dell'eterno ieri
Vive l'oggi che muore,
Un sole se si spegne in ciel,
Ancor s'accende sole.
Di sorgere per sempre illuso,
Morte l'incalza e pasce,
Che tutti nascon per morire
E muoion per rinascer.
Ma tu, Iperion, perduri
Dovunque tramonti...
Chiedimi ii detto primordiale -
Offrirti la saggezza?
Vuoi ch'io dia a quella boca,
Tal voce che il canto
Rimuova i monti e le selve
E l'isole del mare?
Vuoi forse compiere coi fatti
Giustizia e valore?
Il mondo a pezzi di darei
A farne il tuo regno.
Ti do velieri e velieri,
Eserciti a percorrer
In lungo e in largo l'orbe,
La morte non consento...
Per chi vuoi tu morire, sai?
Rivolgiti e torna
A quella terra errabonda:
Vedrai ciò che t'attende.
* * *
Al suo posto destinato
Risale Iperione
E come tutti i giorni d'ieri,
Riversa la sua luce.
Giacché la sera è al tramonto,
La notte sta calando;
La luna sorge piano piano
Tremante, dalle onde.
E inargenta di faville
I sentier dei folti.
Sotto il filar di alti tigli
Due giovini sedean.
- Accogli la mia fronte al seno,
Amore, a riposare
Ai raggi del sereno occhio
Inenarrabil dolce;
Col fascino del freddo lume
Pervadi i miei pensieri,
Eterna quiete spandi su
La notte di tormenti.
Del tuo raggio vegliami
A spegnere il mio duolo,
Che il mio primo amore sei
E l'ultimo mio sogno.
Dall'alto Iperion guardava
Quant'eran trasognati;
Appena lui le cinse il collo
Che lei lo abbracciava...
Odoran fiori argentini
E cadon, dolce pioggia,
Sui capi di quei pargoli
Con bionde lunghe chiome.
Ebbra d'amore, lei innalza
I suoi occhi. Vede
Il suo Èspero. Gentile
Gli affida i desii:
- Scendi da me, Èspero blando,
Fluendo su un raggio,
Pervadi il bosco, il pensiero
Rischiara la mia sorte!
Lui tremola com'altre volte
Sui boschi e sui colli,
Guidando solitudini
Di tumultuose onde;
Ma più non piomba come allora
Nei mari dagli alti:
- Che importa te, volto di polve,
Se fossi io od altri?
Vivendo nell'angusto cerchio
Vi fa da scorta il fato,
Mentre nel mio mondo sono
Eterno, freddo, alto.
Così narran le fiabe,
Una fanciulla senza pari,
Di gran ceppo regale.
Ed era unica ai parenti,
Stupenda fra le belle,
Com'è la Vergine fra i santi,
La luna fra le stelle.
Dall'ombra delle volte altere
Lei suo passo volge
Alla finestra, appartata,
Sta Èspero aspettando.
Guardava all'orizzonte come
Sui mari sorge e splende,
Sui sentieri ondeggianti
Lui guida nere navi.
Lo vede oggi, lo rivede,
Così il desio spunta;
Pur lui, mirandola da tanto,
Di lei si innamora.
Quando lei poggia sulle braccia,
Sognando, le sue tempie,
D'amor struggente si riempe
Il cuore nonché l'alma.
E quanto vivido s'accende
Suo raggio ogni sera,
Sull'ombra cupa del palagio:
Che lei si mostrerà.
* * *
E a passo a passo dietro lei
Lui filtra nella stanza,
Tessendo un laccio di bagliore
Dai suoi freddi raggi.
Pur quando si adagia al letto
La figlia per dormire,
Le sfiora il petto e le mani,
Le chiude il dolce ciglio;
E dallo specchio irraggiando
Innonda il suo corpo,
Gli occhi chiusi che palpitan,
Il suo viso assorto.
Lei lo guardava sorridente,
Lui nello spechio avvampa,
Giacché nel sogno l'inseguiva
Per irretirle l'alma.
E lei nel sonno sospirando,
Gli parla con gran pena:
Oh, tu signor delle mie notti,
Perché non vieni? Vieni!
Scendi da me, Èspero blando
Fluendo su un raggio,
Pervandi casa e pensiero,
Rischiara la mia vita!
Lui ascoltava abbrividendo,
Più vivo s'accendea
E come folgore piombava,
Nel mare affondando;
E l'acqua ove è caduto,
In cerchie s'arruota
E dal profondo più occulto
Un fiero giovin sorge.
Al par di soglia varca lui
Il davanzale, lieve,
E tiene in mano un bordone
Di canne coronato.
Pareva un giovin voivoda
Con chiome d'oro molle,
Un velo livido s'annoda
Alle ignude spalle.
E l'ombra del diafan volto
È cereo candore -
Un morto bello, dagli occhi
Viventi di bagliore.
- Dalla mia sfera venni appena,
Risponderti al richiamo,
Il cielo ho per mio padre,
Per madre, ho il mare.
Che nella tua stanza venga,
Guardarti da vicino,
Col mio azzurro sono sceso
E nacqui dalle acque.
Oh, vien! tesoro senza pari,
Il mondo abbandona;
Io sono l'altissimo Èspero il superno
E tu mi sarai sposa.
Là, nei palagi di corallo,
Per secoli di fila
Il mondo dell'oceano, intero,
Sara per ubbdirti.
- Sei bello come solo in sogno
Un angelo s'affaccia,
Ma io mai camminerò
La via che mostrasti;
Straniero il motto, il cospetto,
Tu brilli senza fiato,
Che io son viva, tu sei morto,
Il tuo occhio, ghiaccio.
* * *
Passò un giorno e poi tre
Ed Èspero, di notte,
Sta risorgendo su di lei,
Nei suoi raggi, vero.
Onde di lui, nel suo sonno,
Dovette ricordare;
L'anelito le morde il cuor
Per il signor dell'onde:
- Scendi da me, Èspero blando
Fluendo su un raggio,
Pervadi casa e pensiero,
Rischiara la mia vita!
Quando dal cielo la udì,
Si spense di dolore,
Il ciel si mise a rotear
Dov'egli si disperde;
Purpuree nell'aria fiammate
Pervadon tutto il mondo,
E dalle faglie del caos
Si plasma un fiero volto;
Sopra le sue nere chiome
Il serto par che bruci,
Giungea a volo in verità
Flutto d'ardor solare.
Dal nero velo si dispiegan
Marmoree le braccia,
Avanza assorto, triste, lui,
E pallido in faccia,
Sol gli occhi grandi e profondi
Chimerici risplendon,
Due aneliti mai sazi
Di tenebra ricolmi.
- Dalla mia sfera venni appena
Per ubbidirti ancora,
Il sole ho per mio padre,
Per madre ho la notte;
Oh, vien tesoro senza pari,
E abbandona il mondo;
Io sono Èspero il superno
E tu mi sarai sposa.
Oh, alle tue bionde chiome
Io appenda serti astrali,
Perché nei miei cieli spunti
Piu fiera degli astri.
- Sei bello come solo in sogno
Un demone s'affaccia,
Ma io mai camminerò
La via che mostrasti!
Dal tuo crudo amor mi dolgon
Del petto i precordi,
I grandi occhi grevi angoscian,
Il tuo sguardo arde.
- Come vorresti ch'io scenda?
Tu non hai mai compreso
Che io sono fuori morte
Mentre tu sei mortale?
- Non cerco apposite parole,
Né so come spiegarmi -
Benché tu parli chiaramente,
Non posso penetrarti;
Ma se tu vuoi che in buona fede
Io t'abbia sempre caro
In terra scendi a trovarmi,
Sii come me, mortale.
- Mi chiedi l'immortalità
In cambio di un bacio.
Eppure voglio che tu sappia
Quanto io possa amarti;
Sì, nascerò con il peccato,
Subendo un'altra legge;
Sono legato all'eterno,
Slegato voglio esser.
E se ne va... Se ne andò.
L'amor per la fanciulla,
Dall'orbita del ciel lo sradicò,
Parecchio tempo spento.
* * *
In questo mentre, Cãtãlin,
Infante assai furbo,
Che empie i calici di vino
Degli ospiti al convivio,
Paggio che porta a passo a passo
Lo strascico regale,
Abbandonato trovatello
Ma dallo sguardo audace,
Con due gote l'imbroglione,
Peonie vermiglie,
Lui si insinua furtivo
Guardando Cãtãlina.
Oh, come bella mi sbocciò!
E altera! Da nel cuore;
Sù, Cãtãlin, tocca a te
Metterti alla ventura.
E dolcememte, di passaggio
La prese in un angol;
- Che vuoi, sta' buono, Cãtãlin!
Ma bada ai fatti tuoi.
- Che voglio? Tu non stia più
Soprappensiero sempre,
E rida invece e mi dia
Un bacio, solo uno.
- Non so neppur che mi domandi,
Lasciami star, va' via -
Per Èspero del cielo, ahi,
Mi colse un duol di morte.
- Se non lo sai, t'insegnerei
L'amore a poco a poco,
Ma non sdegnarti, ci vorrebbe
Del bello e del buono.
Qual cacciator che mette al folto
Il laccio all'uccello,
Allorche un braccio porgerò,
Tu cingimi col braccio;
E i tuoi occhi si trattengan
Nei miei occhi, intenti...
Se per la vita t'alzerò,
Sollevanti sui piedi;
Quando ripiego il mio volto,
In alto ferma il tuo,
Ci guarderemo dolcemente
Per sempre vagheggianti;
E che l'amore pienamente
Ti sia rivelato,
Quando baciandati m'inclino,
Rispondimi con baci.
Lei dava ascolto al garzone,
Stupita e distratta;
E vereconda e carina,
Non vuole eppur si lascia.
Poi sottovoce: -Ti sapevo
Così sin da bambino;
Pettegolo e perdigiorno,
Saresti un par mio...
Ma un Èspero, emerso da
La quiete dell'obblio,
Dà orizzonte infinito
All'eremo del mare.
E di nascosta abbasso gli occhi,
Che il pianto me li affoga
Quando dell'acqua l'onde scorron
Verso di lui viaggiando;
Con senza pari amore splende,
Per spegnere il mio duolo,
Solo che sempre piu s'innalza
Che giungerlo non possa.
Pervadon tristi i freddi raggi
Dal mondo oltreumano,
Per sempre l'amerò ma sempre
Se ne terrà lontano...
Sicché i miei giorni sono
Deserti come steppe,
Le notti invence - fascino divino -
Che non posso intender.
- Tu sei ingenua e come...
Su, scappiam pel mondo!
Di noi le tracce andranno perse
E ci oblieranno.
Saremo tutt'e due saggi
Saremo lieti e salvi;
Non più rimpiangerai parenti
Né èsperi vorrai.
* * *
Si mosse Èspero. Ai cieli
Sue ali aggrandivan,
Correvan vie di millenni
In altrettanti istanti.
Un ciel di stelle al di sotto,
Di sopra un ciel di stelle -
Sembrava fulmine incessante
Fra d'esse tumultuando.
Dal cupo caos dei burroni,
A sé intorno in giro
Vedeva, come al primo giorno,
Le luci scaturire.
E scaturendo lo avvolgon
Come dei mari, a nuoto -
Lui vola - spirito che anela,
Finchè scompare tutto.
Che dove giunge non c'è fine,
Né occhio che conosca,
Invano il tempo si ingegna
Di nascere dal vuoto...
Non vi è nulla, pure c'è
La sete che l'assorbe,
Un cupo vuoto che pareggia
Il più cieco obblio.
- Dal peso del brumoso eterno,
Scioglimi, sacro Padre,
Ti sia il nome lode eterna
Sull'universa scala;
Chiedimi, Padre, ogni prezzo,
Ma dammi un'altra sorte,
Giacché tu sei fonte di vita,
Dispensator di morte;
Toglimi il nimbo immortale
E il fuoco degli sguardi,
E dammi in cambio di tutto
Un attimo d'amore...
Dal caos sono nato, Padre,
Ritornerei nel caos...
Sono il figlio della quiete,
Anelo alla quiete...
- Iperion che dai burroni
Spunti coll'universo,
Non chieder segni e prodigi
Che non han nome e volto;
Tu vuoi valere quant'un uomo,
Rassomigliarti a loro?
Periscan gli umani tutti,
Ne nasceranno ancora.
Solo nel vento essi plasman
Deserti ideali -
Quand'onde trovan una tomba,
Addietro sorgon onde;
Essi han solo le lor stelle,
Di buona e mala sorte,
Noi oltre tempo, oltre spazio
Siamo oltre morte.
Del grembo, dell'eterno ieri
Vive l'oggi che muore,
Un sole se si spegne in ciel,
Ancor s'accende sole.
Di sorgere per sempre illuso,
Morte l'incalza e pasce,
Che tutti nascon per morire
E muoion per rinascer.
Ma tu, Iperion, perduri
Dovunque tramonti...
Chiedimi ii detto primordiale -
Offrirti la saggezza?
Vuoi ch'io dia a quella boca,
Tal voce che il canto
Rimuova i monti e le selve
E l'isole del mare?
Vuoi forse compiere coi fatti
Giustizia e valore?
Il mondo a pezzi di darei
A farne il tuo regno.
Ti do velieri e velieri,
Eserciti a percorrer
In lungo e in largo l'orbe,
La morte non consento...
Per chi vuoi tu morire, sai?
Rivolgiti e torna
A quella terra errabonda:
Vedrai ciò che t'attende.
* * *
Al suo posto destinato
Risale Iperione
E come tutti i giorni d'ieri,
Riversa la sua luce.
Giacché la sera è al tramonto,
La notte sta calando;
La luna sorge piano piano
Tremante, dalle onde.
E inargenta di faville
I sentier dei folti.
Sotto il filar di alti tigli
Due giovini sedean.
- Accogli la mia fronte al seno,
Amore, a riposare
Ai raggi del sereno occhio
Inenarrabil dolce;
Col fascino del freddo lume
Pervadi i miei pensieri,
Eterna quiete spandi su
La notte di tormenti.
Del tuo raggio vegliami
A spegnere il mio duolo,
Che il mio primo amore sei
E l'ultimo mio sogno.
Dall'alto Iperion guardava
Quant'eran trasognati;
Appena lui le cinse il collo
Che lei lo abbracciava...
Odoran fiori argentini
E cadon, dolce pioggia,
Sui capi di quei pargoli
Con bionde lunghe chiome.
Ebbra d'amore, lei innalza
I suoi occhi. Vede
Il suo Èspero. Gentile
Gli affida i desii:
- Scendi da me, Èspero blando,
Fluendo su un raggio,
Pervadi il bosco, il pensiero
Rischiara la mia sorte!
Lui tremola com'altre volte
Sui boschi e sui colli,
Guidando solitudini
Di tumultuose onde;
Ma più non piomba come allora
Nei mari dagli alti:
- Che importa te, volto di polve,
Se fossi io od altri?
Vivendo nell'angusto cerchio
Vi fa da scorta il fato,
Mentre nel mio mondo sono
Eterno, freddo, alto.
(Traduzione di Geo Vasile)
Gentile Francis Stark grazie della pstazione di LUCEAFĂRUL Appenaa oggi per caso ho scoperto e ho letto anche il più che giusto e accurato saggio introduttivo. E' lei l'autore? Mi può rispondere via e-mail geovsl@yahoo.com
RispondiEliminaBuona sera, le ho risposto tramite e-mail, la ringrazio anche qui per il suo commento e il suo giudizio per il testo che ho scritto, oltre che per il suo lavoro su questo poema straordinario.
EliminaChe delizia!
RispondiElimina